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giovedì 19 dicembre 2013

A che punto è la “web tax”.

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Durante il suo primo discorso da segretario all’Assemblea nazionale del Partito Democratico, Matteo Renzi ha criticato la cosiddetta “web tax”, un nuovo sistema di tassazione per le società attive su Internet approvata la settimana scorsa in commissione tra gli emendamenti della legge di stabilità, che dovrà essere votata dal Parlamento entro la fine dell’anno. L’iniziativa è partita da alcuni parlamentari del PD e per questo Renzi ha detto che “abbiamo infilato un problema peggio dell’altro” sul tema dell’innovazione e che argomenti come una nuova tassazione delle società su Internet debba essere affrontata in sede europea e non da un singolo stato.
La prima proposta
Di una tassa per le aziende online – specificamente indirizzata a quelle più grandi ed estere come Google, Facebook e Amazon – si parla da diverse settimane. Francesco Boccia, deputato del PD e presidente della commissione Bilancio della Camera, è stato tra i primi a proporre una “web tax” con un disegno di legge presentato lo scorso 4 ottobre. In seguito, dopo un primo accantonamento, la sua proposta è stata trasformata in un emendamento alla legge di stabilità da parte di Edoardo Fanucci (PD), che ha ricevuto in commissione Bilancio l’appoggio di Sinistra Ecologia Libertà e di Südtiroler Volkspartei, portando alla sua approvazione e al conseguente inserimento nella legge.
Le aziende online e le tasse
I promotori della “web tax” ritengono che debbano essere cambiate le regole per le società online perché quelle attuali consentono loro di registrare i loro ricavi presso un’altra società del gruppo, che spesso ha sede in un paese con una tassazione più favorevole rispetto a quella italiana. Amazon, per esempio, ha sede legale in Lussemburgo per le sue attività in Europa, mentre Facebook e Google registrano i loro ricavi in Irlanda, dove c’è una imposta sul reddito delle imprese molto favorevole. Si stima che nel 2012 Facebook abbia pagato all’Agenzia delle Entrate circa 192 mila euro, mentre Google – che è più presente con personale e attività in Italia – circa 1,8 milioni di euro a fronte di decine di milioni ricavati grazie alle inserzioni pubblicitarie o nel caso di Amazon con le vendite dirette di prodotti. È bene comunque ricordare che queste società non fanno nulla di illegittimo e sfruttano le regole del mercato unico europeo, che permettono alle società di lavorare e operare in tutti i paesi dell’Unione Europea senza dover aprire una sede legale in ciascuno di questi.
Che cosa prevede la “web tax”
Gli emendamenti approvati alla fine della settimana scorsa introducono l’obbligo di possedere una partita IVA italiana per tutte le società che acquistano e vendono pubblicità e servizi come quelli legati al commercio elettronico. I pagamenti dei ricavi derivanti dai servizi pubblicitari online dovranno essere inoltre tracciabili. Nella pratica, significa che una pubblicità da mostrare su un sito dovrà essere venduta solo da imprese registrate con partita IVA in Italia, evitando in questo modo che il nostro paese sia scavalcato nella compravendita pubblicitaria. Le pubblicità online sono spesso acquistate e vendute all’estero, con meccanismi che tagliano fuori il fisco italiano, che non può rilevare le transazioni né tassarle.
