Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 26 luglio 2010
domenica 25 luglio 2010
Francia, prove tecniche di bavaglio. Fallite. - Redazione Il Fatto quotidiano
“Se il parlamento italiano è criticato per questo progetto di legge detto “bavaglio”, è proprio un bavaglio che l’avvocato di Madame Bettencourt sollecita”. Questa la linea difensiva annunciata dal fondatore di Mediapart Edwy Plenel, che i legali del giornale on-line Jean-Pierre Mignard eEmmanuel Tordjman hanno adottato fino ad ottenere l’assoluzione nel processo d’appello intentato contro di loro da Liliane Bettencourt.
L’ereditiera della L’Oréal è al centro di uno scandalo politico-finanziario che coinvolge il ministro del lavoro Eric Woerth e Patrice De Maistre, amministratore del suo patrimonio: a giugno il giornale online aveva pubblicato le trascrizioni e gli audio di una registrazione “pirata”, fatta dal maggiordomo della signora, che documentavano come Bettencourt e De Maistre avessero illecitamente contribuito alla campagna elettorale dell’attuale presidente Sarkozy.
Il ricorso – I due personaggi, sentendo violata la loro privacy, hanno richiesto la cancellazione immediata di testo e audio, 50 mila € e 20 mila € di risarcimento danni più 10 mila € di multa per ogni ora di ritardo nella cancellazione dopo quattro ore dall’eventuale condanna. Come se non bastasse, volevano il divieto di ripetere questo genere di pubblicazioni in futuro.
I legali della donna più ricca di Francia e del suo amministratore si basavano sul presupposto che “la legittimità della diffusione di registrazioni clandestine, di cui alcune coperte dal segreto professionale, apre la strada a tutti gli eccessi al pretesto della libertà d’espressione”.
La difesa – Mercoledì 21 Mignard e Todjman hanno fatto leva sulla questione del bavaglio, aggiungendo quest’argomentazione ai principi sanciti dall’assoluzione del 1° luglio scorso: la legittimità della registrazione e il suo interesse pubblico. Stando al blog di Plenel, i difensori avrebbero sostenuto anche questa tesi: “In Italia un movimento legislativo mira a vietare la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche basandosi sul principio della protezione della privacy. Se il parlamento italiano è criticato per questo progetto di legge, detto “bavaglio”, è proprio un bavaglio che l’avvocato di Madame Bettencourt sollecita. La ricorrente milita forse, senza saperlo, per una democrazia riservata dove l’informazione è limitata a una cerchia di iniziati solo quando sono implicati gli interessi di una ‘nobiltà’”.
La decisione – Venerdì 23 luglio la Corte d’appello del tribunale di Parigi ha confermato l’assoluzione. Le informazioni pubblicate rientrano nell’ambito della “legittima informazione del pubblico” e “riguardano il funzionamento della Repubblica, il rispetto della sua legge comune e dell’etica delle funzioni governative“, nella fattispecie “il rispetto della legge fiscale, l’indipendenza della giustizia, il ruolo del potere esecutivo, la deontologia delle funzioni pubbliche, l’azionariato di un’azienda francese conosciuta nel mondo“.
“L’origine illecita delle registrazioni, di cui noi abbiamo chiaramente verificato l’autenticità, non intralcia la rivelazione di fatti di interesse pubblico”, ha scritto Plenel. “La Corte d’Appello ha considerato che i giornalisti avevano giustamente fatto il loro lavoro. È molto importante per la stampa, la vita pubblica e il proseguimento di questo affare”, ha dichiarato invece l’avvocato Mignard ricordando che i cronisti avevano distinto tra le conversazioni riguardanti la vita privata e quelle d’interesse generale. Anche il settimanale Le Point, che come Mediapart aveva pubblicato le registrazioni, è stato assolto.
Thierry Marembert, avvocato di Liliane Bettencourt, intende ricorrere in cassazione: “Ci stiamo riflettendo. La motivazione ci sembra contraria al diritto”.
Il contrattacco – Giovedì Mediapart ha citato per calunnia il segretario generale dell’Ump Xavier Bertrand, che aveva accusato il giornale di usare “metodi fascisti” per via dell’uso di registrazioni illegali. Il suo non è stato l’unico attacco subito dal sito. Importanti membri del governo di François Fillon hanno avuto parole dure: il ministro dell’industria Christian Estrosi aveva dichiarato in un’intervista a France Info che Mediapart “gli ricordava certa stampa degli anni Trenta”. Il suo collega responsabile della Difesa, Hervé Morin, affermava a Rmc-Bfm Tv che “quanto si sta facendo su Eric Woerth è una tirannia”.
