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sabato 4 settembre 2021

Incendio in centro a Torino, in fiamme le mansarde di un palazzo. -

 

Tra via Lagrange e piazza Carlo Felice. Cinque feriti lievi.


Fiamme, esplosioni e un denso fumo nero nel centro di Torino per un violento incendio scoppiato nella mattinata tra gli attici e le mansarde di un elegante edificio davanti alla stazione ferroviaria di Porta Nuova. Il rogo ha seminato il terrore tra gli abitanti, si è poi esteso a un altro condominio nello stesso isolato.

Una trentina di vigili del fuoco al lavoro, l'incendio nel tardo pomeriggio non era ancora spento.

L'incendio è stato bloccato ma non si può ancora dire che sia stato spento. Le operazioni proseguiranno per tutta la serata per spegnere gli ultimi focolai e per rimuovere la copertura", dicono i soccorritori. L'incendio ha bruciato 1.800 metri quadri. Le fiamme hanno prima coinvolto gli attici del palazzo 'Lagrange', ma con il passare delle ore hanno avvolto anche le soffitte e il quarto piano di un altro condominio con finiture più vecchie. Molte le esplosioni di bombole a gas raggiunte dal fuoco. L'intera zona è stata isolata e sono stati un centinaio gli sfollati da appartamenti, uffici e negozi.

Cinque le persone soccorse dai sanitari del 118: sono state curate sul posto e non hanno avuto bisogno di essere trasportate in ospedale. Si tratta di due proprietari delle abitazioni coinvolte nell'incendio, che hanno avuto malori per lo spavento, due agenti di polizia e un operaio, medicati per delle escoriazioni. Evacuati e chiusi anche i negozi, mentre alcuni palazzi del vicino isolato sono rimasti al buio e le auto sono state spostate dai parcheggi.

Le fiamme hanno continuato nel pomeriggio ad avanzare sui lati di piazzetta Lagrange e via Lagrange, mentre l'aria fino a via Roma è diventata irrespirabile. Sul posto oltre ai vigili del fuoco anche polizia e carabinieri che si sono adoperati a mettere in sicurezza le vie e ad evacuare le persone, mentre la polizia municipale ha chiuso un tratto di corso Vittorio Emanuele, deviando il traffico. 

Secondo i primi accertamenti "anche se siamo ancora nel campo dell'ipotesi", precisano gli investigatori, le fiamme sarebbero state causate da alcune scintille scaturite da una saldatrice usata da un fabbro per collocare una cassaforte in un attico, e avrebbero incendiato la coibentazione inserita nell'intercapedine della parete.

ANSA

domenica 14 febbraio 2021

Governo, Conte passa la campanella a Draghi. Fatto fuori da una manovra di palazzo, esce tra gli applausi dei dipendenti di Chigi.

 

Il premier che ha ottenuto i 209 miliardi della Ue sostituito da chi vuole garanzie per gestirli. Attraverso un'operazione politica guidata da Renzi e appoggiata dai maggiori gruppi economici ed editoriali del Paese. Una manovra che già nel maggio scorso il vicesegretario del Pd Orlando (oggi ministro del Lavoro) aveva pronosticato: "Nelle prossime settimane vivremo una serie di attacchi al governo finalizzati alla sua caduta, ispirati anche da centri economici e dell’informazione."

