lunedì 6 settembre 2021

Da Siena alle garanzie di Stato: Amco fa fruttare le “sofferenze”. - Nicola Borzi

 

“La scopa del sistema”. L’ex Sga di BancoNapoli si prepara al post-Covid con il piano sul recupero dei finanziamenti assistiti.

La scopa del sistema (bancario). È il ruolo di Amco, la società di recupero crediti del ministero delle Finanze in grado di acquistare, digerire e trasformare in incassi – e utili – le sofferenze (i crediti ormai inesigibili di aziende insolventi) e le inadempienze probabili (i crediti di clienti incamminati verso l’insolvenza). L’ex Società gestione attivi (Sga) deve assicurarsi grandi masse da lavorare per mantenere le proprie economie di scala. Le dimensioni contano: in base ai dati al 30 giugno 2020, è sesta per masse in Italia tra gli operatori attivi nei crediti non performing e seconda per quanto riguarda le inadempienze probabili (unlikely to pay, Utp) e i crediti scaduti (past due). L’ex bad bank sorta nell’89 per gestire 36mila posizioni creditizie a rischio che gravavano per 6,4 miliardi di euro sui conti del Banco di Napoli, poi passata al SanPaolo Imi e da questi a Intesa Sanpaolo che nel 2016 l’ha ceduta al Mef, ha una storia di successi: ha recuperato il 90% dei crediti che acquisì da BancoNapoli al 70% del loro valore, tanto che a fine 2015 contava su 469 milioni cash e 214 milioni di crediti residui. Oggi ha chiesto l’accesso al dataroom di Mps per giocare un ruolo nel piano di cessione a UniCredit della banca di Siena. Conti che Amco d’altronde già conosce bene: di Siena è parte correlata perché entrambe sono controllate dal Tesoro. Ma si prepara a giocare da protagonista anche nello scenario post-pandemico.

Dopo anni di calo, con la recessione dovuta al Covid la marea dei crediti malati sta per tornare a salire in Italia. Il 2020 ha visto cessioni di crediti a rischio dalle banche per un valore lordo totale di 40 miliardi. Così lo stock di incagli che gravano sul settore è calato da 135 a 99 miliardi (-27%) . Per la prima volta, le sofferenze (47 miliardi a fine 2020) sono state superate dalle inadempienze probabili (49). Il processo di deleveraging è proseguito anche nei primi sei mesi di quest’anno, con operazioni per 2 miliardi, ma in calo dai 6 dello stesso periodo del 2020. A frenare le cessioni sono le garanzie e moratorie pubbliche, che ritardano l’emersione di incagli e sofferenze: i crediti assistiti sono ancora 83 miliardi, di cui 64 a carico di piccole e medie imprese. Ma le moratorie, che scadranno a fine anno, sono volontarie e valgono solo per la quota capitale, mentre incombono le nuove regole europee che ne prevedono la verifica e la copertura con tempi certi nei bilanci delle banche. Così si prevede che nei prossimi due anni e mezzo emergeranno tra 80 e 100 miliardi di nuovi crediti a rischio.

Amco si candida a gestire questa nuova ondata in un mercato sempre più competitivo, tra tassi di recupero in calo e prezzi di cessione dei crediti deteriorati notevolmente aumentati. L’operatore pubblico ha infatti esperienza sia nel recupero delle sofferenze che, soprattutto, nella possibilità di erogare direttamente fondi per consentire continuità e rilancio di imprese con inadempienze probabili e crediti scaduti. A un aumento di capitale da 1 miliardo nel 2019 e bond già emessi per 2,8 miliardi ha affiancato un piano per emettere obbligazioni per altri 6 miliardi. D’altronde nel 2018 ha acquisito in gestione due portafogli da 16,7 miliardi di 90 mila debitori delle liquidazioni del 25 giugno 2017 di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Le acquisizioni sono poi proseguite con portafogli di crediti targati Banca del Fucino, Credito Sportivo, Carige, con la creazione della prima piattaforma di crediti a rischio immobiliari, da Creval (447 milioni lordi totali in più tranche), Carige (281 milioni totali), poi ancora Fucino, Banca Igea, Banco Bpm (600 milioni), Popolare di Bari (2 miliardi), operazioni immobiliari e cartolarizzazioni varie da sola e insieme a terzi. Il salto è arrivato a fine 2020 con il compendio da 7,7 miliardi di crediti deteriorati acquisito da Mps.