Plenel e i suoi continuano la loro battaglia, anche in termini simbolici. Sul sito è stata lanciata una petizione per trasferire il dossier a un magistrato indipendente e imparziale. Il procuratore che segue l’affare Philippe Courroye, infatti, non nasconde la sua vicinanza a Sarkozy. Hanno già raccolto più di 32 mila firme.
Andrea Gianbartolomei
L’ereditiera della L’Oréal è al centro di uno scandalo politico-finanziario che coinvolge il ministro del lavoro Eric Woerth e Patrice De Maistre, amministratore del suo patrimonio: a giugno il giornale online aveva pubblicato le trascrizioni e gli audio di una registrazione “pirata”, fatta dal maggiordomo della signora, che documentavano come Bettencourt e De Maistre avessero illecitamente contribuito alla campagna elettorale dell’attuale presidente Sarkozy.
Il ricorso – I due personaggi, sentendo violata la loro privacy, hanno richiesto la cancellazione immediata di testo e audio, 50 mila € e 20 mila € di risarcimento danni più 10 mila € di multa per ogni ora di ritardo nella cancellazione dopo quattro ore dall’eventuale condanna. Come se non bastasse, volevano il divieto di ripetere questo genere di pubblicazioni in futuro.
I legali della donna più ricca di Francia e del suo amministratore si basavano sul presupposto che “la legittimità della diffusione di registrazioni clandestine, di cui alcune coperte dal segreto professionale, apre la strada a tutti gli eccessi al pretesto della libertà d’espressione”.
La difesa – Mercoledì 21 Mignard e Todjman hanno fatto leva sulla questione del bavaglio, aggiungendo quest’argomentazione ai principi sanciti dall’assoluzione del 1° luglio scorso: la legittimità della registrazione e il suo interesse pubblico. Stando al blog di Plenel, i difensori avrebbero sostenuto anche questa tesi: “In Italia un movimento legislativo mira a vietare la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche basandosi sul principio della protezione della privacy. Se il parlamento italiano è criticato per questo progetto di legge, detto “bavaglio”, è proprio un bavaglio che l’avvocato di Madame Bettencourt sollecita. La ricorrente milita forse, senza saperlo, per una democrazia riservata dove l’informazione è limitata a una cerchia di iniziati solo quando sono implicati gli interessi di una ‘nobiltà’”.
La decisione – Venerdì 23 luglio la Corte d’appello del tribunale di Parigi ha confermato l’assoluzione. Le informazioni pubblicate rientrano nell’ambito della “legittima informazione del pubblico” e “riguardano il funzionamento della Repubblica, il rispetto della sua legge comune e dell’etica delle funzioni governative“, nella fattispecie “il rispetto della legge fiscale, l’indipendenza della giustizia, il ruolo del potere esecutivo, la deontologia delle funzioni pubbliche, l’azionariato di un’azienda francese conosciuta nel mondo“.
“L’origine illecita delle registrazioni, di cui noi abbiamo chiaramente verificato l’autenticità, non intralcia la rivelazione di fatti di interesse pubblico”, ha scritto Plenel. “La Corte d’Appello ha considerato che i giornalisti avevano giustamente fatto il loro lavoro. È molto importante per la stampa, la vita pubblica e il proseguimento di questo affare”, ha dichiarato invece l’avvocato Mignard ricordando che i cronisti avevano distinto tra le conversazioni riguardanti la vita privata e quelle d’interesse generale. Anche il settimanale Le Point, che come Mediapart aveva pubblicato le registrazioni, è stato assolto.
Thierry Marembert, avvocato di Liliane Bettencourt, intende ricorrere in cassazione: “Ci stiamo riflettendo. La motivazione ci sembra contraria al diritto”.
Il contrattacco – Giovedì Mediapart ha citato per calunnia il segretario generale dell’Ump Xavier Bertrand, che aveva accusato il giornale di usare “metodi fascisti” per via dell’uso di registrazioni illegali. Il suo non è stato l’unico attacco subito dal sito. Importanti membri del governo di François Fillon hanno avuto parole dure: il ministro dell’industria Christian Estrosi aveva dichiarato in un’intervista a France Info che Mediapart “gli ricordava certa stampa degli anni Trenta”. Il suo collega responsabile della Difesa, Hervé Morin, affermava a Rmc-Bfm Tv che “quanto si sta facendo su Eric Woerth è una tirannia”.