Sui social circola una battuta. Anzi non è una battuta: è una classifica. Mette in fila la lista dei presidenti del consiglio per durata del mandato. La top ten si chiude con Matteo Renzi, che a Palazzo Chigi è rimasto per 1024 giorni. Subito dietro, a trentasei giorni di distanza, c’è Giuseppe Conte. Eccola la battuta, non troppo ironica: è per questo che il leader di Italia viva ha fatto cadere il governo? È per questo che l’ex segretario del Pd ha provocato la crisi politica dal quale è nato l’esecutivo di Mario Draghi? Per tenere a distanza dal suo decimo posto l’inseguitore, distante poco più di un mese? Il diretto interessato, chiaramente, smentisce. Negli ultimi giorni, però, ha cominciato ad ammettere – quasi a rivendicare – di avere buttato giù la maggioranza che sosteneva Conte con l’unico obiettivo di sfrattare l’inquilino di Palazzo Chigi. Ma lo ha fatto, sostiene, solo perché voleva un governo guidato dall’ex presidente della Bce. “Tutti sapevano che Draghi era migliore di Conte, ma nessuno ha avuto il coraggio di lavorare in questa direzione”, si è vantato in una serie di interviste rilasciate alla stampa internazionale. “Questa era la mia strategia. Ho fatto tutto da solo, con il 3 per cento“, è arrivato a dire. Ammettendo dunque che tutte le richieste avanzate a Conte negli ultimi mesi – dal Mes al Recovery – erano assolutamente strumentali alla caduta dell’esecutivo.

Obiettivi raggiunto. Oggi Giuseppe Conte ha lasciato palazzo Chigi. Ha accolto il suo successore, proveniente dal giuramento del Quirinale, ha partecipato alla nota cerimonia della campanella, quindi è uscito dal palazzo che ospita la sede del governo. È uscito nel cortile dove lo attendeva il picchetto d’onore ed è stato applaudito dai dipendenti di Palazzo Chigi, che lo hanno salutato affacciandosi dalle finestre. Conte li ha ringraziati e, insieme alla compagna Olivia Paladino, è salito in macchina. Fuori dal Palazzo ha trovato una piccola folla, che si era riunita dall’altro lato della piazza e che ha intonato anche un coro “Conte Conte”.

Finisce così l’ultimo atto della “strategia” di Renzi. Che per la verità il leader d’Italia viva non ha portato avanti tutto da solo. Da tempo i principali settori di potere italiano bombardavano il governo Conte. Già nell’inverno scorso Italia viva aveva cominciato una guerra a bassa intensità: avrebbe probabilmente portato a una crisi con dodici mesi di anticipo, se non fosse scoppiata la pandemia. All’epoca il casus belli era la riforma della prescrizione, eterno campo minato che aveva già convinto Matteo Salvini a buttare giù il governo gialloverde. Dopo la pandemia, invece, la giustizia è stata soltanto uno dei prestesti utilizzati dai renziani per indebolire ogni giorno la maggioranza di cui facevano parte. Gli altri sono noti: la delega ai Servizi segreti che Conte non voleva cedere a un sottosegretario, il Mes, la cabina di regia del Recovery plan, la divisione dei fondi in arrivo da Bruxelles. Tutte istanze che sono scomparse da quando Sergio Mattarella ha dato l’incarico a Draghi. Anzi, con una giravolta tragicomica, i renziani sono arrivati a dire che adesso il Mes non serve più.

L’ennesima prova che suggerisce come l’unico vero obiettivo di Italia viva fosse sfrattare Conte da Palazzo Chigi. Un obiettivo perseguito in comunione d’intenti con diversi ambienti del potere italiano. A mettere in fila fatti e dichiarazioni d’archivio si può dire che Giuseppe Conte inizia a cadere quando ottiene da Bruxelles lo stanziamento degli ormai noti 209 miliardi di fondi per la ripartenza post pandemia. E qui va ricordata una cosa: è il premier uscente che ha consentito al nostro Paese di ottenere un risultato senza precedenti dall’Unione europea. È durante il suo mandato che l’Ue cambia diametralmente strategia, passando dall’austerità agli aiuti a fondo perduto per uscire dall’acrisi. Già dopo la fine del lockdown, quando si capisce che l’Europa avrebbe cambiato la sua politica economica per fronteggiare la crisi del Covid, che gli attacchi all’esecutivo s’intensificano. Appena si capisce che arriveranno miliardi di fondi europei si mette in moto una sorta di meccanismo. Sembra una teoria del complotto ma è l’oggetto di una denuncia di un esponetne della maggioranza. E non è un complottista grillino. “Nelle prossime settimane vivremo una serie di attacchi al governo finalizzati alla sua caduta, ispirati anche da centri economici e dell’informazione, non tanto per correggere come è lecito l’attività di governo ma per rivedere il patto di governo e riorganizzare la maggioranza”, dice il 16 maggio Andrea Orlando, vicesegretario del Pd e politico al di sopra di ogni sospetto: non faceva parte del governo Conte, mentre oggi entra in quello Draghi come ministro al Lavoro.

