martedì 25 gennaio 2022

Fumata nera: non potevano pensarci prima? - Antonio Padellaro

 

Di fronte alla pioggia di schede bianche e fumate nere del primo scrutinio che rischia di trasformarsi in una grandinata domani e forse anche dopo. Di fronte ai leader che brancolano nel buio, con tutti che incontrano tutti in un vertiginoso e incomprensibile moto perpetuo. Di fronte al rosario di insopportabili dichiarazioni degli addetti ai lavori, che in tv discettano di “metodo”, di “sensibilità”, di “profili”, senza farci capire nulla, una domanda sorge spontanea: ma non potevano pensarci prima? Che la corsa verso il Colle sarebbe stata irta di ostacoli, di veti e di imprevisti lo avevano capito tutti già un mese fa nella famosa conferenza stampa di Mario Draghi.

Quella del “nonno a disposizione delle istituzioni”, e quindi del Quirinale. Quella che denotava una certa insofferenza da parte del premier per le crescenti tensioni nella maggioranza di unità nazionale, ma solo di facciata. Eppure per più di un mese non è successo niente di niente, a parte il solito chiacchiericcio sul giornali e nei talk per raccattare un titolo, per accendere una polemicuzza. Dozzine di nomi candidabili gettati al vento per mascherare il vuoto decisionale della politica. Fino alla farsa di un signore anziano e non più lucidissimo che si fa candidare da un centrodestra a dir poco riluttante, ma che insiste perché lui l’aveva promesso alla mamma che sarebbe arrivato al Quirinale. È finita come tutti sapevano come sarebbe finita e che infatti tutti hanno usato come un alibi dietro cui nascondersi. Di fronte a un tale colpevole spreco di tempo. Di fronte alla liturgia di voti perduti o consumati su nomi improbabili c’è un’altra domanda che sorge spontanea e che riguarda la stragrande maggioranza dei cittadini. Quelli che immersi da due lunghissimi anni nella nebbia avvelenata della pandemia, invece il tempo non lo hanno mai perso o gettato al vento. Quando sono corsi a vaccinarsi per tre volte consecutive. Ligi alla dura disciplina dei green pass normali e super. Sempre disponibili a osservare la massa di regole incessantemente prodotte dalla macchina governativa, anche le più cervellotiche. Cosa si chiedeva in cambio? Che coloro che si sono assunti la responsabilità di guidare la comunità nazionale dessero in un Parlamento riunito in seduta solenne, e immediatamente, un segnale di serietà, di coesione, dimostrando attenzione al bene comune sempre tanto sbandierato. Ed ecco la domanda: ieri sera costoro non hanno provato un po’ di vergogna?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/25/fumata-nera-non-potevano-pensarci-prima/6467409/?fbclid=IwAR1ninL878qHOTVXbBD3n-OQflma7gJ33qcC_2La0bW31QxHBi60W6fBUsI

Draghi o Schettino? - Marco Travaglio

 

Noi, che siamo gente semplice, avevamo capito che un anno fa Draghi avesse accettato controvoglia l’estremo sacrificio di guidare il nuovo governo e salvare la Patria per non restare insensibile allo straziante grido di dolore di un Mattarella affranto dal fallimento della politica e dalle sorti della pandemia e del Pnrr. Perciò ieri, con altri 352 morti, abbiamo letto allibiti le notizie su di Lui sperando (invano) in una secca smentita. Il Corriere riferiva che “Draghi resiste al pressing di chi lo invita a ‘trattare’” con quei puzzoni dei partiti, ma subito dopo Egli vedeva o sentiva Salvini e altri puzzoni dei partiti per parlare della sua candidatura al Quirinale, già oggetto di misteriosi conversari tra il suo palafreniere Funiciello e il dirigente Fininvest in pensione Gianni Goldman Sachs Letta. Altri scrivevano che i suoi ministri più fedeli, anziché augurarsi che Egli resti dov’è per restarci anche loro, lo vorrebbero al Colle perché sennò mollerà sdegnoso Palazzo Chigi come il bimbo capriccioso dell’oratorio che se ne va col pallone o lo buca perché gli altri non glielo passano. Altri ancora, tra un soffietto e l’altro dei camerieri di casa Agnelli-Elkann&De Benedetti, han saputo dai soliti “ambienti draghiani” (cucine? sgabuzzini? toilette?) che Egli toglierebbe il disturbo se al Colle non andasse una figura “di altissima autorevolezza istituzionale”, forse per risparmiargli un eccessivo complesso di superiorità: “Può restare premier solo con Mattarella o Amato” (Stampa), come se la Costituzione affidasse al premier la nomina del capo dello Stato e non viceversa.

