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mercoledì 16 giugno 2021

“Progetto bellezza”, i soldi promessi da Renzi all’Italia minore non sono mai arrivati. La denuncia da Padova: “Piano approvato, poi non si è saputo nulla”. - Giuseppe Pietrobelli

 

La graduatoria finale approvata nel 2018 aveva selezionato 273 progetti, giudicati meritevoli di spartirsi i 150 milioni di euro per il recupero dei "luoghi delle comunità". Ma i fondi sono ancora bloccati. "Abbiamo fatto tutto in regola, rispettando i tempi, ma non riusciamo ad avere risposte", dice la sindaca di Camposampiero, Katia Maccarrone, che ha chiesto 310mila euro per il restauro della Torre dell'orologio.

Recuperare i luoghi delle nostre comunità significa tornare noi stessi. Per questo, accanto ai grandi progetti, abbiamo lanciato un appello a tutti gli italiani. Segnalateci i luoghi dell’identità e della bellezza che hanno bisogno di un aiuto economico e finanziario per ripartire. Su questo tema ci giochiamo il futuro dell’Europa“. Così parlava Matteo Renzi nel 2016, da presidente del Consiglio, promettendo soldi a pioggia all’Italia minore: un’iniziativa battezzata, enfaticamente, “Progetto bellezza”. Cinque anni dopo, enti locali, pro loco e associazioni sono ancora lì che attendono. I soldi non li hanno visti, pur avendo presentato entro i termini i piani di restauro o di ripristino. Anzi, fanno perfino fatica a dialogare con la Presidenza del Consiglio che ha insediato una commissione esaminatrice, visto che i moltissimi progetti presentati superavano la disponibilità finanziaria: la graduatoria finale ne aveva selezionati 273, giudicati meritevoli di spartirsi i 150 milioni di euro stanziati.

Una denuncia in questo senso – ma è solo uno dei tanti esempi – viene dalla provincia di PadovaKatia Maccarrone, insegnante iscritta al Pd, è sindaca di Camposampiero, eletta con una lista civica di centrosinistra. “Noi abbiamo fatto tutto in regola, rispettando i tempi. E abbiamo chiesto 310mila euro per restaurare la torre medievale di Porta Padova, o dell’orologio. Dopo che il progetto è stato approvato non abbiamo saputo più nulla. Ma sappiamo che le lamentele arrivano anche da altre parti d’Italia”, spiega. Una storia di promesse governative non sono mantenute o ampiamente ridimensionate. “La nostra iniziativa è partita dalla Pro Loco, che ha presentato il progetto di ristrutturazione della torre”, prosegue la sindaca. “Attualmente si può accedere solo al piano terra, ma sistemando le scale e i locali nei diversi piani si potrebbero realizzare locali per piccole mostre e arrivare fino alla cima, da dove si può osservare la campagna veneta”.

Questa l’idea, che sembrava aver incontrato i favori romani. La torre di Camposampiero, infatti, è indicata al 130° posto di una graduatoria a importi crescenti: al primo, con soli 2mila euro stanziati, il restauro di un cancelletto ligneo di balaustra policromo nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, a Paternò (Catania). I tre interventi più onerosi, del valore di 2 milioni di euro ciascuno, riguardano invece il Castello di Rosciano (Pescara), l’ex Ammasso del Grano a San Daniele Po (Cremona) e il tempietto dei Segusini con la chiesa di San Pietro a Mel, in provincia di Belluno. In realtà, di quell’elenco sembra essere rimasto ben poco. “Avevamo presentato il progetto nei tempi”, ripercorre la sindaca. “Ci hanno comunicato che era stato accolto il 15 dicembre 2017. Abbiamo fatto le corse per presentare il progetto esecutivo nel 2019. Poi più nulla. Telefoniamo e non riusciamo ad avere risposte. Ci sarebbero problemi, dicono, riguardo al documento che descrive il bene come “monumentale”, risalente al 1923, mentre a Roma lo vorrebbero come previsto oggi dal Codice dei Beni Culturali. Ma quello è il documento che noi abbiamo“. Che si tratti di una torre medievale non c’è dubbio, visto che venne eretta nel 1085 per volere di Tiso e Gerardo da Camposampiero. È alta 24 metri e ha una campana in bronzo che risale al 1450, una delle più antiche d’Italia.

Di recente alcuni deputati bergamaschi hanno presentato un ordine del giorno in cui affermano che una successiva scrematura effettuata dalla Commissione ha portato “a ritenere finanziabili solamente 22” dei 273 interventi precedentemente selezionati. Per questo hanno chiesto di riaprire le verifiche “con la finalità di consentire l’impiego integrale delle risorse stanziate”. Il numero è indicato nel decreto della Presidenza del Consiglio del 3 settembre 2019, firmato dall’allora sottosegretario Giancarlo Giorgetti, che elenca “gli enti attuatori ammessi alla fase successiva della stipula delle convenzioni con il Ministero per i beni e le attività culturali”. Solo, quelli, infatti, avrebbero presentato una “documentazione completa e coerente con il progetto”. Altre interrogazioni parlamentari hanno chiesto di sbloccare i fondi già stanziati per consentire l’esecuzione degli interventi. Evidentemente i sindaci esclusi non sono stati informati che il primo elenco, del 2018, non corrisponde a quello delle opere considerate meritevoli di essere salvate.