L’analisi del numero due di Nicola Zingaretti è lucida: l’obiettivo è far fuori il governo Conte per gestire i soldi che arriveranno dall’Europa. “Dobbiamo saperlo: gestire quei flussi finanziari fa gola a molti, e alcuni si prestano anche a operazioni politiche che vanno in questo senso. Ci parleranno della capacità comunicativa di Conte o dell’errore di questo o quel ministro, ma all’ordine del giorno c’è un altro tema, provare a vedere se si costruisce un’altra formula politica”. Quelli erano i giorni in cui Fca aveva chiesto 6 miliardi di prestiti con garanzia pubbblica, solo alcune settimane dopo aver ufficializzato l’acquisto di RepubblicaLa Stampal’Espresso e degli altri giornali e mezzi di comunicazioni del gruppo Gedi. Gli Agnelli cambiano direttore (via Carlo Verdelli dentro Maurizio Molinari) e linea editoriale: quello che un tempo era il principale quotidiano del centrosinistra italiano accentua – e di parecchio – gli attacchi nei confronti di un governo sostenuto da una maggioranza di centrosinistra. Una linea condivisa anche dagli altri principali giornali italiani: risalgono proprio a prima dell’estate i primi retroscena su un possibile cambio di governo, per virare su una formula a larghe intese. Il nome di Mario Draghi inizia ad aleggiare dietro a ogni pagina, quando editorialisti e commentatori iniziano ad auspicare l’arrivo di un premier “europeista“. E pazienza se è grazie a Conte, alla sua strategia tenuta durante i vari consigli europei, ai rapporti creati con gli altri leader dell’Unione, se alla fine Bruxelles ha deciso di stanziare per il nostro Paese la cifra di gran lunga più alta per la ripartenza post Covid.

L’estate trascorre così. L’autunno, invece, diventa caldo. Non tanto per la crisi economica che c’è e si sente, ma non provoca i pericolosi disordini sociali pronosticati – quasi auspicati – dai commentatori di ogni estrazione politica. La tensione si alza perché a settembre ci sono le elezioni regionali e il referendum sul taglio dei Parlamentari. Il centrodestra sembra avanzare, quasi ovunque Renzi corre separato dal Pd e dal M5s. A cinque giorni dal voto, Goffredo Bettini, lancia l’allarme: “Ci sono forze che vogliono normalizzare il Paese e colpire un governo libero, che non risponde a nessun potere esterno; che non accetta condizionamenti o diktat. A questo nostro profilo si oppone il “salotto buono” del capitalismo italiano che agisce anche comprando i giornali. E poi la Confindustria di Bonomi, molto aggressiva”, dice in un’intervista al Fatto Quotidiano. In cui fa esplicitamente il nome di Renzi : “Invece di lavorare per isolare la destra sovranista, favorendo una rottura con essa delle componenti moderate di Forza Italia, attacca il Pd. Di fronte alla responsabilità enorme di un buon utilizzo delle risorse del Recovery Fund, occorre parlare con una sola voce”. Secondo Bettini, però, quel tentativo di buttare giù Conte è “maldestro perché porterebbe alle elezioni ora, a cui solo la destra è interessata; oppure a un governo tecnico che umilierebbe ancora una volta la politica. Mi dispiace, su questo abbiamo già dato“. Il futuro dimostrerà che Bettini si sbagliava, anche se ci aveva visto giusto.