Queste e altre notizie, se non prontamente smentite, ci restituirebbero non un Salvatore, ma un Affossatore della Patria. Non un nonno al servizio dell’Italia, ma uno che mette l’Italia al servizio del nonno. Un uomo guidato soltanto dalla sua sfrenata ambizione che, dopo aver spappolato i partiti che lo sostengono, riesce pure a spaccare la sua maggioranza fra Sì Drag e No Drag (dopo aver auspicato che restasse unita sul Quirinale), a indebolire se stesso come premier e a esporre l’Italia agli speculatori. E, peggio ancora, è pronto a rovesciare il governo che salva l’Italia, mentre quei puzzoni dei suoi alleati (Conte, Salvini, B. e mezzo Pd) gli gridano “resti a bordo, cazzo!”. Ancora una volta mal consigliato, sottovaluta il rischio di passare alla storia come il più irresponsabile dei destabilizzatori. Ma siamo certi che, come per la conferenza stampa a scoppio ritardato, lo capirà e oggi smentirà tutto con una secca nota: “Diffido chiunque dall’attribuirmi aspirazioni quirinalizie e dal votarmi. Un anno fa assunsi un impegno con Mattarella e intendo onorarlo sino a fine legislatura. Mi chiamo Draghi, non Schettino”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/25/draghi-o-schettino/6467373/

lunedì 24 gennaio 2022

Alla Leopolda Renzi candida Faraone sindaco di Palermo. La mossa per lanciare l’asse con Forza Italia in Sicilia. - Manuele Modica

 

21 NOVEMBRE 2021

"Questa candidatura non sarà figlia di un accordicchio con qualche forza politica. Noi stiamo con Davide, non con Micciché. Poi Micciché faccia lui", ha detto l'ex premier chiudendo la kermesse di Firenze. Nonostante non ci sia ancora ufficialmente l’appoggio di Forza Italia, l’annuncio di fatto si muove, secondo i ben informati, sul solco di un rafforzamento del patto coi berlusconiani.

Davide Faraone candidato sindaco a Palermo: è questa la mossa di Matteo Renzi per rinsaldare il patto con Forza Italia. A lanciare la corsa verso lo scranno più alto della quinta città d’Italia che andrà ad elezioni la prossima primavera è l’ex premier in persona nel discorso di chiusura dell’undicesima edizione della Leopolda. “Caro Davide, Palermo ha bisogno di te, noi siamo convinti che la tua candidatura a sindaco di Palermo non sarà figlia di un accordicchio con qualche forza politica, ma sarà una candidatura che parla alla città di Palermo”, ha detto Renzi, mettendo subito le mani avanti. “A Palermo non stiamo con Miccichè, stiamo con Davide Faraone che è una cosa diversa; poi Micciché faccia lui, Provenzano faccia lui, ma noi a Palermo ci candidiamo per guidare una città che negli ultimi anni non è riuscita neanche a seppellire i propri morti”.