Plenel e i suoi continuano la loro battaglia, anche in termini simbolici. Sul sito è stata lanciata una petizione per trasferire il dossier a un magistrato indipendente e imparziale. Il procuratore che segue l’affare Philippe Courroye, infatti, non nasconde la sua vicinanza a Sarkozy. Hanno già raccolto più di 32 mila firme.
Andrea Gianbartolomei
Le menzogne sull’uranio da Hiroshima a Falluja. - Maurizio Torrealta
Cerchiamo di ragionare su quale arma sia stata usata. Se le due battaglie a Falluja (quella dell’Aprile e quella del Novembre 2004) hanno provocato sulla popolazione effetti simili e peggiori(in estensione e gravità) a quelli prodotti dalle radiazioni delle due bombe nucleari esplose a Hiroshima e Nagasaki, pur non evidenziando gli effetti sismici tipici di una esplosione nucleari classica, questo significa una cosa molto precisa: che è stato superato il problema della massa critica che obbligava una bomba nucleare ad essere molto potente o a non esistere. In altre parole una bomba nucleare classica aveva bisogno di almeno 8 chili di uranio altrimenti non sarebbe stata in grado di innescare il processo a catena della fissione. E una bomba nucleare classica non poteva utilizzare meno di circa 8 chili di uranio e dunque era così potente da lasciare traccia nei sismografi delle esplosioni che provocava o altrimenti non esisteva..
In questi anni, se si trova uranio arricchito in un cratere nel sud del Libano dopo il conflitto del2006, (URANIO ARRICCHITO !!! AVETE IDEA DELPROCESSO E DEL COSTO PER PRODURLO) se lo si trova a Beirut, se si trovano effetti sulla popolazione civile provocati dalle radiazioni a Bassora e a Falluja, a tutti questi apparenti misteri c’è un’unica spiegazione: il problema della massa critica è stato superato e la bomba nucleare può essere piccola come una pallottola e calibrata negli effetti da distruggere solo palazzi o rifugi sotterranei. Qualcuno potrebbe ribattere che questi effetti sono provocati dal cosidetto uranio impoverito. E qui arriviamo all’ inganno che ha permesso di usare questa nuova arma per ormai vent’anni senza che nessuno se ne rendesse conto: l’uranio impoverito. L’uso dell’uranio impoverito nei campi di battaglia inizia ufficialmente nella prima guerra del Golfo, nei primi anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quando la rincorsa alle testate nucleari più potenti non era più necessaria, quando la politica ufficiale del segretario di Stato di allora James Baker era quella della «Calculated Ambiguity Doctrine»: se si usava la forza nucleare non lo si rivendicava, se ne contemplava l’uso ma lo si poteva mascherare e negare. Esattamente allora compare il cosidetto uranio impoverito.
C’è qualcuno che ha davvero calcolato se la presenza dell’isotopo U235 nella pallottole al cosidetto uranio impoverito è superiore o inferiore allo 0.7% (soglia sotto la quale si parla di uranio impoverito)? Quelli che lo hanno fatto, hanno sempre trovato un presenza dell’isotopo 235 leggermente superiore all’unità. Dunque sui campi di battaglia non viene usato l’uranio impoverito ma viene usata un’arma che è radioattiva ed inquina le falde acquifere e il ciclo alimentare, ma non è la sola fonte di radiazioni. C’è la seconda arma, la bomba nuclare grande come una pallottola, che produce radiazioni in modo più massiccio e che viene coperta e giustificata dall’uso dei cosidetti proiettili al cosìddetto uranio impoverito (che impoverito non è).
E’ un inganno a tre livelli: si parla di proiettili all’uranio impoverito che sono davvero meno radioattivi dell’uranio naturale, si usano però proiettili all’uranio leggermente arricchito, che una volta polverizzati durante l’esplosione, producono microfissioni e radiazioni alfa che si diffondono ed inquinano il territorio. Questa radioattività «ambigua e calcolata» maschera l’uso della mini-nukes, bombe nucleari minuscole che possono avere una potenza esplosiva pari a tonnellate di tritolo in pochi grammi di uranio arricchito. E’ un delitto perfetto. Le conseguenze sulla popolazione si maifesteranno dopo alcuni anni e nessuno si preoccuperà di andare in un luogo così inquinato a studiarle. Nessuno eccetto Christ Busby, Malak Hamdan e Entesar Ariab, ai quali va il nobel della pace, non quello inventato dallo scopritore della dinamite del quale facciamo volentieri a meno, ma quel nobel immaginario che le persone semplici, ma non stupide, sanno a chi attribuire.