Il referendum sul taglio dei parlamentari passa, il Pd batte il centrodestra alle Regionali 4 a 3. A ottobre e novembre il possibile arrivo della seconda ondata di coronavirus impensierisce l’esecutivo Nel giorno dell’Immacolata, però, Matteo Renzi decide di azionare il telecomando che fa saltare in aria il governo Conte. Comincia da quel momento un lungo mese di minacce, tensioni, ricatti. Con le feste natalizie alle porte il Paese è attraversato dalla seconda ondata della pandemia. Italia viva sembra vivere fuori dal mondo: invece di parlare di Covid attacca l’esecutivo a ogni giorno e a ogni ora. Un escalation continua che porta prima al ritiro dei ministri, poi alle dimissioni del premier, quindi al mandato esplorativo di Roberto Fico, sabotato dai renziani. Alla fine ecco Draghi, il governo tecnico, le larghe intese. Nel nuovo esecutivo su 15 ministri politici, otto lo erano anche nel governo Conte 2, tre nel Conte 1, uno è Orlando, tra i primi sostenitori del presidente del consiglio uscente. Tra i tecnici viene confermata al Viminale Luciana Lamorgese, mentre va alla Transizione tecnoligica Vittorio Colao, l’uomo scelto sempre dall’ex premier come guida della task forze per studiare la ripartenza del post pandemia. Manca lui, Giuseppe Conte, che oggi lascia Palazzo Chigi: tra 36 giorni avrebbe superato il record di Renzi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/13/governo-conte-passa-la-campanella-a-draghi-fatto-fuori-da-una-manovra-di-palazzo-esce-tra-gli-applausi-dei-dipendenti-di-chigi/6100236/

venerdì 8 marzo 2013

“Aiuto, arrivano i grillini”. Scene di panico a Montecitorio. - Francesco Lo Sardo

"Aiuto, arrivano i grillini". Scene di panico a Montecitorio

"Pronto Palermo? Qui Roma". Come i 1500 dipendenti della Camera si preparano all'arrivo dei deputati Cinquestelle. Tra telefonate in Sicilia e riscoperta della sobrietà.