Insomma: non è un caso se l’alleanza tra renziani e berlusconiani parta da Palermo. D’altronde alla conferenza stampa di presentazione del neonato gruppo in Sicilia, il percorso tracciato nell’accordo era già chiaro: “Oggi inizia il laboratorio Sicilia, un accordo che porterà Forza Italia e Sicilia Futura-Italia Viva a un grande risultato alle prossime elezioni, amministrative e regionali” aveva detto il capogruppo di Fi all’Ars, Tommaso Calderone. Così, mentre gli altri leader nazionali lanciano scadenze in cui si annuncerà il candidato sindaco di Palermo (Matteo Salvini ha detto entro Natale), l’ex premier lancia il suo luotenente, capogruppo d’Italia viva al Senato. Già nel 2012 Faraone si era candidato alle primarie del centrosinistra per scegliere il candidato sindaco di Palermo, ma era arrivato terzo dietro Fabrizio Ferrandelli e Rita Borsellino. Ora sembra volerci tentare di nuovo. La sua candidatura arriva presto, forse troppo presto: tanto che i ben informati in Sicilia sono pronti a sostenere si tratti di un annuncio strategico, finalizzato a spianare la strada a un altro candidato gradito a Forza Italia: si parla di Francesco Cascio, già presidente dell’Ars.

Di sicuro sono aperti i giochi elettorali sul grande laboratorio politico che la Sicilia si appresta a diventare, per l’ennesima volta, in vista delle Politiche del 2023. Le amministrative ad aprile 2020 nel capoluogo e le Regionali l’autunno successivo sono il terreno sul quale gli schieramenti stanno preparando la corsa alle prossime elezioni. Ad aprire le danze degli annuncia è stato Nello Musumeci, un attimo prima di Renzi. Sabato sera il presidente della Regione in carica ha annunciato la sua ricandidatura sul palco della kermesse del suo movimento politico, Diventerà Bellissima, alle Ciminiere di Catania: “Stasera abbiamo sciolto l’incantesimo, il presidente della regione sta lavorando a preparare le liste delle prossime regionali, vorrò vincere per me e per i partiti della mia coalizione”. Partiti che erano però i grandi assenti alla convention del presidente, i vertici – “tutti invitati”, ha sottolineato la consigliera regionale Giusi Savarino – non erano presenti nella folta platea catanese. La stessa Giorgia Meloni, il giorno prima a Palermo per la presentazione del suo libro, aveva mostrato una certa freddezza nei confronti del presidente: “Non intendo su questo fare fughe in avanti – ha detto venerdì Meloni -. Penso che la coalizione si debba muovere compatta e non voglio dare, in un momento nel quale invece ho come priorità di dimostrare la compattezza del centrodestra, alibi per eventuali discussioni ed eventuali divisioni”.

Come Renzi, anche Musumeci, pare dunque abbia voluto giocare d’anticipo, annunciando la sua candidatura in solitaria. Eppure alla kermesse del presidente mancavano i vertici dei partiti ma la giunta era quasi al completo. A mancare solo l’assessore leghista, Alberto Samonà, e i due vicini a Micciché, Marco Zambuto e Tony Scilla. E non si è fatta attendere, infatti, la reazione del forzista che ha gelato il presidente in carica subito dopo l’annuncio: “Quattro anni fa la sua fuga in avanti fu accettata da un centrodestra che non fu facile rimettere insieme – ha detto a caldo Miccichè -. Oggi insisto nel dire che il candidato sarà scelto dalla coalizione così come affermato anche dai leader nazionale”. Un laboratorio rovente quello siciliano, dove, nonostante le prese di distanza, le voci nel centrodestra danno per certa la ricandidatura di Musumeci, l’unico a potere garantire la compattezza della coalizione del centrodestra. A questo puntano i partiti da Roma, disposti pare anche a perdere la guida della Regione pur di non perdere l’unità alle Politiche. Nonostante le volate in avanti, e gli sconfinamenti nel capoluogo toscano, le candidature nel grande laboratorio siculo saranno decise nella capitale.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/21/alla-leopolda-renzi-candida-faraone-sindaco-di-palermo-la-mossa-per-lanciare-lasse-con-forza-italia-in-sicilia/6400116/?fbclid=IwAR05LvbwW1BZxVtRjPUDBwevDHTD2vkBDNlL7qFcbvD4mVyzsrpDSeGXKG0#


Io non lo voterei mai!