La centrale del fango. - Ezio Mauro
Mentre Berlusconi parla di "calunnie" e "campagne furibonde" contro il governo, c'è in realtà un metodo nel lavoro e nella ragione sociale della cosiddetta P3, che è venuto alla luce con chiarezza e non ha bisogno di passaggi giudiziari per avere una sua evidente rilevanza politica. È fatto di affari privati legati al comando pubblico, di istituzioni statali usate a fini personali, di relazioni privilegiate intorno a uomini potenti (Denis Verdini lo è, almeno fino ad oggi, e Marcello Dell'Utri altrettanto), di personaggi influenti arruolati per premere su personalità decisive - soprattutto nella giustizia - e infine di faccendieri svelti di mano e pronti a tutto, anche a essere bollati dal Premier come "pensionati sfigati" quando la rete è scoperta. Ma per riuscire, il metodo ha bisogno di qualcosa in più: infangare, delegittimare, distruggere.
La macchina del fango che secondo i magistrati è stata messa in atto contro il candidato del Pdl alla guida della Campania, Stefano Caldoro, è agghiacciante e su "Repubblica" l'ha svelata Roberto Saviano. Si tratta della fabbricazione di un dossier pieno di allusioni sessuali, per creare un caso Marrazzo-bis in Campania, buttare fuori dalla corsa da Governatore Caldoro e favorire Nicola Cosentino.
Ancora più agghiacciante è che questa fabbrica del fango capace di distruggere una persona nasca dentro il Pdl, contro un candidato del Pdl, a vantaggio di un altro uomo del Pdl.
Nelle intercettazioni si parla apertamente di un "rapporto" su Caldoro, si evocano "i trans", si accenna ai "pentiti", si trasmettono "dossier" con "date e luoghi", si fa uscire il tutto su siti regionali e alla fine il capo locale del partito si complimenta per l'operazione.
Ma c'è di più: chi fa capire a Caldoro che deve tremare ("ci sono carte che parlano di te in un certo modo") è addirittura il coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini, che lo convoca a Montecitorio, si apparta con lui nel corridoio della "Corea" e gli dice apertamente che sta per informare della vicenda Berlusconi. In realtà, come ha spiegato Saviano, Verdini "sa tutto" del dossier perché gli uomini che ci lavorano sono gli stessi che riceve ripetutamente a casa sua per "aggiustare" la sentenza della Consulta sul Lodo Alfano, a beneficio esclusivo di "Cesare". E attraverso Verdini, naturalmente anche "Cesare" sa "cosa sta facendo la banda del fango". E lascia fare, anche se Caldoro è un suo pupillo, "perché Cosentino è più potente, più utile e sa molte cose", e il Premier vuole capire se la diffamazione di Caldoro può oscurare le accuse di mafia che hanno costretto il sottosegretario a dimettersi. Il fango costruito dalla P3 dentro il Pdl lavora indisturbato, Caldoro rischia di essere distrutto, Verdini tiene informato il Premier che assiste silenzioso ad un'operazione di selezione delle élite basata su dossier, carte false, ricatti. Tutto questo avviene in un Paese democratico, in mezzo all'Europa, in pieno 2010, dentro un partito che si chiama "Popolo delle libertà" ma che il leader, intimamente, preferisce chiamare "Partito dell'Amore".
I giornali conoscono questa vicenda, ma non risultano denunce indignate, editoriali. Gli intellettuali tacciono: siamo in piena estate. E invece è obbligatorio porsi una prima domanda, elementare: se questi sono i metodi usati con i compagni di partito, con gli "amici", che succederà con i "nemici", o sarebbe meglio dire con i critici, i dissidenti? O forse è meglio domandarsi che cosa sta già succedendo. Perché nessuno sa fin dove arrivi la rete di ricatti, di minacce e di intimidazioni che questo potere può stendere sulla società politica, sul sistema istituzionale, sul mondo dell'informazione. Possibile che tutte quelle firme così preoccupate dalla privacy da accettare allegramente una mutilazione del controllo di legalità e della libertà di informazione (quando poi, come si è visto, la proposta di "Repubblica" del 2008 era la più adatta a tutelare la riservatezza dei cittadini) non abbiano nulla da dire su questo caso esemplare di privacy violentemente deturpata, con metodo e intenzione, come un normale strumento di azione politica?
