Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 17 marzo 2022
CHI E' DAVVERO ZALENSKY? - Saverio Masi
domenica 23 gennaio 2022
Elisabetta Belloni, chi è? Orientamento politico, stipendio, vita privata, marito e figli. - Domenico Iovane
Elisabetta Belloni, chi è: una figura che è nata e cresciuta nel campo della diplomazia italiana ed internazionale. Ufficialmente fuori da ogni contesto e posizione politica, si definisce “orgogliosa di non avere nessuna matrice politica”. Il suo nome è uscito in occasione delle elezioni del Presidente della Repubblica 2022.
Elisabetta Belloni: orientamento politico.
Ufficialmente Elisabetta Belloni non fa parte di un partito politico specifico. Ha avuto ruoli istituzionali con governi sia di destra sia di sinistra. Viene considerato come un profilo politico “indipendente”. La sua carriera politica, istituzionale e diplomatica è sempre stata neutrale.
Dunque, il suo è un orientamento politico che è da considerarsi da “tecnico”, perché Belloni ha sempre rifiutato di esternare appartenenze o preferenze politiche. In un’intervista del marzo 2007 disse: “Io sono orgogliosa di non avere nessuna matrice politica. Qui ci sono colleghi di destra, colleghi di sinistra e alcuni definiti istituzionali. Io sono molto orgogliosa di definirmi istituzionale”.
Elisabetta Belloni: stipendio.
In campo diplomatico, il primo livello della carriera, segretario di legazione, assicura uno stipendio di 62 mila euro l’anno, 5 mila lordi al mese. Ne beneficiano già in 328. Al livello seguente, quella di caposezione (in servizio ce ne sono 161), la busta paga sale a 81 mila. Per i 264 consiglieri d’ambasciata l’ingaggio arriva a 174 mila euro, mentre per i 207 ministri plenipotenziari lievita fino a 240 mila, tetto che ufficialmente vale anche per i 25 ambasciatori e per il segretario generale Elisabetta Belloni.
Elisabetta Belloni: vita privata.
Elisabetta Belloni è nata Roma, (1 settembre 1958 ). Ricopre il ruolo di segretaria generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale dal 5 maggio 2016. Ha una laurea in scienze politiche alla Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli (Luiss) di Roma nel 1982.
Nel suo curriculum si legge che parla quattro lingue (inglese, francese, spagnolo, tedesco) e tra le onorificenze ha ricevuto anche la Legion d’onore in Francia.
La sua carriera professionale è iniziata come diplomatica nel 1985. Ha ricoperto incarichi nelle ambasciate italiane e nelle rappresentanze permanenti a Vienna e a Bratislava, oltre che presso le direzioni generali del Ministero degli Affari Esteri. Dal novembre 2004 al giugno 2008 ha diretto l’Unità di Crisi del Ministero degli Affari Esteri. Nel febbraio 2014 è stata promossa ambasciatrice di grado e, dal giugno 2015, ha ricoperto la carica di Capo di Gabinetto del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nell’aprile 2016 viene nominata Segretaria Generale del Ministero degli Affari Esteri ed entra in carica il 5 maggio.
Nel maggio del 2021, è stata nominata da Draghi capo dei servizi segreti del paese, la prima donna a ricoprire questo ruolo nella storia dei servizi segreti italiani.
Belloni: marito e figli.
Elisabetta Belloni è stata sposata con Giorgio Giacomelli, che però è morto nel febbraio 2017. Non ci sono informazioni pubbliche riguardo possibili figli. Sulla figura del marito si sa che Giacomelli era un ambasciatore di origini padovane, con oltre 30 anni di mandati diplomatici di alto profilo e ha anche prestato servizio in territori come la Siria e la Somalia. Nel corso della sua carriera, è stato responsabile dell’Agenzia palestinese per i rifugiati ed è stato direttore generale del Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.
domenica 7 novembre 2021
Cassese, il prof delle élites in corsa dal secolo scorso. - Ilaria Proietti
RISERVE - Il professore è servitore dello Stato e dei privati e i poteri forti se lo contendono. Il "dottor Sottile" ha collezionato poltrone e ha abbandonato la politica già due volte.