IlFQ

venerdì 22 novembre 2019

Galan condannato in Corte dei Conti. “Dirottò soldi per salvaguardia della Laguna”. Dovrà “solo” 764mila euro grazie alla prescrizione. - Giuseppe Pietrobelli

Galan condannato in Corte dei Conti. “Dirottò soldi per salvaguardia della Laguna”. Dovrà “solo” 764mila euro grazie alla prescrizione

I fatti risalgono al biennio 2004-2005 e la maggior parte dei fondi distratti è ormai prescritto. I giudici contabili hanno discusso, alla fine, di un addebito pari a un milione 274 mila euro, per il 60 per cento contestati a Galan e per il 40 per cento all'assessore Chisso, assolto. L'ex governatore veneto dovrà quindi risarcire 'solo' 764mila euro dei circa 24 milioni di fondi finiti al Patriarcato, allora retto da Angelo Scola, e utilizzati per ristrutturare Sede patriarcale, seminario patriarcale e Basilica della Salute.

La condanna della Corte dei Conti di Venezia nei confronti dell’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan, non poteva avvenire in un momento più tormentato. Dopo le eccezionali acque alte si sta discutendo di Mose, ritardi nei lavori e finanziamenti per la salvaguardia di Venezia. Ed ecco che Galan, già coinvolto nello scandalo Mose del 2014, ora dovrà risarcire la Regione con 764mila euro per aver dirottato al Patriarcato fondi della Legge Speciale per Venezia che erano destinati a interventi di disinquinamento e salvaguardia della Laguna. Nell’epoca in cui regnava il Doge-Galan accadeva anche questo. Era il 2004-2005, il Patriarca era Angelo Scola: arrivato nel 2002, sarebbe andato dalla Laguna a Milano nel 2011. Non furono pochi soldi, ma parecchi milioni di euro, anche se la vicenda finita alla sezione giurisdizionale dei giudici contabili ha riguardato solo un 1,27 milioni di euro. La parte restante è stata coperta dalla prescrizione.
Assieme a Galan – che è rimasto contumace nel processo – era stato citato anche l’assessore alla Mobilità Renato Chisso (pure lui arrestato per le tangenti del Mose). Ma è stato assolto perché a proporre quei finanziamenti fu Galan e lui si limitò a votare due delibere. Su questo punto, nella sentenza, ricorrono anche i nomi degli assessori veneti di allora. Per una delibera del 2004 si trattava di Fabio Gava, Giancarlo Conta, Raffaele Grazia, Antonio Padoin, Raffaele Zanon e Floriano Pra (nel frattempo deceduto). Per una delibera del 2005 gli assessori erano Sante Bressan, Marialuisa Coppola, Ermanno Serrajotto e ancora Conta, Grazia e Zanon. Ma la Procura non ha ritenuto di portarli a giudizio, limitandosi alle posizioni di Galan e Chisso.
Secondo il collegio giudicante presieduto da Maurizio Mazza, la condotta di Galan fu “gravissima ed inescusabile”, per aver “proposto alla Giunta l’adozione di una deliberazione, in violazione di norme di legge” e per essere poi intervenuto anche presso la Presidenza del consiglio per ottenere una specie di autorizzazione. La Procura si era mossa nel 2014 quando, durante lo scandalo delle mazzette, i giornali scrissero di quel finanziamento di cui aveva beneficiato non solo il Patriarcato, ma anche la Comunità Ebraica veneziana.
Perché i soldi della Salvaguardia erano serviti a ristrutturare beni religiosi? La Regione, nel 2004, aveva revocato finanziamenti per interventi sulla Laguna pari a 26 milioni di euro. E nel 2005 la giunta aveva “deliberato di confermare la revoca di quei finanziamenti e di devolvere detta somma, per 24 milioni alla Diocesi Patriarcato di Venezia per finanziare il completamento dei lavori di restauro della Sede patriarcale, del Seminario patriarcale e della Basilica della Salute, e per 2 milioni di euro alla Comunità ebraica, per i lavori di restauro dell’edificio adibito all’assistenza degli anziani”. Ma quei soldi erano destinati ad altro, ovvero alla Laguna. Attorno ai lavori si è poi innestata una complicata vicenda, in due stralci e in tempi diversi, che è arrivata fino al 2016 e ha portato la Regione a chiedere la restituzione di alcuni milioni di euro al Patriarcato.
I giudici contabili hanno discusso, alla fine, di un addebito pari a un milione 274 mila euro, per il 60 per cento contestati a Galan e per il 40 per cento a Chisso (assolto). Si tratta della “sola parte per la quale non è ancora intervenuta la prescrizione”. Quest’ultima è stata calcolata retrocedendo nel tempo all’ultimo quinquennio rispetto alle date delle contestazioni. Si sono così salvati dalla prescrizione solo tre pagamenti risalenti al novembre-dicembre 2013. Gli altri erano precedenti. La condotta di Galan, concludono i giudici, “ha comportato la distrazione di fondi originariamente stanziati per la realizzazione di interventi di disinquinamento o di prevenzione dall’inquinamento, per la cui programmazione e finanziamento era competente la Regione Veneto, in favore di un soggetto privato per il restauro di immobili”.