Macaluso, Petruccioli & C. retrodatano la nascita del partito al rientro di Togliatti in Italia e ridimensionano la figura di Gramsci. L’imbarazzo per la questione Mosca. E la messa in soffitta dell’utopia.
Per potersi definire “Comunisti a modo nostro”, come recita il titolo del loro dialogo appena pubblicato da Marsilio, Emanuele Macaluso e Claudio Petruccioli hanno scelto un ben strano modo di celebrare il centesimo anniversario della scissione di Livorno: saltare a piè pari i primi ventitré anni del partito, dal 1921 al 1944.
Liquidati come “una lunga notte buia”, col loro carico di eroismo e ferocia; e pazienza se furono gli anni del sogno rivoluzionario, dell’opposizione clandestina al regime fascista, dello stalinismo, della guerra, della Resistenza partigiana… il centenario va postdatato. Macaluso lo dichiara fin dalla prima pagina: per lui la vera storia del comunismo italiano comincia dal rientro in patria di Togliatti e dall’“accantonamento” del leninismo. Che permetterà la trasformazione del Pci in partito di massa, “non dico socialdemocratico, ma che si richiama alla tradizione socialista”.
Se vorrete dedurne che nel 1921 i due autorevoli ex dirigenti comunisti sarebbero rimasti col riformista Filippo Turati al Teatro Goldoni, anziché seguire Bordiga, Terracini e Gramsci al San Marco, non avrete tutti i torti. Tanto è vero che nella meticolosa rivisitazione da essi compiuta delle svolte della sinistra nel Dopoguerra, il senno di poi li condurrà quasi sempre a dar ragione alle componenti socialdemocratiche: che si tratti di Saragat contro Nenni nel 1947; del ripudio del marxismo decretato dalla Spd nel 1959 a Bad Godesberg; o del braccio di ferro sulla struttura del salario fra Craxi e Berlinguer nel 1984.
Lungo tutto questo arco di tempo il capolavoro politico del “partito nuovo” di Togliatti viene ascritto alla capacità del Migliore di guidare una trasfigurazione programmatica sotto l’ombrello dell’ideologia, tale da consentire ai nostri di autorappresentarsi più socialisti dei socialisti. Paghi del fatto che la “via italiana al socialismo” più nulla aveva a che spartire col “fare come in Russia” d’antan. Lo stesso compromesso storico proposto alla Democrazia cristiana da Berlinguer nel 1973, altro non sarebbe che il compimento di questa strategia togliattiana. Per cui a Berlinguer andrebbe semmai rimproverata la persistente visione anticapitalista, che gli impedisce di aderire fino in fondo al modello di società occidentale.
Logico che da questo tagliacuci della propria storia esca ridimensionata la figura di Antonio Gramsci, ridotto a malinconico pensatore solitario. L’ammirazione nostalgica dei nostri va tutta al Togliatti che fin da subito aveva voltato le spalle all’esperienza consiliare torinese dell’“Ordine nuovo”, convinto com’era che il conflitto sociale debba restare solo una leva al servizio del primato della politica. Ciò che spiegherà l’eterna diffidenza del gruppo dirigente comunista nei confronti dei movimenti per i diritti civili e di quant’altro emergesse alla sinistra del Pci.
Resta da giustificare la prosecuzione fino al 1989 del legame del Pci con l’Unione Sovietica. E qui i due autori si differenziano. Macaluso, seppur con imbarazzo, definisce inevitabile finanche il plauso all’invasione dell’Ungheria nel 1956, visto che l’appartenenza al blocco comunista forniva al Pci un sostegno insostituibile. Petruccioli è più critico nel confronto con la vecchia guardia e ci regala una testimonianza impressionante. Il giorno in cui crolla il Muro di Berlino va a bussare all’ufficio di Alessandro Natta per chiedergli un consiglio su come reagire. Ne ottiene una risposta sconsolata e terribile: “Caro Petruccioli, cosa volete fare… Ha vinto Hitler!”. Certo Natta non era un bolscevico; ma per un militante come lui, iscrittosi al Pci nel 1945, anche dopo il fallimento della Rivoluzione d’ottobre permaneva la necessità di un ordinamento sociale alternativo al capitalismo.