Oggi così Amco gestisce 34 miliardi di crediti dubbi lordi con circa 230 mila controparti, 45 mila delle quali sono imprese, per lo più piccole e medie. Il 58% sono sofferenze, il 42% inadempienze probabili. Il 74% sono gestiti in house da 287 dipendenti a Milano, Napoli, Vicenza, 88 dei quali provenienti da Mps, il resto in outsourcing. Il 2020 si è chiuso in utile per 76 milioni, in crescita dell’80% sul 2019 grazie al contenimento delle spese (il rapporto costi/ricavi è calato dal 45,9% del 2019 al 25,8%), anche grazie al raddoppio dei ricavi per il boom delle masse gestite. Ora il piano al 2025 della ad Marina Natale prevede di mantenere i 30 miliardi di masse tramite nuove acquisizioni. La società è vigilata da Banca d’Italia, Corte dei Conti e Direzione Concorrenza della Commissione Ue che mira a scoprire e bloccare eventuali aiuti di Stato.

In sostanza, Amco compra crediti dubbi a prezzi di mercato e poi cerca di incassarli, evitando però di mandare in fallimento le imprese debitrici che hanno qualche possibilità di risollevarsi. Lo fa attraverso l’analisi delle garanzie e l’ottimizzazione dei recuperi attraverso modelli matematici e negoziazioni. Qualche incidente di percorso non è mancato: la relazione della Corte dei Conti sul bilancio 2019 segnala la mancata erogazione di due corsi di formazione finanziati da fondi inter-professionali a consulenti esterni con costi non corrispondenti alle prestazioni ricevute. Le irregolarità sono state sanate con provvedimenti disciplinari e l’azione di contrasto è stata valutata positivamente dalla magistratura contabile.

Sempre la Corte dei Conti segnala che, a 4 anni e 3 mesi dalla liquidazione di Vicenza e Veneto Banca, Bankitalia non ha ancora varato le regole per favorire il recupero delle “operazioni baciate”: crediti a rischio per 1,8 miliardi finanziati dalla banche venete stesse per sostenere surrettiziamente il patrimonio, attraverso l’acquisto di azioni o obbligazioni subordinate proprie. Nel 2019 Amco ha comunque lavorato 855 delle 900 posizioni “baciate” totali per un valore lordo di 1,6 miliardi, incassando però appena 14 milioni.

Da inizio anno è operativa una nuova divisione immobiliare e, da aprile, Amco fornisce garanzie su cartolarizzazioni sintetiche. Ora la società controllata dal Tesoro lavora alla due diligence di Mps per valutarne i crediti deteriorati classificati “stage 2”. Sono le esposizioni con il rischio più elevato di deterioramento, anche se al momento risultano ancora “in bonis”. La valutazione dei crediti “stage 2” sarebbe legata ad alcune clausole sulla retrocedibilità dei crediti di Mps che potrebbero essere acquistati da UniCredit, se si dovessero deteriorare rapidamente dopo la cessione. Si tratta dello stesso percorso di garanzia ottenuto nel 2017 da Intesa Sanpaolo su PopVicenza e Veneto Banca.

Come scrive Amco nei suoi bilanci, nel contratto con il quale a giugno 2017 acquisì per 2 euro la parte “in bonis” delle due banche venete, Intesa si riservò il diritto di retrocedere ad Amco, tra il 26 giugno 2017 e la data di approvazione del suo bilancio al 31 dicembre 2020, i crediti delle due banche venete originariamente “in bonis” che in seguito fossero riclassificati “ad alto rischio”. Intesa ha esercitato questa facoltà sette volte: tre nel 2018 , due nel 2019 e due ad aprile e giugno 2020. Nell’operazione sul Monte, ora UniCredit vuole, insomma, che il Mef le conceda lo stesso trattamento di favore erogato alla sua concorrente.