In realtà se non siamo ciechi o conniventi, dunque complici, dobbiamo ammettere che quel metodo lo abbiamo già visto all'opera, in Italia, e con successo. Lo ha usato e teorizzato proprio il Presidente del Consiglio, nel momento più infuocato dello scandalo sul "ciarpame politico" che gli ha arroventato la scorsa estate. Proviamo a ricordare. Il giornale di proprietà della famiglia del Premier cambia improvvisamente direzione nel mese di agosto, e il direttore uscente scrive che se ne va a malincuore dopo aver fatto tutte le battaglie meno una: rovistare "nel letto di editori e direttori di altri giornali". Evidentemente era quel che si voleva. E infatti il 27 agosto quel giornale opportunamente reindirizzato pubblica un falso documento giudiziario che accusa di omosessualità il direttore del quotidiano dei vescovi, Dino Boffo, colpevole soltanto di aver ospitato le critiche al Premier della Chiesa di base.
Boffo viene killerato mediaticamente, la Santa Sede ne approfitta per regolare i conti con la Cei, aggiungendo miseria vaticana a vergogna italiana, e tutto avviene senza che la maggioranza dei giornali sveli l'operazione in tutta la sua ferocia politica, semplicemente indicando il movente, illuminando il mandante, invece di soffermarsi sull'irrilevanza del killer, che infatti dovrà poi chiedere scusa. La barbarie si compie, anche nei suoi effetti pedagogici, perché l'invito ai giornalisti di girare al largo dalle vicende del Premier è esplicito. Il metodo è al lavoro: è già toccato a Veronica Lario, la moglie che ha osato ribellarsi e che si è vista denudata sui giornali della cantoria berlusconiana, messa alla berlina a seno nudo, accusata di avere un amante. Tocca subito dopo a Fini, che muove i primi passi nel dissenso e viene ammonito sul foglio di famiglia a mettersi in regola con l'opinione dominante, pena il riemergere "di vecchi scandali a luci rosse".
Si cerca cioè, in poche parole, di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato: semplicemente, se fosse stato ricattabile, sarebbe stato ricattato, l'intimidazione preventiva era l'ultimo avvertimento, ecco il Paese in cui viviamo.
Poi finisce nel tritacarne il giudice Mesiano, colpevole di aver scritto una sentenza civile favorevole alla Cir e contraria a Fininvest, e quindi messo allo zimbello dalle telecamere di proprietà del Premier, deriso, fatto passare poco meno che per matto: salvo le scuse, a operazione conclusa. Ma non è finita. Mentre sui suoi giornali si inseguono gli attacchi a Tremonti, a Casini, a "Repubblica", il Premier è personalmente impegnato ad acquisire e visionare il video che ucciderà la carriera politica di Piero Marrazzo: un video che finisce nelle sue mani senza che nessuno gliene chieda conto, in modo che "Cesare" possa avvertire il governatore (di sinistra), tenendolo in pugno invece di spingerlo a svelare e sventare il ricatto. Lo stesso copione, miserabile, avviene con i nastri della telefonata tra Fassino e Consorte che il Premier riceve direttamente dall'imprenditore Favata ad Arcore, insieme con suo fratello, sorridendo compiaciuto: "Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo"? E infatti, il valore d'uso politico di quei nastri è così urgentemente prezioso che il giornale di proprietà della famiglia del Premier li pubblicherà sette giorni dopo il "regalo".
Ora, è impossibile non vedere che qualcosa di terribile lega questo metodo insistito e ripetuto, queste vicende che replicano lo stesso copione da parte di un potere che non riconosce limiti controllando insieme servizi e polizie statali, e strutture private (o associazioni segrete come la P3) di fabbricazione autonoma dei dossier: terribile per la democrazia, oltre che per i destini personali dei soggetti coinvolti, con l'unica colpa di essere ex alleati ribelli, partner autonomi, avversari politici, giornalisti critici. Cioè persone che intendono sottrarsi al dominio pieno e incontrollato e ci provano, facendo il loro mestiere come accade nei Paesi normali. Dove i leader, carismatici o no, si difendono e attaccano quando è il caso, ma non hanno giornali di proprietà della loro famiglia o variamente appaltati per uccidere mediaticamente gli avversari con dossier che arrivano da chissà dove, e colpiscono la persona per zittire la funzione. E non controllano l'universo televisivo, usando le telecamere per regolare i conti privati del Premier, dopo aver ogni sera ricostruito con i suoi colori di comodo il paesaggio italiano di fondo. Come ha scritto nel pieno di queste vicende Giuseppe D'Avanzo, nell'ottobre scorso, è un "rito di degradazione, un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole, la libertà di chi dissente e di chi si oppone".