Più coerente di Macaluso e Petruccioli, un altro ex comunista a loro vicino, Paolo Franchi, pubblica per La nave di Teseo un saggio, “Il Pci e l’eredità di Turati”, in cui sostiene che il suo partito “si farà passo passo molto, ma molto, più ‘turatiano’ di quanto dicano le storie che vanno per la maggiore”. Peccato solo – sia detto per inciso – che anche lui sposi la grossolana forzatura secondo cui Umberto Terracini nel 1982 avrebbe detto: “A Livorno aveva ragione Turati”. Falso. Ben altro dovrebbe essere lo spirito con cui guardare un secolo dopo a quella pur tragica separazione, per trarne insegnamento.
Né ci aiuta in tal senso il pamphlet di uno storico militante come Luciano Canfora, La metamorfosi (Laterza), che svolge un ragionamento opposto a quello di Macaluso e Petruccioli condividendone però l’assurda post-datazione al 1944 dell’atto di nascita del Pci. Fervente togliattiano anch’egli, Canfora non crede affatto che il “partito nuovo”, indicando l’unità nazionale e le riforme di struttura come via italiana al socialismo, fosse destinato a sciogliersi nell’indistinto “democratico”. Anzi, sostiene che Occhetto, D’Alema e gli altri coetanei di matrice togliattiana nel 1989 avrebbero trascinato il partito al suicidio, facendosi alfieri di valori antitetici a quelli delle origini. Peccato che anche Canfora scelga di trascurare l’eredità, imbarazzante ma fertile, di quei primi ventitré anni “del ferro e del fuoco” in cui il partito forgiò il suo profilo ideale di avanguardia delle classi subalterne che aspiravano a un mondo nuovo, a una redenzione collettiva, alla giustizia sociale.
L’empito di fede rivoluzionaria maturato nelle sofferenze della Grande Guerra è il grande rimosso di questo centenario. E invece andrebbe studiato con rispetto, un secolo dopo, tanto più in un tempo che di nuovo si presenta drammatico. Peccato che gli ex comunisti, rimasti togliattiani di destra e di sinistra, o divenuti turatiani fuori tempo massimo, mostrino di appassionarsi esclusivamente alle controversie successive. Sembra che per loro ragionare di utopia rivoluzionaria sia solo un’infantile perdita di tempo.
Invece, chi potrebbe aiutarli a riconoscere il valore dell’utopia come leva motrice del cambiamento e ispiratrice dei movimenti di massa, è proprio il patriarca Antonio Gramsci. Ho trovato un piccolo aneddoto significativo nel diario di Camilla Ravera, la “maestrina” che nel 1926, dopo l’arresto di Gramsci, gli subentrò alla guida del partito. Quando lei e Umberto Terracini al confino di Ventotene subivano l’ostracismo del partito che li aveva espulsi, perché colpevoli di aver criticato il patto Hitler-Stalin e di indicare la prospettiva unitaria della Costituente, Camilla traeva consolazione dall’amicizia con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi. Il quale era stato tradotto sull’isola dal carcere di Turi, dove aveva fraternizzato con Gramsci. Lei stessa, quand’era detenuta lì vicino, a Trani, ne ricevette notizia dall’illustre prigioniero. Scrive dunque di Schicchi la futura senatrice a vita Ravera: “Era uno di quegli anarchici con cui Gramsci amava conversare. ‘Anche l’utopia serve al cammino degli uomini – mi diceva poi Gramsci, sorridendo – fa la sua tenue luce, là dove ciò che realmente sarà non sappiamo’…”. Ecco, forse è proprio l’utopia a mancarci, cent’anni dopo.
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