Se sul fronte di Mps fonti finanziarie fanno sapere che per Amco le ipotesi sono ancora tutte sul tavolo, la bad bank si sta però muovendo rapidamente sul progetto Glam: vuol gestire lo stock di 148 miliardi di finanziamenti “in bonis” garantiti dal Medio Credito Centrale attraverso il Fondo Pmi. Amco avrebbe presentato alle banche diverse ipotesi in ottica win-win: gli istituti potrebbero deconsolidare dai propri bilanci i crediti garantiti, riducendone i costi relativi all’assorbimento di capitale e Amco si garantirebbe un enorme flusso di masse da gestire anche per i prossimi anni. La “scopa del sistema” fa progetti a lungo termine per assicurarsi il futuro.

ILFQ

Smart working nel mondo: l’Europa «vince» tra controlli e disconnessione. - Aldo Bottini, Valentina Melis e Ornella Patané

 

I temi chiave sono controlli in remoto, reperibilità e disconnessione. Nella Ue conta la privacy, meno in Cina, Russia e Brasile.

Controlli a distanza dei lavoratori, fasce di reperibilità, diritto alla disconnessione dagli strumenti informatici. Sono tre punti cardine emersi durante la sperimentazione globale dell’home working dovuta alla pandemia di Covid-19. Ma anche i tre nodi degli accordi che le aziende stanno mettendo a punto per disegnare il lavoro “ibrido” dei prossimi mesi, composto in molti casi da un mix tra lavoro in ufficio e lavoro da remoto.

Il mix potrebbe essere fortemente ribilanciato per i dipendenti della Pubblica amministrazione a favore del lavoro in presenza, se - come prospettato dal ministro Renato Brunetta - il rientro negli uffici sarà organizzato prima del 31 dicembre, data di scadenza dello stato di emergenza sanitaria e del regime semplificato dello smart working (cioè senza accordi individuali), sia per il pubblico, sia per il privato.

Le strade percorse dai Paesi.

La globalizzazione del virus Covid-19 ha fatto sorgere problemi globali: ovunque, infatti, la pandemia ha forzato tutti a lavorare da remoto, mettendo alla prova le organizzazioni aziendali e le norme locali relative al rapporto di lavoro “tradizionale”. Tutti i datori si sono dovuti, quindi, confrontare con gli stessi problemi di gestione dei lavoratori a distanza.

Tra questi, come emerge da un’indagine condotta all’interno di Ius laboris, alleanza globale di studi specializzati in diritto del lavoro, c’è il controllo a distanza dei dipendenti. In nessun Paese è stata introdotta una legislazione ad hoc per la pandemia e in quasi tutti l’esercizio del potere di controllo è di norma subordinato a una informativa dei dipendenti e al rispetto delle norme sulla protezione dei dati personali.

Francia.

In Francia, il Governo insieme al Garante della privacy locale ha pubblicato linee guida per chiarire che l’esercizio del potere di controllo non cambia in caso di lavoro da remoto, con ciò precisando che in tali circostanze è da escludere che il controllo possa essere svolto in maniera pedissequa e costante e che telefonate o video call possano comportare un’eccessiva e invadente sorveglianza.

Germania.

In Germania, durante la pandemia, sono cambiati gli strumenti tramite i quali esercitare il potere di controllo (strumenti digitali di monitoraggio di email e chat o keyloggers, non sempre ritenuti legittimi) ma non le regole.

Cina e Russia.

La relativa uniformità di regole sui controlli nei Paesi europei si spiega ovviamente con la disciplina comune dettata dalle direttive e dai regolamenti comunitari, primo tra questi ultimi il Gdpr, sulla protezione dei dati personali. Nei Paesi extra europei talvolta la sensibilità su questi temi è diversa. In Cina, ad esempio, è possibile installare lecitamente sistemi di controllo della prestazione lavorativa negli strumenti digitali assegnati ai dipendenti, con l’unico limite del rispetto della disciplina locale sulla protezione dei dati personali.

Allo stesso modo, in Russia, è considerato vietato il controllo fisico presso le abitazioni dei dipendenti, ma consentiti tutti gli strumenti di controllo a distanza, a condizione di avere preventivamente informato i dipendenti e avere ricevuto il loro consenso.

Il diritto alla disconnessione.