Quanti attori del discorso pubblico, concludeva quell'articolo, sono oggi in questa condizione di sottomissione? Quanti possono esserlo domani? Il problema riguarda con ogni evidenza la "democrazia reale", perché un Paese moderno e democratico non può essere governato dentro una rete di ricatti e di intimidazioni, azionati o tollerati da un potere debole, più spaventato che spaventoso. Se questa è l'estate italiana che ci aspetta, bisogna dire fin d'ora che il Paese - nella sua pubblica opinione, nelle sue autorità di garanzia, negli spazi autonomi della politica di destra o di sinistra - dovrà ribellarsi ai dossier e alle minacce, rigettandoli e denunciandoli, insieme coi loro autori, i beneficiari e i mandanti. Dimostrando così che la libertà è più forte della paura.
La macchina del fango che secondo i magistrati è stata messa in atto contro il candidato del Pdl alla guida della Campania, Stefano Caldoro, è agghiacciante e su "Repubblica" l'ha svelata Roberto Saviano. Si tratta della fabbricazione di un dossier pieno di allusioni sessuali, per creare un caso Marrazzo-bis in Campania, buttare fuori dalla corsa da Governatore Caldoro e favorire Nicola Cosentino.
Ancora più agghiacciante è che questa fabbrica del fango capace di distruggere una persona nasca dentro il Pdl, contro un candidato del Pdl, a vantaggio di un altro uomo del Pdl.
Nelle intercettazioni si parla apertamente di un "rapporto" su Caldoro, si evocano "i trans", si accenna ai "pentiti", si trasmettono "dossier" con "date e luoghi", si fa uscire il tutto su siti regionali e alla fine il capo locale del partito si complimenta per l'operazione.
Ma c'è di più: chi fa capire a Caldoro che deve tremare ("ci sono carte che parlano di te in un certo modo") è addirittura il coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini, che lo convoca a Montecitorio, si apparta con lui nel corridoio della "Corea" e gli dice apertamente che sta per informare della vicenda Berlusconi. In realtà, come ha spiegato Saviano, Verdini "sa tutto" del dossier perché gli uomini che ci lavorano sono gli stessi che riceve ripetutamente a casa sua per "aggiustare" la sentenza della Consulta sul Lodo Alfano, a beneficio esclusivo di "Cesare". E attraverso Verdini, naturalmente anche "Cesare" sa "cosa sta facendo la banda del fango". E lascia fare, anche se Caldoro è un suo pupillo, "perché Cosentino è più potente, più utile e sa molte cose", e il Premier vuole capire se la diffamazione di Caldoro può oscurare le accuse di mafia che hanno costretto il sottosegretario a dimettersi. Il fango costruito dalla P3 dentro il Pdl lavora indisturbato, Caldoro rischia di essere distrutto, Verdini tiene informato il Premier che assiste silenzioso ad un'operazione di selezione delle élite basata su dossier, carte false, ricatti. Tutto questo avviene in un Paese democratico, in mezzo all'Europa, in pieno 2010, dentro un partito che si chiama "Popolo delle libertà" ma che il leader, intimamente, preferisce chiamare "Partito dell'Amore".
I giornali conoscono questa vicenda, ma non risultano denunce indignate, editoriali. Gli intellettuali tacciono: siamo in piena estate. E invece è obbligatorio porsi una prima domanda, elementare: se questi sono i metodi usati con i compagni di partito, con gli "amici", che succederà con i "nemici", o sarebbe meglio dire con i critici, i dissidenti? O forse è meglio domandarsi che cosa sta già succedendo. Perché nessuno sa fin dove arrivi la rete di ricatti, di minacce e di intimidazioni che questo potere può stendere sulla società politica, sul sistema istituzionale, sul mondo dell'informazione. Possibile che tutte quelle firme così preoccupate dalla privacy da accettare allegramente una mutilazione del controllo di legalità e della libertà di informazione (quando poi, come si è visto, la proposta di "Repubblica" del 2008 era la più adatta a tutelare la riservatezza dei cittadini) non abbiano nulla da dire su questo caso esemplare di privacy violentemente deturpata, con metodo e intenzione, come un normale strumento di azione politica?