C’era ancora la liretta e già era la carta segreta da giocare per il Colle, che gli è poi sempre sfuggito. Ma Sabino Cassese, giurista sopraffino e sempreverde, pure stavolta è dato in corsa a dispetto degli 86 anni suonati che gli consigliano, per garbo, di schermirsi: “Qualcuno ha fatto il mio nome per il Quirinale? Se lo tolgano dalla testa” ha detto, anche se, vai a sapere, con quanta sincerità. Pochi giorni prima di spegnere le ultime candeline, ha comunque fatto intendere di essere pronto a tutto. “Ho orari da metalmeccanico. Lavoro otto ore al giorno, domeniche incluse e non faccio le vacanze”. Insomma, il leone di sempre, come è stato fin dagli esordi in quel di Salerno, quando a 17 anni, dopo aver masticato senza problemi il liceo, aveva vinto il concorso per entrare alla Normale di Pisa stracciando i concorrenti: laurea a 21 anni per poi spiccare il volo verso lidi più ambiziosi e amicizie importanti. Come quella con Luigi Sturzo che “tradì” per Enrico Mattei e un posto in prima classe all’Eni con uno stipendio da leccarsi i baffi per l’epoca e la giovane età. E poi una lunga carriera universitaria, che ha affiancato al ruolo di conferenziere in mezzo mondo per cinquant’anni, per tacere dei libri scritti, ovviamente un’infinità, e del ruolo di editorialista dal Corriere della Sera in giù. Ma è stato pure ministro della Funzione pubblica quando a Palazzo Chigi c’era Carlo Azeglio Ciampi, già suo compagno di studi a Pisa, che poi da presidente della Repubblica lo nominò nel 2005 giudice alla Corte costituzionale. Nel mezzo, una miriade di incarichi pubblici su chiamata di Palazzo Chigi o di qualche ministero per riformare questo e quello: dalla gestione del patrimonio immobiliare pubblico alle partecipazioni statali, passando per il contrasto alla corruzione. Ma è stato generosissimo anche con i privati e loro con lui: ha servito Olivetti, Autostrade, Assicurazioni Generali, Lottomatica, Banco di Sicilia. Poi la Consulta e più di recente altri ruoli da civil servant: fino al 2017 è stato presidente della Scuola dei Beni Culturali e per un soffio gli è da poco sfuggita la guida della Scuola nazionale dell’Amministrazione.
Ma che importa. Chiusa una porta si potrebbe aprire un portone, e che portone: del resto, per citar le sue parole, nella vita ci vuole “culo”, “nel senso di metterlo sulla sedia applicandosi con costanza”. E Cassese, quanto a culo, non ha pari. Per questo è sempre accreditato per il Quirinale, che di riffa o di raffa non ha mai smesso di frequentare: due dei suoi allievi più brillanti e prediletti sono il figlio del Capo dello Stato, Bernardo Giorgio Mattarella, e l’erede del presidente emerito, Giulio Napolitano. E poi c’è Marta Cartabia, altra protegé entrata nella sua nidiata e che soddisfazione vederla prima nominare dall’allora Re Giorgio alla Consulta e oggi Guardasigilli. Alla corte di Mario Draghi che Cassese, manco a dirlo, adora sicché ha posto fine alla deriva degli incompetenti, leggasi la masnada a cinque stelle che Giuseppe Conte si è preso in carico disonorando la pochette e, va senza dire, l’élite di cui il professore è massimo interprete. Sarà per questo che Cassese non ha mai digerito l’ex premier, figurarsi i suoi dpcm d’emergenza con cui avrebbe umiliato la democrazia. E che importa se Draghi ha fin qui varato una tombola di decreti che il Parlamento è costretto ad approvare senza neppure il tempo di averli letti: Cassese benedice, anzi se potesse ci metterebbe la firma. Basta saper attendere: alle 9 del mattino, fa sapere, è sempre pronto in giacca e cravatta.
venerdì 20 novembre 2020
Renato Schifani non è una muffa, e torna come osso di seppia. - Pino Corrias
Il ritratto. Dalla Sicilia con Silvio nel cuore.
Renato Schifani non è una muffa, ma il nuovo consigliere politico di Silvio B. La prima circostanza l’ha stabilita a suo tempo un tribunale della Repubblica italiana, interpellato dallo stesso Schifani. E ci sta, visto che stiamo parlando di un ex presidente del Senato. La seconda è invece l’ennesima trovata del Dottore che (appena fuori dal giro degli inseparabili: Gianni Letta, Confalonieri, Dell’Utri) si diverte a nominare i suoi provvisori consiglieri come si fa con il personale di servizio, scegliendoli tra i molti dotati dell’X Factor della fedeltà, per poi spremerli sino a quando l’abnegazione dei prescelti si deteriora per sfinimento. È successo dai tempi di Enzo Cartotto, agli albori del partito azienda, passando per Giuliano Urbani, Giuliano Ferrara, Marcello Pera, Gianfranco Fini, Sandro Bondi, Sabina Began, Angelino Alfano, Francesca Pascale, giù giù fino a Giovanni Toti, il penultimo.
Ripescato dall’oblio, Renato Schifani, palermitano, detto in gioventù “freno a mano” per l’innato carattere oggettivato nella cautela con cui guidava la sua Fiat 500 L, servirà a facilitare l’ultimo giro di giostra del Dottore che secondo i migliori politologi di Palazzo, finiti i processi, le prescrizioni, le pupe, le bugie e forse anche i voti, si appresta a diventare Statista. Cioè pronto per le larghe intese, che poi sarebbero il salvataggio di Mediaset e la spartizione del malloppo vero, i 209 miliardi di euro in arrivo dalla perfida Europa.