Un ulteriore tema affrontato durante la pandemia è il diritto alla disconnessione, con lo speculare obbligo di reperibilità del lavoratore: dopo la risoluzione del Parlamento Europeo del 21 gennaio 2021, in ambito Ue è sempre più sentita la necessità di adottare misure di sensibilizzazione e formazione sui luoghi di lavoro per prevenire i rischi legati a quella che il Parlamento Europeo ha definito «cultura del sempre connesso».

La necessità di assicurare questo diritto in caso di lavoro da remoto, sorge proprio in quei Paesi, inclusa l’Italia, in cui il dipendente che lavora in smart working può gestire autonomamente il tempo di lavoro, non essendo vincolato a rispettare i normali orari di lavoro, ma potendo, per accordo individuale, essere tenuto a rispettare determinati periodi di reperibilità.

Dopo la risoluzione europea, l’Italia, prima fra gli altri, ha rafforzato in maniera significativa, con il Dl 30/2021, il diritto alla disconnessione, già presente nella legge sul lavoro agile (la 81/2017). Oggi tale diritto è riconosciuto al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile «nel rispetto degli accordi individuali e degli eventuali periodi di reperibilità in essi stabiliti». È espressamente previsto che l’esercizio del diritto alla disconnessione non possa avere per il lavoratore rispercussioni negative.

Nei Paesi (come Cina, Giappone e Argentina) in cui è previsto che anche da remoto si osservi il normale orario di lavoro, periodo nel quale il dipendente deve rimanere connesso e operativo, la disconnessione è possibile solo dopo la fine dell’orario di lavoro.

La strada degli accordi aziendali.

Intanto, gli accordi aziendali cominciano a tracciare una serie di comportamenti pratici, perché sia garantito il diritto alla disconnessione: l’intesa siglata dal gruppo Generali con i sindacati il 27 luglio per il post emergenza prevede che la pianificazione delle riunioni o video conference avvenga di norma dalle 9 alle 18, fatto salvo l’intervallo dalle 13 alle 14. Si raccomanda ai lavoratori l’uso dell’opzione di ritardata consegna se si inviano comunicazioni con sistemi informatici aziendali fuori dall’orario di lavoro. Infine, l’accordo precisa che la ricezione di comunicazioni aziendali fuori dall’orario di lavoro e nei momenti legittimi di assenza non vincola i lavoratori ad attivarsi prima della ripresa dell’attività.

Illustrazione di Giorgio De Marinis.

Il Sole 24 Ore

Bollette, il governo studia il taglio e misure cuscinetto per i rincari. - Celestina Dominelli, Carmine Fotina

 

L’esecutivo apre il cantiere della riforma degli oneri di sistema: possibile prima mossa nel ddl Concorrenza.

Il governo apre il cantiere della riforma degli oneri generali di sistema con l’obiettivo, nel medio-lungo periodo, di alleggerire il “fardello” di quelle voci che in bolletta sono destinate a coprire attività di interesse generale per il sistema elettrico e che, a partire dal 2015, hanno raggiunto un livello pari a 14-15 miliardi annui arrivando a pesare fino a un quarto della spesa totale sostenuta dagli utenti finali.

Nell’immediato, però, in vista della nuova stangata autunnale sulle bollette, provocata dai rincari delle quotazioni delle materie prime per via della ripresa dell’economia mondiale, e dal netto aumento dei prezzi dei permessi di emissione della CO2, si studia un nuova manovra, dopo quella messa in pista agli inizi di luglio, per evitare che gli effetti dell’impennata colpiscano in modo pesante il portafoglio dei consumatori.

Il sostegno alle rinnovabili pesa sul 70% degli oneri.

È un doppio livello, dunque, quello su cui si muove il governo che punterebbe ad affidare allo strumento della delega, come trapela da una bozza del nuovo disegno di legge per la concorrenza, il lavoro di revisione degli oneri inserendolo in una più compiuta riforma della materia, anche nella prospettiva di trasferire sotto la fiscalità generale gli oneri per il sostegno alle energie rinnovabili. Che, stando ai numeri pubblicati dall’Autorità per l’energia, le reti e l’ambiente (Arera) nell’ultima Relazione annuale al Parlamento e al governo, rappresentano circa il 70% dei 14,9 miliardi di euro di oneri del 2020 (la cosiddetta componente Asos).