In realtà se non siamo ciechi o conniventi, dunque complici, dobbiamo ammettere che quel metodo lo abbiamo già visto all'opera, in Italia, e con successo. Lo ha usato e teorizzato proprio il Presidente del Consiglio, nel momento più infuocato dello scandalo sul "ciarpame politico" che gli ha arroventato la scorsa estate. Proviamo a ricordare. Il giornale di proprietà della famiglia del Premier cambia improvvisamente direzione nel mese di agosto, e il direttore uscente scrive che se ne va a malincuore dopo aver fatto tutte le battaglie meno una: rovistare "nel letto di editori e direttori di altri giornali". Evidentemente era quel che si voleva. E infatti il 27 agosto quel giornale opportunamente reindirizzato pubblica un falso documento giudiziario che accusa di omosessualità il direttore del quotidiano dei vescovi, Dino Boffo, colpevole soltanto di aver ospitato le critiche al Premier della Chiesa di base.
Boffo viene killerato mediaticamente, la Santa Sede ne approfitta per regolare i conti con la Cei, aggiungendo miseria vaticana a vergogna italiana, e tutto avviene senza che la maggioranza dei giornali sveli l'operazione in tutta la sua ferocia politica, semplicemente indicando il movente, illuminando il mandante, invece di soffermarsi sull'irrilevanza del killer, che infatti dovrà poi chiedere scusa. La barbarie si compie, anche nei suoi effetti pedagogici, perché l'invito ai giornalisti di girare al largo dalle vicende del Premier è esplicito. Il metodo è al lavoro: è già toccato a Veronica Lario, la moglie che ha osato ribellarsi e che si è vista denudata sui giornali della cantoria berlusconiana, messa alla berlina a seno nudo, accusata di avere un amante. Tocca subito dopo a Fini, che muove i primi passi nel dissenso e viene ammonito sul foglio di famiglia a mettersi in regola con l'opinione dominante, pena il riemergere "di vecchi scandali a luci rosse".
Si cerca cioè, in poche parole, di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato: semplicemente, se fosse stato ricattabile, sarebbe stato ricattato, l'intimidazione preventiva era l'ultimo avvertimento, ecco il Paese in cui viviamo.
Poi finisce nel tritacarne il giudice Mesiano, colpevole di aver scritto una sentenza civile favorevole alla Cir e contraria a Fininvest, e quindi messo allo zimbello dalle telecamere di proprietà del Premier, deriso, fatto passare poco meno che per matto: salvo le scuse, a operazione conclusa. Ma non è finita. Mentre sui suoi giornali si inseguono gli attacchi a Tremonti, a Casini, a "Repubblica", il Premier è personalmente impegnato ad acquisire e visionare il video che ucciderà la carriera politica di Piero Marrazzo: un video che finisce nelle sue mani senza che nessuno gliene chieda conto, in modo che "Cesare" possa avvertire il governatore (di sinistra), tenendolo in pugno invece di spingerlo a svelare e sventare il ricatto. Lo stesso copione, miserabile, avviene con i nastri della telefonata tra Fassino e Consorte che il Premier riceve direttamente dall'imprenditore Favata ad Arcore, insieme con suo fratello, sorridendo compiaciuto: "Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo"? E infatti, il valore d'uso politico di quei nastri è così urgentemente prezioso che il giornale di proprietà della famiglia del Premier li pubblicherà sette giorni dopo il "regalo".
Ora, è impossibile non vedere che qualcosa di terribile lega questo metodo insistito e ripetuto, queste vicende che replicano lo stesso copione da parte di un potere che non riconosce limiti controllando insieme servizi e polizie statali, e strutture private (o associazioni segrete come la P3) di fabbricazione autonoma dei dossier: terribile per la democrazia, oltre che per i destini personali dei soggetti coinvolti, con l'unica colpa di essere ex alleati ribelli, partner autonomi, avversari politici, giornalisti critici. Cioè persone che intendono sottrarsi al dominio pieno e incontrollato e ci provano, facendo il loro mestiere come accade nei Paesi normali. Dove i leader, carismatici o no, si difendono e attaccano quando è il caso, ma non hanno giornali di proprietà della loro famiglia o variamente appaltati per uccidere mediaticamente gli avversari con dossier che arrivano da chissà dove, e colpiscono la persona per zittire la funzione. E non controllano l'universo televisivo, usando le telecamere per regolare i conti privati del Premier, dopo aver ogni sera ricostruito con i suoi colori di comodo il paesaggio italiano di fondo. Come ha scritto nel pieno di queste vicende Giuseppe D'Avanzo, nell'ottobre scorso, è un "rito di degradazione, un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole, la libertà di chi dissente e di chi si oppone".