«Pronto Palermo, palazzo dei Normanni? Qui Roma, Montecitorio…». Si dice che ci sia una linea rossa telefonica più rovente di quella tra Mosca e Washington negli anni di Kruscev e Kennedy: è la hot-line tra la segretaria generale di Montecitorio e la segreteria generale dell’Ars, l’Assemblea regionale siciliana, il parlamento di palazzo dei Normanni. Il motivo è semplice. Mentre l’irriducibile popolino del «ci vorrebbe una bomba sotto Montecitorio» sghignazza e si frega le mani in attesa dello show della carica grillina al Palazzo inneggiando alla berlina per gli onorevoli – la vituperata casta dei politici ormai rassegnata a tagli e automutilazioni indifferibili – c’è un’altra casta, silenziosa e felpata, rimasta all’ombra dei riflettori, che trema: è quella dei funzionari della camera, una delle più protette amministrazioni d’oro dello stato, organo costituzionale al pari di senato, corte costituzionale, governo e presidenza della repubblica. Una struttura operosa e silente che a Montecitorio conta mille e cinquecento dipendenti, articolata secondo la scala piramidale gerarchica che va dal grado più alto di consigliere di V livello – quello dei “funzionari”, in cima a tutti il segretario generale vertice supremo dell’amministrazione – al I livello, quello che include gli assistenti parlamentari, più conosciuti come “commessi” abito nero, gradi dorati e coccarda tricolore.
L’ascensore d’élite diventa plebeo
Se molto ha fatto sorridere la coscienziosa rimozione delle targhette in ottone dall’ufficio postale di Montecitorio che recavano la dicitura “dare la precedenza agli onorevoli deputati” e quelle che indicavano la sala di lettura prospiciente il Transatlantico come “riservata agli onorevoli deputati”, pochi hanno notato la parimenti tempestiva rimozione delle targhe di analogo tenore apposte in alcuni degli ascensori del palazzo che recavano l’oscura (per i nuovi arrivati grillini) dicitura: “Riservato ai consiglieri”. Che succede? Succede che la crema della casta dei funzionari si fa concava, abbassa il suo altero profilo. Così, onde evitare che gli scatenati ma naif neodeputati del M5S iniziassero a interrogarsi sul chi fossero esattamente quei misteriosi “consiglieri” col privilegio di poter fare su e giù a bordo di eleganti ascensori in boisserie, le targhette discriminatorie sono scomparse: col sadico compiacimento dei “paria” – si fa per dire – del personale di IV, III, II e I livello che pure del divieto di usare gli ascensori d’elite – ora formalmente cancellato – se ne infischiavano già da tempo. Dettagli, che però la dicono lunga sulla paura che c’è nel Palazzo e che attanaglia assai più gli alti funzionari che non i bistrattati e sbertucciarti parlamentari, sulla graticola da anni.
La hot-line dei segretari generali
Così, sibilano i maligni nel palazzo, da settimane il segretario generale della camera Ugo Zampetti si tiene in contatto con il collega segretario generale del parlamento regionale siciliano Giovanni Tomasello (finito nel mirino del nuovo governatore del Pd Crocetta perché guadagnava più del triplo del suo pari grado di Palazzo d’Orleans, Patrizia Monterosso: 13.145 euro netti al mese, ora sforbiciati, contro i circa 4.300 euro). Come avete fatto e come fate giù in Sicilia con i grillini? Le notizie che arrivano da Palermo non sono rassicuranti per i superburocrati di Roma. Nell’era Crocetta, segnata politicamente dell’ingresso di un pattuglione del M5S, i primi tagli alla casta della burocrazia di palazzo dei Normanni si sono già fatti sentire. Al segretario generale sono stati per ora tagliati 30mila euro di stipendio all’anno, è stata cancellata la figura del segretario generale aggiunto, ridotti e accorpati gli uffici da 29 a 21, gli incarichi di vertice sono scesi da 13 a 11. Ma c’è anche la soppressione dell’indennità di produttività per il segretario generale, la riduzione del 25 per cento dell’indennità di funzione di vicesegretari regionali, di direttori, capi uffici, responsabili delle unità operative e il taglio del 15 per cento delle altre indennità: notturno, festivi, missioni e la reperibilità. Giovanni Ardizzone, presidente dell’assemblea regionale siciliana, facendo di conto, calcola che «il bilancio è già di 10 milioni di euro inferiore al precedente, con un taglio di circa il 7 per cento. Abbiamo effettuato un milione di euro di tagli al personale in servizio, il personale assunto dal primo gennaio 2013 ha un livello di stipendio inferiore del 20 per cento rispetto ai loro pari grado più anziani, sono state ridotte le posizioni apicali e il numero degli uffici interni».