Nella bozza del Ddl, si apre anche alla possibilità che tali oneri vadano a gravare, in modo selettivo, sul consumo di combustibili fossili nel riscaldamento e nei trasporti con meccanismi di gradualità, ma sul punto il confronto è tutt’altro che chiuso. Anche perché il ministero della Transizione ecologica, è quanto si legge nel documento, «ritiene necessaria una compiuta riforma della materia» come peraltro ribadito anche nella proposta di piano per la transizione ecologica, approvato a metà luglio, che vedrà, tra i suoi pilastri, una complessiva e strutturata revisione del sistema fiscale per affrontare le problematiche ambientali.

L’urgenza: tagliare dalla bolletta i costi delle vecchie centrali nucleari.

La strada, quindi, è tracciata anche se le possibili soluzioni sono tuttora al vaglio. Ma una direzione l’ha indicata la stessa Arera che, in più occasioni, da ultimo a ottobre, nell’ambito dell’audizione in Commissione industria al Senato, in merito all’Affare sulla razionalizzazione, la trasparenza e la struttura di costo del mercato elettrico e sugli effetti in bolletta, ha rimarcato la necessità di eliminare fin da subito dalla bolletta «gli oneri non direttamente connessi agli obiettivi di sviluppo ambientalmente sostenibile e quelli finalizzati al contrasto della povertà energetica».

Tradotto: le voci che coprono i costi di smantellamento delle centrali nucleari dismesse e anche gli oneri a copertura del regime tariffario speciale riconosciuto a Rfi per i consumi di elettricità sulla rete tradizionale. Una posizione, quest’ultima, sposata anche dall’Antitrust nella segnalazione di marzo scorso al Parlamento con le proposte di riforma per la legge annuale, secondo cui «alla copertura di tali oneri si può provvedere mediante trasferimenti dal bilancio dello Stato».

L’ipotesi di un intervento cuscinetto contro i rincari.

Fin qui il binario più generale, quindi, ancora da declinare nel dettaglio. Mentre, nel breve periodo, il governo starebbe valutando un nuovo intervento “cuscinetto” per alleviare il peso dei rincari che si annunciano nel prossimo aggiornamento trimestrale delle bollette fissato per fine settembre. Nei giorni scorsi, nel corso di una intervista, anche il presidente dell’Arera, Stefano Besseghini, ha parlato di un «cantiere aperto» su questo fronte.

E, come già accaduto agli inizi di luglio, un assist prezioso per calmierare l’impatto della stangata potrebbe arrivare dalle aste del mercato europeo dei permessi di emissione di CO2 che stanno facendo registrare ricavi straordinari a causa della tendenza rialzista del prezzo della stessa con proventi pari, nel solo secondo trimestre, a 719 milioni, come documentano i dati pubblicati dal Gse, responsabile del collocamento delle quote di emissioni italiane sulla piattaforma Ue.

Il faro del governo sulle aste della CO2.

Certo, l’entità della manovra è ancora tutta da decidere perché solo da metà settembre l’Arera comincerà a mettere in fila i numeri per capire quale sarà la variazione tariffaria per le bollette, ma intanto l’esecutivo ha acceso un faro con un occhio alle aste della CO2, i cui proventi sono destinati, come prevede l’articolo 15 del decreto di recepimento della direttiva Ue sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili (Red II), per la parte che compete al Mite, a coprire, dal 2022, «i costi di incentivazione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica mediante misure che trovano copertura sulle tariffe dell’energia».

È una tessera del percorso più ampio di riforma che, come detto, dovrebbe seguire lo strumento della delega, destinato a dominare buona parte del disegno di legge per la concorrenza che potrebbe arrivare in consiglio dei ministri per metà mese. Il governo pensa infatti di chiedere la delega al Parlamento, per poi agire con decreti legislativi, anche sui servizi pubblici locali, sulle concessioni idroelettriche, sul commercio ambulante, sulla vigilanza dei mercati e conformità dei prodotti. Altre materie invece, dalla sanità ai porti alla mobilità elettrica, dovrebbero entrare nel Ddl senza ricorso alla delega ma anche su questi fronti non si escludono cambiamenti dell’ultim’ora.