Quanti attori del discorso pubblico, concludeva quell'articolo, sono oggi in questa condizione di sottomissione? Quanti possono esserlo domani? Il problema riguarda con ogni evidenza la "democrazia reale", perché un Paese moderno e democratico non può essere governato dentro una rete di ricatti e di intimidazioni, azionati o tollerati da un potere debole, più spaventato che spaventoso. Se questa è l'estate italiana che ci aspetta, bisogna dire fin d'ora che il Paese - nella sua pubblica opinione, nelle sue autorità di garanzia, negli spazi autonomi della politica di destra o di sinistra - dovrà ribellarsi ai dossier e alle minacce, rigettandoli e denunciandoli, insieme coi loro autori, i beneficiari e i mandanti. Dimostrando così che la libertà è più forte della paura.
Balneabilità “taroccata” nel Golfo di Napoli, 14 tecnici sotto accusa. - Vincenzo Iurillo
Traduzione: c’è il sospetto che le analisi non siano state compiute davvero, oppure siano state eseguite su campioni di mare non corrispondenti a quelli per i quali veniva concessa (o negata) la balneazione. Con ovvi rischi per la salute degli ignari bagnanti di alcune tra le più rinomate località turistiche della provincia di Napoli. Sono queste le clamorose ipotesi della Procura di Torre Annunziata che ha formulato gli avvisi di conclusa indagine per 14 tecnici del dipartimento provinciale dell’Arpac di Napoli, tra i quali il responsabile dell’unità epidemiologica e il dirigente biologo. Sono accusati di reati che vanno dal concorso in falso ideologico all’omissione d’atti d’ufficio.
Ben 161 i prelievi d’acqua ritenuti ‘taroccati’ e finiti nel mirino degli inquirenti. Sono stati realizzati tra la primavera e l’estate del 2009. I più numerosi riguardano i tratti di mare della costiera sorrentina. Ma i dubbi in qualche caso riguardano anche le risultanze delle trasferte dei battelli verso Capri e Ischia. Due capi di imputazione riguardano i ritardi dell’Arpac nell’eseguire le analisi suppletive nei tratti di mare dove il primo campionamento aveva dato esito negativo e bollino nero. Andrebbero fatte il più presto possibile e, in caso di ulteriore riscontro di inquinamento, bisognerebbe dichiarare la temporanea non balneabilità della zona. Invece le analisi-bis venivano compiute solo dopo diversi giorni.
Secondo il pm Mariangela Magariello, che ha ereditato un’inchiesta condotta dalla collega Marta Correggio, “tale ritardo non consentiva un adeguato monitoraggio sulla balneabilità delle acque”. Inoltre, avrebbe esposto i bagnanti al pericolo di continuare a immergersi in zone inquinate. L’ ‘errore’ si sarebbe ripetuto nove volte. E sempre in zone molto frequentate: la spiaggia libera di Piano di Sorrento, alcuni stabilimenti di Castellammare di Stabia, la costa tra Sant’Agnello e Punta Sant’Elia, diversi punti di Sorrento. Per tutti questi tratti di costa, trascorsi diversi giorni, le nuove analisi hanno dato esito favorevole. Ma chi ci dice che in quell’intervallo di tempo le acque non fossero ancora non ‘balneabili’?
L’indagine è stata avviata nel luglio del 2009 con lo scopo di scoprire le cause dell’inquinamento marino in provincia di Napoli e individuare i responsabili degli scarichi abusivi e del cattivo trattamento delle acque reflue. Lo spunto dell’apertura del fascicolo nacque da un’intervista dell’oceanografo Giancarlo Spezie, che dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno consigliava “di evitare di farsi il bagno nel Golfo di Napoli”, definendo inadeguato il sistema dei controlli. Fu un’estate terribile, trascorsa tra depuratori ‘esplosi’ e liquami che finivano direttamente in mare, coi turisti in fuga dalle spiagge. Il procuratore capo Diego Marmo acquisì agli atti l’articolo e convocò il professore Spezie per mettere a verbale le sue osservazioni.
In seguito la Procura ha affidato allo stesso Spezie e all’ecologo marino Vincenzo Saggiomo l’incarico di supervisionare i prelievi, in collaborazione con il dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università di Napoli e l’area monitoraggio della stazione zoologica Dohrn. E’ emersa così la vicenda di analisi ritenute inattendibili e forse truccate. Come nel caso delle schede tecniche dei campionamenti Arpac del 17 luglio 2009. In questa data sarebbero state eseguite le analisi in due punti del mare di Castellammare di Stabia e in dieci punti tra Sorrento e Massa Lubrense. Peccato che l’unico battello operante quel giorno si trovasse da tutt’altra parte, impiegato – scrive il pm – “nello svolgimento della missione Capri”.
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