Crocetta e i biscotti
E’ questo il futuro che aspetta anche i grand commis di Montecitorio? La sforbiciata è tuttamade in Rosario Crocetta, per dare a Cesare quel che è di Cesare, sia chiaro. Ma non c’è dubbio che una potente spinta propulsiva, che la forza con cui Crocetta ha preso il toro per le corna, gli sia arrivata anche dalla sponda dei grillini, la vera sorpresa delle regionali siciliane dell’ottobre scorso. Che nel frattempo, come gli americani sbarcati in Sicilia nel ’43, sono arrivati a Roma. Dall’alto delle loro 15 mensilità di stipendio da dipendenti della camera (le mensilità dei dipendenti del senato sono 16) non stupisce che i funzionari romani di Montecitorio e palazzo Madama – per ora in assenza di un decisionista alla Crocetta ma già in presenza delle mine vaganti grilline – non sappiano che pesci pigliare. Il terrore è quello di un possibile presidente della camera grillino: una prospettiva che per i burocrati sarebbe po’ come andare a cena con un cannibale. Per ora gli espedienti messi in atto sono grotteschi: la rimozione delle targhette, piuttosto che la trasformazione della scintillante buvette di Montecitorio in una sorta di bar dell’Unione sovietica degli anni ’50. Dagli scaffali, desolantemente vuoti, sono stati rimossi persino i biscotti, le caramelle e i cioccolatini. Bisogna trasmettere una sensazione di grande auterità e severità di costumi. Basterà ad abbindolare gli ingenui grillini? I grand commis della camera, e giù giù tutta la struttura, sperano di sì: per anni hanno mantenuto i loro privilegi (maggiori o minori a seconda dei gradi) e oggi, parafrasando il monatto dei Promessi sposi che fa spallucce a Renzo Tramaglino, pensano in cuor loro che non saranno quei poveri untorelli grillini a spiantarli. Ne hanno viste passare tante, passerà anche questa. Cercheranno di ingraziarseli, confidando che i politici facciano come sempre da parafulmini, che l’ira popolare di cui si alimentano i grillini resti concentrata su deputati e senatori. Però la fifa di imprevisti fa novanta. E fa paura il cortocircuito tra stampa e grillini.
Microchip e rivoltelle
Lunedì 11 marzo, per esempio, quando scatterà la macchina dell’accoglienza nel palazzo dei nuovi deputati per la loro identificazione e registrazione, per la prima volta da decenni sarà impedito alla stampa di assistere alle procedure di arrivo delle matricole parlamentari. Motivo? Come reagiranno, per esempio, i grillini quando i funzionari della camera e il personale della sicurezza chiederà loro di poter prendere le impronte digitali (non obbligatorie, a dire il vero) per il nuovo sistema voto anti-pianisti elettronico in aula? Altro che microchip sottopelle. Meglio che la stampa non veda. E come si comporterà l’occhiuto personale addetto alla sicurezza interna della camera quando i grillini, armati di telecamerine, cominceranno a videoregistrare tutto ciò che accade nel palazzo, dall’aula alle commissioni, dai sottotetti ai sotterranei del palazzo? Videoregistrare e fotografare è forse l’attività più proibita all’interno del palazzo. Se ci prova un giornalista, la paga cara. Per il resto finché a violare le regole è un deputato, una singola testa calda, è un conto: ma che succede se lo fanno in centocinquanta? E poi, come reagiranno gli altri colleghi deputati, inseguiti e videoregistrati in ogni anfratto di camera e senato dai cameramen-parlamentari a Cinque stelle? Il “rischio sganassoni”, si dice tra i più anziani commessi, è forte. Ma quel palazzo e i suoi silenziosi inquilini-dipendenti che a differenza dei parlamentari – che passano – non ne escono se non per andarsene in pensione, hanno già visto di tutto: e tutto masticato, digerito, metabolizzato. La creatività protestataria degli irregolari e pirotecnici radicali nella Prima repubblica, i temutissimi Savonarola della Seconda repubblica, forcaioli leghisti e manettari dipietristi.
Se per questo, nel 1921 i loro austeri predecessori dovettero persino fare i conti con qualche deputato fascista che arrivò a varcare la soglia dell’aula armato di rivoltella. In fondo, mentre il cuore trema, la ragione suggerisce che si troverà il modo di sopravvivere anche alla minaccia del comico Beppe Grillo e della sua armata parlamentare. Parafrasando il raccontoUn marziano a Roma di Ennio Flaiano, l’extraterrestre di cui dopo un po’ nessuno si curava, già corre feroce il motto: “A grilli’, facce ride”. Epperò, vacci a mettere la mano sul fuoco. Non si sa mai.