Sebbene l’iracondo Filippo Mancuso, buonanima, a suo tempo ministro di Grazia e giustizia lo avesse definito “esperto in recupero crediti”, Renato Schifani è avvocato raffinatissimo, ramo civilista, cresciuto nella bella Palermo del sacco edilizio, quando la festa la organizzava Vito Ciancimino sindaco e i cronisti, come ha scritto Enrico Deaglio nel suo Raccolto rosso, scendevano in Sicilia per andare al mare o per un nuovo morto ammazzato importante.
Nato nell’anno 1950, Renato viene da una famiglia di piccola borghesia, padre e madre impiegati comunali. Studente senza soprassalti, blandì il suo cauto ’68 partecipando all’occupazione del liceo, “ma senza mai scendere in piazza”. A vent’anni è già democristiano. Poi dottore in Giurisprudenza con lode. Primo impiego al Banco di Sicilia. Il tempo di vestire la toga e due anni dopo entrare nello studio legale di Giuseppe La Loggia, avvocatone d’alta dinastia democristiana, diventando il timido amico del figlio esuberante, Enrico, detto ‘u babbiuni dai compagni del liceo Gonzaga. Insieme entreranno nella Sicula Broker, società di assicurazioni, con soci finiti anni dopo nei dossier dell’antimafia. A Palermo capita. E insieme saliranno i gradini di Forza Italia. A partire dalle leggendarie elezioni del 1996, quelle del 61 a zero, apoteosi del berlusconismo in Sicilia.
Trasferitosi con la famiglia a Roma, Schifani inaugura la sua seconda vita, facendo dimenticare certi dettagli della prima. Compreso il peculiare incarico professionale ricevuto nel 1983 da Giovanni Bontate, fratello del capomafia Stefano, principe di Villagrazia, per difendere la titolarità del suo ingente patrimonio – imprese edili, decine di appartamenti, ville, casali, agrumeti – dagli assalti giustizialisti della Cassazione che pretendeva di sequestrarglieli. Studia le carte, prepara la difesa, onora il mandato. Peccato che a rendere superflua la sua fatica professionale ci abbiano pensato i corleonesi di Totò Riina, che dopo avere fucilato a colpi di kalashnikov Stefano, morto nel centro di Palermo, liquidarono con due colpi alla nuca anche il fratello, appena scarcerato dall’Ucciardone per motivi di salute, anno 1988. A Palermo capita.
Ben venga Roma, dunque. Con le interminabili riunioni in Palazzo Grazioli, le serate al Bagaglino che fu il vero teatrino di quegli anni, e la mirabile carriera di Schifani, diventato prima capogruppo di Forza Italia, anno 2001, poi addirittura presidente del Senato, 2008-2013, seconda carica della Repubblica. Anche se la pertinenza non memorabile dei suoi interventi politici aveva ricadute blande sui giornali. Salvo che per due circostanze. La prima tricologica, per via del suo clamoroso riporto che occupava i due terzi della sua testa pensante, con scia di commenti, risate e disappunti estetici dell’intera nomenklatura arcoriana. E la seconda per il celebre Lodo intitolato a suo nome che mirava a difendere il suo maggiore cliente, Silvio B., dagli assalti giustizialisti delle Procure che pretendevano di metterlo sotto processo. Non bastando le batterie di deputati, giornalisti, lobbisti, la depenalizzazione del falso in bilancio, il blocco delle rogatorie, le norme sul legittimo sospetto, gli allungamenti dei processi e gli accorciamenti delle prescrizioni, i condoni fiscali, la detassazione degli utili, le macchine del fango contro i nemici, serviva aggiungere ancora l’ultimo miglio, l’ultimo sforzo. E fu il “Lodo Schifani” a incaricarsi di quel tocco coreano al nostro catalogo di leggi, anno 2003: vietato processare le cinque più alte cariche dello Stato, diceva la nuova norma, cancellata a stretto giro dalla Corte costituzionale per manifesta scempiaggine.
Di tutto il suo tribolare politico avvocatesco resta il vanto di avere contribuito all’ingaggio del celebre senatore Sergio De Gregorio passato da sinistra a destra per un intimo convincimento risarcito con 3 milioni di euro da Silvio B. E restano due frasi di prudentissimo conio: “Il presidente Berlusconi ha ragione”, ripetuta in premessa e a consuntivo di ogni intervento. E la più atroce per un palermitano: “Ho sempre tenuto al Milan”.
Sparì dai radar un giorno del 2014 con il consigliere politico di allora, l’Angelino Alfano, anche lui in fuga per crollo psicologico. Provarono insieme a costruire il castello di sabbia del Nuovo centrodestra, di cui non resta neanche la traccia del secchiello. Li inghiottì la stessa risacca che oggi ce lo restituisce calvo, come fa il mare con gli ossi di seppia. Vediamo quanto dura stavolta la sua prudenza.