La “web tax” prevede inoltre nuovi sistemi per valutare il reddito delle società controllate italiane legato alla pubblicità online e i loro rapporti con le “aziende madre” straniere. Nell’emendamento si dice che per fare pubblicità su Internet una controllata italiana affronta costi bassi sia per quanto riguarda l’organizzazione sia per lo scarso numero di impiegati. Elementi che devono essere tenuti in considerazione per determinare reddito e successiva tassazione, dice la proposta.
Critiche
L’approvazione degli emendamenti sulla “web tax” su iniziativa del PD è stata criticata da diversi membri dello stesso partito. A metà della scorsa settimana i deputati PD Giampaolo Galli e Marco Causi avevano ottenuto l’accantonamento della proposta, ricordando che sarebbe andata contro le regole dell’Unione Europea sul mercato unico e contro quelle dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Il timore è che le nuove norme possano essere bocciate dopo il loro inserimento nel bilancio dello Stato e che quindi ci possa poi essere un buco, dovuto all’impossibilità di riscuotere la “web tax”.
Molte critiche alla proposta sono state formulate anche all’estero da diverse organizzazioni e giornali. La rivista statunitense Forbes ha pubblicato un duro articolo ricordando che l’obbligo di partita IVA italiana è “senza dubbio” in contrasto rispetto a quanto prevede la legge europea: sarebbe illegale fin dalla sua approvazione e costerebbe una sanzione all’Italia. Secondo altri una “web tax” terrebbe lontani gli investitori stranieri e renderebbe molto più complicata la gestione della pubblicità a livello globale, con conseguenze gravi per le aziende italiane che promuovono all’estero su Internet i loro prodotti.
Quanto
Nelle ultime settimane sono circolate cifre molto diverse tra loro su quanto potrebbe fruttare al fisco la “web tax”. C’è chi ha parlato di poche decine di milioni di euro, chi di qualche centinaio e chi si è spinto come Boccia a immaginare un miliardo di euro, cifra che però è in contraddizione con le stime sui ricavi complessivi della pubblicità digitale in Italia, tra i 700-800 milioni di euro all’anno. Il problema è che non è possibile fare una stima affidabile di quanto denaro porterebbe la “web tax”, né quale sarebbe l’entità del suo impatto sul settore.
Francesco Boccia
Nonostante le numerose critiche e lo stesso invito del segretario del suo partito a rivedere il provvedimento, il deputato Francesco Boccia continua a sostenere la necessità di arrivare all’applicazione di una “web tax”. In una intervista pubblicata oggi dal Tempo, spiega che “stiamo assistendo alla più grande emorragia finanziaria della storia del capitalismo”. Alla domanda sull’incompatibilità delle nuove regole con quelle previste dalle leggi europee ammette che il Trattato di Roma prevede la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone aggiungendo però che “all’epoca Internet non esisteva” (ammettendo però così l’incompatibilità della norma che propone con i trattati in vigore).
Boccia, infine, sostiene che le grandi aziende estere di Internet “in Italia non hanno mai investito un euro”. In realtà alcune delle più importanti hanno investito diverse risorse nel nostro paese. Due esempi: Google Italia ha la propria sede a Milano e ha alle sue dipendenze quasi 150 persone, che si occupano principalmente dei servizi pubblicitari che a loro volta producono un importante indotto per centinaia di aziende; Amazon ha costruito e gestisce due centri per la distribuzione delle sue merci a Castel San Giovanni (Piacenza) e prevede a pieno regime di impiegare oltre 1000 persone, cui si aggiungono i 150 del centro assistenza clienti di Cagliari, che diventeranno 500 entro i prossimi cinque anni.
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domenica 27 ottobre 2013