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, LA COSTITUZIONE E L’UNITÀ NAZIONALE. - GUSTAVO ZAGREBELSKY

 

“Non divisivo”: Il presidente della Repubblica non deve essere divisivo: è ovvio, siamo tutti d’accordo. È il rappresentante dell’unità nazionale. Ma, detta così senza precisare di chi e di che cosa non si deve essere divisivi, la parola è insensata. Serve solo a scambiarsi accuse: tu sei divisivo – no, divisivo sarai tu. Berlusconi è divisivo – no, sei tu il divisivo, nel momento stesso in cui lo dici di un altro. Non fermiamoci alla superficie e cerchiamo di guardare un poco che cosa c’è dentro questa parola. La politica è una sequenza di decisioni, cioè di scelte tra possibilità. Decidere significa per l’appunto dividere, tagliare, separare. Se non c’è nulla da decidere, come accade di fronte alle cose che dipendono non da noi ma dalla necessità, dal caso o dal destino, non si è, né si può essere divisivi.

Ma, fuori di questi casi, cioè nel campo delle scelte d’ogni giorno, non si può accontentare tutti. Si è divisivi per necessità, prima che per volontà. Chi volesse o promettesse di accontentare tutti sarebbe un illuso o, peggio, un ipocrita, un impostore. In politica, essere divisivi è giocoforza. Non si può piacere a tutti. C’è un momento storico in cui si concentra la summa divisio politica. È il momento in cui si stabilisce una costituzione. Per quanto si desideri ch’essa sia inclusiva, soprattutto dopo una guerra civile, quando la pacificazione è il primo imperativo, la costituzione non può includere tutto. Ogni costituzione è una differenziazione e una decisione. Non si può costituzionalizzare tutto e il suo contrario.

Si vuole la pacificazione e, quindi, non si può ammettere la violenza. Si può credere nella dignità delle persone e dare spazio al razzismo? Si vuole uguaglianza, libertà e solidarietà e ammettere l’egoismo dei più forti e dei più ricchi. Si vuole la tolleranza, che è una virtù reciproca, e si può tollerare l’intolleranza? A tutto questo e a molto altro la prima e fondamentale decisione costituzionale dà risposte chiare e nette, a incominciare dall’antifascismo che la permea in tutte le sue parti. Questa è l’unità nazionale, una nozione non neutra, amorfa, ma piena di contenuti. Non equivale a dire: tutti hanno un po’ di ragione e un po’ di torto. Non si può, per esempio, essere equidistanti tra i ladri e le guardie, tra gli evasori fiscali e i contribuenti onesti. Non decidere significa essere dalla parte dei ladri e degli evasori.

C’è, dunque, una dimensione superiore della vita pubblica, collocata nella decisione costituzionale presa una volta per tutte all’inizio di un ciclo politico, che è unitiva e divisiva, per l’un verso e per l’altro. Al di sotto, nella dinamica politica d’ogni giorno, si vota per il Parlamento, si fanno leggi, si formano e si disfano maggioranze e governi. Quella è, per così dire, la dimensione non inferiore, ma quotidiana della vita politica dove stanno divisioni e decisioni senza le quali non ci sarebbe democrazia. Chi, invece, è chiamato a operare nell’anzidetta dimensione superiore e vi opera effettivamente entro i suoi limiti intrinseci, come esecutore e garante della decisione costituzionale, non potrà mai essere accusato di “divisività”, se non da parte di chi, più che contestare lui, contesta la costituzione e le si pone contro. Anche quando, per l’eccezionalità delle situazioni, dovesse fare uso non consueto dei suoi poteri, per difendere gli amici della costituzione dai suoi nemici.