IlSole24Ore

domenica 5 settembre 2021

Mario, in arte Tolomeo. - Marco Travaglio


Dopo un po’ di meritato riposo, ci riavventuriamo nell’arrampicata libera su un editoriale di Massimo Franco, la penna più arrapante del Corriere, al cui confronto Stefano Folli di Rep. è Moana Pozzi. Il titolo “Cambio di gioco” fa pensare a qualcosa di ludico. Infatti si parla di Draghi che “sta ridefinendo il rapporto tra il proprio governo e i partiti in un modo che potrebbe far pensare a un rimodellamento delle gerarchie istituzionali”. Vi viene l’acquolina in bocca? A noi sì, unita alla curiosità che già fu di Totò: chissà ’sto Franco dove vuole arrivare. Per lui Draghi si colloca “in un ruolo quasi ‘tolemaico’”, e così Copernico e Galileo sono sistemati. Tutti i pianeti ruotano attorno a Lui. È la variante franchista e mariana del mussoliniano “Duce, tu sei la luce”: il Faro “traccia sfere di competenza e di influenza distinte tra i vari protagonisti, dopo la confusione e gli sconfinamenti degli ultimi decenni e anni” (ma anche – volendo – lustri): decenni e anni di tale casino che, per dire, governava chi vinceva le elezioni anziché chi le perdeva o non si presentava proprio. “Draghi è il garante di questa riscrittura delle regole e degli ambiti”, perché è un tipo “trasformativo” che “modella nuovi equilibri”, “un’occasione di rinnovamento e non di frustrazione e di irrilevanza per le stesse forze che lo sostengono”. I partiti dicono una cosa, lui fa l’opposto, ma non devono offendersi, anzi godere della “opportunità offerta da questa fase”: è per “una causa nobile”, il “sistema ha un tremendo bisogno di rilegittimarsi” e per farlo deve perpetuare in eterno questa ammucchiata di voltagabbana.

Per ora in verità i sondaggi premiano la Meloni e Conte, unici ostacoli al progetto “Draghi Forever”, ma magari col tempo la gente si rassegna. Oppure, a furia di farsi trasformare dal premier trasformativo, Salvini finirà per credersi Letta, Letta per credersi Calenda e Renzi per credersi B. (cosa che peraltro già fa da un pezzo). Un tempo, fino a quando Conte cercava 5 o 6 responsabili, si chiamava “trasformismo”. Ora si chiama “trasformatività”, “esperimento”, “laboratorio”, “recupero su nuovi presupposti”. Voi vi domanderete: ma che minchia vuol dire? Se i giornaloni sottotitolassero gli editoriali per i non paraculi, quello di Franco sarebbe riassumibile in una sola frase: “È dal 2013 che gli italiani sbagliano a votare, punendo i nostri padroni: onde evitare che perseverino, mettiamoci d’accordo che, comunque vadano le prossime elezioni, Draghi resta lì con questa ammucchiata, possibilmente senza Conte e Meloni, così salviamo l’argenteria”. Nell’attesa, ci rifacciamo gli occhi e la bocca con l’altro editoriale del Corriere: “Ora un piano per Kabul”. È di un giovane virgulto di belle speranze: un certo Silvio Berlusconi.

ILFQ

Green pass, perché ora vale per 12 mesi e quanto dura la protezione del vaccino. - Marzio Bartoloni

 

Il Parlamento ha appena allungato di 3 mesi la vita dei certificati verdi. Ma al momento non esistono certezze sulla durata della protezione del vaccino.

Il Parlamento ha appena allungato la vita dei nostri green pass che conquistano 3 mesi in più e dunque dureranno 12 mesi invece dei nove previsti finora. Al momento però non esistono certezze sulla durata della protezione del vaccino che sembrerebbe cambiare in base anche a chi sono gli immunizzati. Non è un caso che la terza dose del vaccino sarà somministrata ai pazienti più fragili già tra un mese, come annunciato dal ministro della Salute Speranza, ben prima dei 12 mesi di durata previsti dal “nuovo” green pass. Ma per il resto della popolazione non c’è questa urgenza, come ha appena detto l’Ema.

L’allungamento del green pass.

