Paola ha 49 anni e vive a San Giorgio Jonico, un comune alle porte di Taranto. Il suo cuore si ferma alle otto di mattina del 13 luglio nelle campagne di Andria. A 156 chilometri da casa. Anche quella notte Paola esce alle due per essere al lavoro alle cinque. Ma non torna nel pomeriggio, come ha fatto invece ogni maledetto giorno della sua vita da adulta. Su e giù per la Puglia a disposizione dei caporali e degli imprenditori agricoli, come altre 40mila donne pugliesi. Un traffico che si cela dietro fantomatiche agenzie di viaggio o contratti interinali e non garantisce salario, sicurezza, contributi previdenziali. Ci vuole quasi un mese e la denuncia della Cgil perché la vicenda, archiviata in fretta come morte naturale, venga alla luce.
Mohamed ha 47 anni e viene dal Sudan. Richiedente asilo ed è in possesso di regolare permesso di soggiorno ma non di un contratto di lavoro, muore qualche giorno dopo, il 21 luglio. Si accascia mentre raccoglie pomodori sotto il sole nelle campagne tra Avetrana e Nardò, con una temperatura che all’ombra sfiora i 40°. I titolari italiani dell’azienda e il caporale sudanese che gestisce i lavoratori migranti finiscono sul registro degli indagati per omicidio colposo. Ma dalle prime indagini emerge un quadro di illegalità diffusa e lo stesso titolare, Giuseppe Mariano, era già stato arrestato nel 2012 nell’ambito dell’operazione “Sabr” che aveva coinvolto i più grandi imprenditori agricoli della zona. Due morti che andranno a ingrossare le statistiche delle vittime sul lavoro del 2015. Nel 2014 sono state 1009 secondo l’Inail. Due morti, tante similitudini: l’età, le inesistenti misure di sicurezza, la povertà che spinge ad accettare ogni occupazione a qualsiasi condizione.
Ma evidentemente per la narrazione tossica dei razzisti nostrani le analogie non bastano. Anche in questo caso inizia a circolare un’interpretazione che contrappone la morte silenziosa di Paola a quella alla luce del sole, è il caso di dirlo, di Mohamed. «Gli italiani non fanno notizia» scrivono sui social network con quella retorica viscida che fa dei migranti dei privilegiati. In realtà ai razzisti degli italiani poveri non glien’è mai fregato un cazzo. Se manifestano e bloccano una strada, si lamentano del traffico. Se la polizia li carica, dicono che ha fatto bene. Se occupano una casa, chiosano sulla legalità. Se gli dici che un monolocale in una grande città costa 700 o 800 euro al mese, commentano compiti che è il mercato a fare i prezzi. Se un barbone gli tende la mano aperta, affrettano il passo e – nei casi più estremi – lo pestano o gli danno fuoco.
La sensibilità sociale dei razzisti italiani a proposito degli italiani poveri si ferma alle soglie dei social network. Li tirano in ballo solo per mettere una veste di pietismo al loro sentimento abominevole. Perché i razzisti possono stravolgere il concetto di esercito industriale di riserva quanto vogliono, trasformando Marx in un’icona reazionaria, ma il lavoro nero sottopagato è un’abitudine antica in questo paese. Soprattutto al Sud, e risale a molto prima della venuta degli stranieri. L’hanno inventato gli stessi sciacalli che oggi dicono «l’Italia agli italiani», in buona compagnia dei caporali stranieri che sfruttano i propri connazionali. Perché il mondo si divide in classi, mica in razze.
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