Questo breve profilo del presidente della Repubblica non sarebbe completo se non si aggiungesse ciò che è già ovvio: non gli spetta sostituirsi alla libera dinamica delle forze politiche né interferirvi, né governare anche se non direttamente ma per interposta persona, né, infine, creare attorno a sé “partiti del presidente” o giri di potere più o meno ramificati, quale che ne sia il genere: affaristico, burocratico, politico, eccetera. La provenienza dalla militanza in un partito politico può considerarsi, alla stregua di ciò che si è detto, un impedimento? Non è né un ostacolo né una preferenza.

Ciò che conta è la consapevolezza, la determinazione e l’indipendenza necessarie a chi sia chiamato a ricoprire con le sue forze una così importante e difficile carica. La consapevolezza implica la conoscenza e l’adesione alla costituzione, non ai suoi singoli, freddi articoli, ma a ciò di cui sono espressione e testimonianza: cioè alla storia, alla cultura e ai sacrifici che sono venuti a consolidarsi in questo testo, di certo uno dei più alti e significativi venuti alla luce nel tempo che ci sta alle spalle. La determinazione può essere testimoniata nelle esperienze precedenti e, certamente, è incompatibile con l’opportunismo, il trasformismo, il grigiore e l’ossequio nei confronti del potente di turno.

La presidenza della Repubblica non è per i cortigiani, anche perché essi spesso, quando le occasioni lo permettono, trasformano la debolezza del passato in prepotenza nel futuro. L’indipendenza non è l’ultima caratteristica. Anzi, forse è la prima. Chi assume il compito affascinante e tremendo di dare la rappresentazione dell’unità della nazione può farlo solo a patto di liberarsi dai vincoli che, più o meno legittimamente, lo condizionavano in precedenza.

I vincoli sono tanti e vari. Possono determinare ciò che impropriamente si chiama conflitto d’interessi e che, più propriamente, sarebbe da definire non conflitto ma coesistenza di interessi contraddittori. Se non ci si spoglia della dipendenza dal partito da cui si proviene, dalla appartenenza a gruppi di potere che chiedono di restituire i favori in precedenza elargiti e accettati, dal vincolo di ubbidienza che si assume entrando in chiese e associazioni più o meno segrete, dai propri interessi economici la cui difesa diventa spesso un’irresistibile coercizione, dall’adesione faziosa a una ideologia politica: se non ci si spoglia da tutto questo, l’alta carica viene trascinata nella bassura del tornaconto personale o del gruppo, della cerchia, del “giro” di appartenenza.

Peggio del peggio sarebbe se proprio questo tornaconto fosse la molla delle ambizioni di chi mira al Quirinale. Questa sarebbe la massima divisività, il massimo allarme costituzionale. Non solo la persona influisce sulla carica ricoperta. Spesso, avviene il contrario e i pronostici possono essere smentiti dai bilanci. Tuttavia, i trascorsi sono pur sempre dei prodromi e i prodromi possono trasformarsi in eventi e gli eventi possono determinare conseguenze. Guardandoci intorno e cercando di capire che cosa succede in questi giorni di vigilia, vien voglia di unirsi a coloro – i realisti – che ridono di tutto ciò che non è puro interesse, puro potere, pura spregiudicatezza.

È vero, c’è questa voglia. O anche, la voglia di dire: non sono fatti miei, alla malora. Ma più crescono queste voglie, più cresce, insieme, anche la rivolta.

la Repubblica, 18 gennaio 2022


http://www.libertaegiustizia.it/2022/01/23/il-presidente-della-repubblica-la-costituzione-e-lunita-nazionale/

IL PRESIDENTE CHE VORREI/ L’OTTIMISMO DELLA VOLONTÀ E IL CORAGGIO DELL’IMMAGINAZIONE. - Sergio Labate

 

Mai come di questi tempi abbiamo bisogno di affidarci all’ottimismo della volontà. Perché i segnali che costringono la nostra ragione al più cupo pessimismo sono ormai troppi. La discussione sull’elezione del Presidente della Repubblica non fa eccezione.