Condono fiscale, buco da 3,5 miliardi tenuto nascosto per undici anni. - Marco Palombi

Condono fiscale, buco da 3,5 miliardi tenuto nascosto per undici anni


Il provvedimento ideato da Tremonti e Berlusconi del 2002 doveva portare 5,2 miliardi. La Corte dei Conti scopre che ne sono arrivati solo 1,8. Ora il governo, per coprire la voragine nei bilanci pubblici, vuole tornare dagli evasori che non hanno mai versato il dovuto per battere cassa.

Vi ricordate il condono fiscale tombale del 2002 di Berlusconi e Tremonti? Ebbene, è ancora vivo e lotta insieme a noi: è tanto vero che – a undici anni dall’approvazione – si scopre che i “condonati” hanno pensato bene di non pagare tutto il dovuto (anche se, ora, potrebbero avere una brutta sorpresa). Secondo un documento della Corte dei Conti – richiesto dal presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, mentre si lavorava sull’ultimo Documento di economia e finanza – al 10 settembre di quest’anno mancano all’appello la bellezza di tre miliardi e mezzo di euro circa.
Secondo la magistratura contabile, il gettito complessivo per sanare definitivamente ogni irregolarità sull'IrpefIrpeg, addizionali regionali, Ilor e quant’altro al dicembre 2002 doveva essere complessivamente di 26 miliardi: non si tratta di una previsione, ma del calcolo di quanto dovuto da chi ha aderito al condono ricevendo in cambio benefici come un sostanzioso sconto sulle tasse non pagate e la cancellazione di eventuali reati fiscali. Peccato che poi parecchi abbiano deciso di non pagare tutto, cioè di evadere sull’evaso. D’altronde la legge pareva scritta apposta per farlo: il condono, infatti, si considerava completato dopo aver pagato la prima rata. Di più: a chi sceglieva di rateizzare non si chiedeva alcuna fideiussione sul rimanente debito con l’erario.
Risultato: se uno dopo la prima rata non pagava più, partiva la solita catena per la riscossione coatta tra Agenzia delle Entrate ed Equitalia; il tizio però nel frattempo non poteva essere accusato per i reati eventualmente commessi né gli si potevano applicare le multe cancellate dal condono.
La cosa venne fuori nel novembre 2008: su 26 miliardi ne abbiamo riscossi meno di 21, mise a verbale la Corte dei Conti. Per la precisione mancano all’appello 5,2 miliardi, il 16,2 per cento del totale al netto di sanzioni e interessi. Il governo, che poi era lo stesso che aveva fatto il condono, reagì sgomento: impossibile, inaudito, adesso ci pensiamo noi, gli espropriamo tutto. Siamo alla manovra del 2010, quando la commissione Ue comincia a spingere per l’austerità. Lì Tremonti si gioca il tutto per tutto: entro ottobre del 2011 l’Agenzia delle Entrate deve “effettuare una ricognizione” dei contribuenti che non abbiano ancora provveduto ai pagamenti e avviare nei trenta giorni successivi le procedure di riscossione coatta.
Bene così, problema risolto. O quasi: nell’estate 2011 Tremonti prorogò il termine al 31 dicembre 2012 e poi, tanto per stare tranquilli, Monti decise di fissarlo alla fine del 2013. D’altronde mica è una cosa così facile capire chi ha pagato e chi no: il condono del 2002 in qualche caso – almeno 34 mila contribuenti – fu addirittura anonimo, modello “scudo fiscale”. Alla fine, insomma, in sei anni si è riusciti a recuperare 1,8 miliardi (comprensivi, peraltro, di sanzioni e interessi per i ritardi sulle rate). E i benefici del condono? Sono ancora là.
E qui veniamo all’oggi. Quei tre miliardi e mezzo che mancano all’appello sono tornati d’attualità mentre gli uffici del Tesoro e le commissioni parlamentari consumavano gli occhi per far tornare i conti del Def: conti, sia detto per inciso, che per il 2013 tornano solo perché finora agli atti risulta che dovremo pagare la rata dell’Imu di dicembre per complessivi 2,4 miliardi di euro. In quei giorni, come detto, Francesco Boccia chiese alla Corte dei Conti notizie sull’annosa vicenda del condono tombale del 2002 scoprendo quei 3,4 miliardi dimenticati: “Adesso le proroghe sono finite – spiega al Fatto Quotidiano il deputato del Pd – e dobbiamo fare di tutto, già nella legge di stabilità, per recuperare i soldi: la prima cosa è prevedere che chi non è in regola coi pagamenti perde subito i benefici del condono, poi studieremo se applicare penalizzazioni accessorie”.
In sostanza, chi non ha pagato le rate dopo la prima potrebbe non solo trovarsi a dover sborsare tutte le tasse dovute senza alcuno sconto (anche cinque volte più di quanto pattuito a suo tempo), ma pure finire sotto la lente della magistratura per eventuali reati fiscali. Si vedrà, ma va detto che i precedenti non lasciano ben sperare: come ha rivelato l’Agenzia delle Entrate nel 2005, in sessant’anni di condoni solo quelli del 1989 e del 1992 hanno rispettato le previsioni di gettito.