La novità è arrivata con le modifiche approvate dalla commissione Affari sociali della Camera al decreto che ha esteso l’impiego del certificato verde dallo scorso agosto. Provvedimento che da lunedì 6 settembre sarà in aula della Camera per il prima via libera. La misura come detto prevede che i nuovi e i vecchi green pass dureranno 12 mesi invece di nove, non solo quelli ottenuti attraverso la vaccinazione ma anche quelli in tasca ai guariti di Covid che hanno fatto, come previsto, una sola dose del vaccino. Tra l’altro tra le modifiche approvate in commissione c’è anche quella che consente di ottenere il green pass non solo attraverso tamponi e test antigenici, ma anche con i tamponi salivari (ma come per gli altri test il green pass in questo caso durerà 48 ore).

La durata a 12 mesi.

Ma perchè allungare di tre mesi il green pass? Il vaccino dunque protegge almeno fino a un anno? Finora per queste domande non esistono risposte certe anche se diverse pubblicazioni scientifiche evidenziano la caduta della risposta anticorpale nella popolazione più fragile, come gli immunodepressi . Anche dall’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, arrivano delle prime indicazioni che aiutano a fare chiarezza. L’Ema proprio nei giorni scorsi ha aperto alla possibilità della terza dose, ma solo per i pazienti più fragili, mentre per il resto della popolazione è stata chiara: «Sulla base delle prove attuali, non è urgente la somministrazione di dosi di richiamo dei vaccini Covid-19 alle persone già completamente vaccinate nella popolazione generale», ha spiegato l’Agenzia insieme al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc). Come dire che lo scudo offerto dal vaccino ancora funziona per la stragrande maggioranza degli immunizzati. Anche se alcuni Paesi si stanno portando avanti, tra tutti Israele che ha iniziato già a somministrare la terza dose a tutti (partendo però dagli anziani). Lì però le vaccinazioni sono iniziate prima, già a dicembre 2020.

Quanto protegge dunque il vaccino?

Le vaccinazioni in Italia sono partite a gennaio 2021 per i sanitari e a febbraio per gli over 80. Dunque un anno non è ancora trascorso. Fatto sta però che pubblicazioni scientifiche ed esperti -a partire dal Comitato tecnico scientifico - cominciano a sostenere la necessità di una terza dose almeno per una porzione di vaccinati perché come ha spiegato anche Giorgio Palù, presidente dell’Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco) e membro del Cts il ciclo previsto attualmente «non protegge sufficientemente i soggetti immunodepressi, i trapiantati, i pazienti oncoematologici, i dializzati», ma «anche i soggetti anziani» che dovrebbero essere considerati immunodepressi. Ecco perché per queste categorie la somministrazione della terza dose partirà prima di un anno e cioè già dopo 8-9 mesi dalla precedente immunizzazione. Per il resto della popolazione invece la terza dose, se ci sarà, arriverà più tardi. Nasce anche da qui la decisione di allungare il green pass a 12 mesi. Con una postilla: su questa materia non ci sono punti fermi e i cambiamenti, in base alle evidenze scientifiche in continua evoluzione, possono essere sempre dietro l’angolo.

IlSole24Ore

sabato 4 settembre 2021

Incendio in centro a Torino, in fiamme le mansarde di un palazzo. -

 

Tra via Lagrange e piazza Carlo Felice. Cinque feriti lievi.


Fiamme, esplosioni e un denso fumo nero nel centro di Torino per un violento incendio scoppiato nella mattinata tra gli attici e le mansarde di un elegante edificio davanti alla stazione ferroviaria di Porta Nuova. Il rogo ha seminato il terrore tra gli abitanti, si è poi esteso a un altro condominio nello stesso isolato.

Una trentina di vigili del fuoco al lavoro, l'incendio nel tardo pomeriggio non era ancora spento.

L'incendio è stato bloccato ma non si può ancora dire che sia stato spento. Le operazioni proseguiranno per tutta la serata per spegnere gli ultimi focolai e per rimuovere la copertura", dicono i soccorritori. L'incendio ha bruciato 1.800 metri quadri. Le fiamme hanno prima coinvolto gli attici del palazzo 'Lagrange', ma con il passare delle ore hanno avvolto anche le soffitte e il quarto piano di un altro condominio con finiture più vecchie. Molte le esplosioni di bombole a gas raggiunte dal fuoco. L'intera zona è stata isolata e sono stati un centinaio gli sfollati da appartamenti, uffici e negozi.