Se dovessimo fare un esempio volutamente eretico, la discussione sembra limitarsi esclusivamente alla disputa sui nomi, come se si trattasse di calciomercato. Tempo sprecato a discutere sui nomi, senza pensare davvero a cosa questi nomi possano significare, se essi rappresentino un’idea intorno alla quale uno Stato si può riconoscere nella sua unitarietà, come suggerisce la nostra Costituzione. Il loro “valore politico” è del tutto sganciato da questa funzione rappresentativa, dipende dal cinismo della conta dei voti, nient’altro. La surreale candidatura di Silvio Berlusconi dimostra paradigmaticamente questo sganciamento quasi schizofrenico tra il valore politico, a cui un nome dovrebbe riferirsi, e la sua quotazione mercantile.

A questa deriva vorremmo reagire, appunto, con l’ottimismo della volontà. Cioè con un discorso altro, in cui depuriamo anche le nostre parole da una deriva che appare ormai irreversibile e che noi, per il solo fatto che proviamo a parlare altrimenti, non riconosciamo affatto come irreversibile.

Abbiamo chiesto ad alcuni amici di donarci delle parole che siano già una sorta di ricusazione politica del linguaggio prevalente. C’è qualcuno che ancora prova a parlare dell’elezione del Presidente della Repubblica in forma più nobile e più corrispondente a quell’“entusiasmo civile” trasmesso dall’art. 87 della nostra Costituzione: il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale.

Ma con questo ‘gioco’ proviamo anche a suggerire qualcosa che può essere utile nei tempi a venire, che non saranno meno difficili per la nostra ragione già così sofferente di pessimismo. Gramsci non basta più. Non possiamo accontentarci dell’ottimismo della volontà. A esso dobbiamo sapere affiancare qualcosa che ci consenta di recuperare una qualche forma di immaginazione politica. Perché la volontà non basta, se non siamo più in grado di immaginare una scena differente da quella che prevale. Se non riconosciamo nella Costituzione qualcosa cui guardare non soltanto con nostalgia – come fosse un segnaposto di un mondo che abbiamo conosciuto e abbiamo visto sparire – ma anche con speranza, come fosse un mondo per cui resistere e di cui continuare a parlare, semplicemente perché continuiamo a immaginarlo.

Ecco, se uniamo l’ottimismo della volontà al coraggio dell’immaginazione possiamo usare l’occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica per guardare oltre. Per custodire quel legame pubblico che la Costituzione suggella e che il Presidente della Repubblica incarna. È questo il gioco, e non è solo retorico. La democrazia si fa e si disfa col farsi e disfarsi dei discorsi pubblici. Non vogliamo cedere al ricatto della disperazione ma osare volere e osare immaginare.

A questo servono le parole: a ricordare a una politica incapace di assolvere al suo compito che quel compito è insostituibile.

*Presidente di Libertà e Giustizia.

http://www.libertaegiustizia.it/2022/01/18/chi-salira-al-colleil-presidente-che-vorrei/

domenica 23 gennaio 2022

Elisabetta Belloni, chi è? Orientamento politico, stipendio, vita privata, marito e figli. - Domenico Iovane

 

Elisabetta Belloni, chi è: una figura che è nata e cresciuta nel campo della diplomazia italiana ed internazionale. Ufficialmente fuori da ogni contesto e posizione politica, si definisce “orgogliosa di non avere nessuna matrice politica”. Il suo nome è uscito in occasione delle elezioni del Presidente della Repubblica 2022.

Elisabetta Belloni: orientamento politico.

Ufficialmente Elisabetta Belloni non fa parte di un partito politico specifico. Ha avuto ruoli istituzionali con governi sia di destra sia di sinistra. Viene considerato come un profilo politico “indipendente”. La sua carriera politica, istituzionale e diplomatica è sempre stata neutrale.

Dunque, il suo è un orientamento politico che è da considerarsi da “tecnico”, perché Belloni ha sempre rifiutato di esternare appartenenze o preferenze politiche. In un’intervista del marzo 2007 disse: “Io sono orgogliosa di non avere nessuna matrice politica. Qui ci sono colleghi di destra, colleghi di sinistra e alcuni definiti istituzionali. Io sono molto orgogliosa di definirmi istituzionale”.

Elisabetta Belloni: stipendio.

In campo diplomatico, il primo livello della carriera, segretario di legazione, assicura uno stipendio di 62 mila euro l’anno, 5 mila lordi al mese. Ne beneficiano già in 328. Al livello seguente, quella di caposezione (in servizio ce ne sono 161), la busta paga sale a 81 mila. Per i 264 consiglieri d’ambasciata l’ingaggio arriva a 174 mila euro, mentre per i 207 ministri plenipotenziari lievita fino a 240 mila, tetto che ufficialmente vale anche per i 25 ambasciatori e per il segretario generale Elisabetta Belloni.

Elisabetta Belloni: vita privata.

Elisabetta Belloni è nata Roma, (1 settembre 1958 ). Ricopre il ruolo di segretaria generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale dal 5 maggio 2016.  Ha una laurea in scienze politiche alla Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli (Luiss) di Roma nel 1982.

Nel suo curriculum si legge che parla quattro lingue (inglese, francese, spagnolo, tedesco) e tra le onorificenze ha ricevuto anche la Legion d’onore in Francia.

La sua carriera professionale è iniziata come diplomatica nel 1985. Ha ricoperto incarichi nelle ambasciate italiane e nelle rappresentanze permanenti a Vienna e a Bratislava, oltre che presso le direzioni generali del Ministero degli Affari Esteri. Dal novembre 2004 al giugno 2008 ha diretto l’Unità di Crisi del Ministero degli Affari Esteri. Nel febbraio 2014 è stata promossa ambasciatrice di grado e, dal giugno 2015, ha ricoperto la carica di Capo di Gabinetto del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nell’aprile 2016 viene nominata Segretaria Generale del Ministero degli Affari Esteri ed entra in carica il 5 maggio.

Nel maggio del 2021, è stata nominata da Draghi  capo dei servizi segreti del paese, la prima donna a ricoprire questo ruolo nella storia dei servizi segreti italiani.

Belloni: marito e figli.

Elisabetta Belloni è stata sposata con Giorgio Giacomelli, che però è morto nel febbraio 2017. Non ci sono informazioni pubbliche riguardo possibili figli. Sulla figura del marito si sa che Giacomelli era un ambasciatore di origini padovane, con oltre 30 anni di mandati diplomatici di alto profilo e ha anche prestato servizio in territori come la Siria e la Somalia. Nel corso della sua carriera, è stato responsabile dell’Agenzia palestinese per i rifugiati ed è stato direttore generale del Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.

https://www.lanotiziagiornale.it/elisabetta-belloni-chi-e-orientamento-politico-stipendio-vita-privata-marito-e-figli/

Quirinale, Berlusconi si arrende. Ma non rinuncia all’ultima balla: “Ho i numeri per essere eletto, passo indietro per responsabilità nazionale”.

 

Il leader di Forza Italia non va a Roma e resta a Milano, vede i suoi ministri, poi diserta il vertice del centrodestra e invia una nota per spiegare il passo indietro nella corsa al Colle, nonostante - giura - avesse "verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione". Quindi, consapevole di aver probabilmente sbloccato l'impasse, avanza i suoi veti. Il primo: Draghi deve rimanere a Palazzo Chigi.