Cinque le persone soccorse dai sanitari del 118: sono state curate sul posto e non hanno avuto bisogno di essere trasportate in ospedale. Si tratta di due proprietari delle abitazioni coinvolte nell'incendio, che hanno avuto malori per lo spavento, due agenti di polizia e un operaio, medicati per delle escoriazioni. Evacuati e chiusi anche i negozi, mentre alcuni palazzi del vicino isolato sono rimasti al buio e le auto sono state spostate dai parcheggi.

Le fiamme hanno continuato nel pomeriggio ad avanzare sui lati di piazzetta Lagrange e via Lagrange, mentre l'aria fino a via Roma è diventata irrespirabile. Sul posto oltre ai vigili del fuoco anche polizia e carabinieri che si sono adoperati a mettere in sicurezza le vie e ad evacuare le persone, mentre la polizia municipale ha chiuso un tratto di corso Vittorio Emanuele, deviando il traffico. 

Secondo i primi accertamenti "anche se siamo ancora nel campo dell'ipotesi", precisano gli investigatori, le fiamme sarebbero state causate da alcune scintille scaturite da una saldatrice usata da un fabbro per collocare una cassaforte in un attico, e avrebbero incendiato la coibentazione inserita nell'intercapedine della parete.

ANSA

Milano, le indagini sull'​incendio: altamente infiammabili i pannelli che rivestivano il grattacielo.

 

Il materiale di cui erano composti, e di cui non è stata ancora definita l'esatta qualificazione in quanto mancano alcuni documenti tecnici, avrebbe agito da 'conduttore' rendendo in sette minuti il rogo incontrollabile. Che si sia sciolto lo dimostrano le 'pozze' che si sono formate ai piedi dell'edificio nel momento in cui è andato a fuoco.

I pannelli del rivestimento esterno della Torre dei Moro di via Antonini, il grattacielo di 18 piani che domenica scorsa è incendiato trasformandosi in una torcia incandescente, sono di materiale plastico sintetico altamente infiammabile e che a temperature elevate si scioglie. E' un particolare che emerge dalle prime analisi di laboratorio condotte dal Nucleo Investigativo Antincendio disposte dalla Procura di Milano che ha aperto un fascicolo per disastro colposo      Secondo gli accertamenti finora effettuati, quel materiale, di cui non è stata ancora definita l'esatta qualificazione in quanto mancano alcuni documenti tecnici, avrebbe agito da 'conduttore' rendendo in sette minuti il rogo incontrollabile. E che si sia sciolto lo dimostrano le 'pozze' che si sono formate ai piedi dell'edificio nel momento in cui è andato a fuoco, fortunatamente senza causare vittime. L'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliana e Marina Petruzzella, che sta ricostruendo la dinamica dell'incendio con particolare riguardo all'aspetto della sicurezza, tra i vari capitoli, non solo punta a stabilire l'esatta composizione dei pannelli ma anche se questi corrispondano a quanto dichiarato nella pratica edilizia presentata in Comune. Le indagini, dunque, anche se al momento non hanno ancora accertato quale sia stata la causa effettiva dell'incendio che si è sviluppato in un appartamento al 15esimo piano e il cui proprietario non è ancora stato rintracciato, hanno però confermato che il rivestimento esterno a forma di vela probabilmente aveva fini estetici, non era ignifugo. Inoltre, non è emersa alcuna evidenza che fosse di Alucobond. Con questa premessa ora, oltre a far luce sulle presunte falle del sistema antincendio di cui si sa che era stato collaudato e certificato nel 2010, l'inchiesta mira ad accertare se i pannelli fossero a norma dato che non solo si sono sciolti ma alcuni pezzi sono diventati tizzoni e sono volati disseminando focolai in diversi piani del grattacielo. Mentre inquirenti e investigatori sono al lavoro anche sulle carte raccolte - come la pratica edilizia depositata in Comune e il fascicolo antincendio dell'edificio - oggi sono proseguite le operazioni di recupero degli oggetti personali degli inquilini che in pochi minuti hanno perso la loro casa. -

RaiNews