Aveva i voti ma ha preferito farsi da parte. Silvio Berlusconi dice di essersi ritirato dalla corsa alla presidenza della Repubblica, nonostante avesse “verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione”. Non è una battuta ma è quello che sostiene il leader di Forza Italia nella nota inviata al vertice del centrodestra. Ovviamente non potrà mai esserci la controprova, visto che l’uomo di Arcore ha deciso di arrendersi. Ma è abbastanza improbabile che, dopo mesi di trattative, Berlusconi abbia rinunciato al sogno del Colle pur avendo i voti. E invece alla fine ha dovuto gettare la spugna. Lo fa nel tardo pomeriggio di una giornata segnata dalla decisione di non recarsi a Roma, proprio per il vertice del centrodestra. Una riunione, quella con Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che è stata rinviata di tre ore, visto che nel frattempo Berlusconi ha visto i ministri di Forza Italia. Nessuno, dicono i berlusconiani, gli ha chiesto di ritirarsi. Ma qualcuno ha fatto notare che i numeri per l’elezione al Colle non c’erano. Ecco perché Berlusconi si è arreso: al vertice del centrodestra – pure quello via Zoom – non si è fatto vedere. Ha inviato la fida Licia Ronzulli, con una nota in cui esplicita il passo indietro: si ritira anche se – giura – aveva i voti.

Un documento, quello del leader di Forza Italia, in cui Berlusconi torna a vestire i panni del padre della patria. “Dopo innumerevoli incontri con parlamentari e delegati regionali, anche e soprattutto appartenenti a schieramenti diversi della coalizione di centro-destra, ho verificato l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione“, sostiene l’ex premier che si dice “onorato e commosso: la Presidenza della Repubblica è la più Alta carica delle nostre istituzioni, rappresenta l’Unità della Nazione, del Paese che amo e al servizio del quale mi sono posto da trent’anni, con tutte le mie energie, le mie capacità, le mie competenze”. Tuttavia, sostiene di essersi tirato indietro a seguito di una riflessione compiuta “ponendo sempre l’interesse collettivo al di sopra di qualsiasi considerazione personale” e compiendo “un altro passo sulla strada della responsabilità nazionale, chiedendo a quanti lo hanno proposto di rinunciare ad indicare il mio nome per la Presidenza della Repubblica”. Un’affermazione che pronunciata dal padre di tante leggi ad personam e ad aziendam rischia di provocare qualche sorriso.

Perché dunque Berlusconi si tira indietro? Per evitare, sostiene lui, che sul suo nome “si consumino polemiche o lacerazioni che non trovano giustificazioni che oggi la Nazione non può permettersi”. Insomma: che la sua candidatura fosse altamente divisiva lo sapeva anche lui. Col suo passo indietro Berlusconi fa un piacere a Matteo Salvini, che ora può provare a vestirsi da kingmaker. E infatti, subito dopo il vertice, il capo della Lega comincia a telefonare agli altri leader e fa sapere – ancora una volta – di essere a lavoro per una “rosa di nomi”. Poi parlano pure Giuseppe Conte ed Enrico Letta: adesso, è il senso degli interventi di entrambi, si può cominciare il confronto per un candidato condiviso. Insomma: il passo indietro di Berlusconi sembra aver sbloccato l’impasse. Il diretto interessato ne è consapevole e infatti avanza subito i suoi veti. Il primo: Mario Draghi non deve andare al Colle ma deve restare a Palazzo Chigi per evitare di tornare alle urne. “Considero necessario che il governo Draghi completi la sua opera fino alla fine della legislatura per dare attuazione al Pnrr, proseguendo il processo riformatore indispensabile che riguarda il fisco, la giustizia, la burocrazia”, scrive nella sua nota Berlusconi, facendo infuriare Fratelli d’Italia. Anche il partito di Giorgia Meloni è contrario a Draghi al Colle, ma – come è noto – non lo vuole neanche a Palazzo Chigi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/01/22/quirinale-berlusconi-si-arrende-ma-non-rinuncia-allultima-balla-ho-i-numeri-per-essere-eletto-passo-indietro-per-responsabilita-nazionale/6465246/#

Finalmente potremo dire che una cosa buona, durante l'arco della sua vita da parlamentare, l'ha fatta! Come? Ritirando la propria candidatura alla presidenza della Repubblica....

Pericolo scampato per i cittadini italiani che hanno a cuore la dignità di essere italiani!
cetta