sabato 22 agosto 2020

Discoteche, a ballare sono le tasse. I costi, i guadagni e il fisco. - Nicola Borzi

Discoteche, a ballare sono le tasse. I costi, i guadagni e il fisco

Quello che non torna. Le imprese chiedono 420 milioni di aiuti-Covid. Ma 3 su 4 hanno indicatori di affidabilità fiscale sotto la norma.
I gestori delle discoteche piangono miseria. È lontano anni luce il boom degli anni 80, quando il socialista Gianni De Michelis pubblicava “Dove andiamo a ballare questa sera?”, una guida a 250 sale e night club “testati” personalmente dall’allora ministro del Lavoro del governo Craxi. Una lunga crisi prima, per il calo di appeal che ha portato a chiudere molte sale, e poi il lockdown scattato da 23 febbraio a causa della pandemia hanno assestato un terribile uno-due al settore. Dal 13 giugno ha riaperto solo un locale su cinque. Dopo la decisione del 16 agosto con la quale il ministro della Salute Roberto Speranza ha vietato di nuovo le attività di ballo, per i troppi casi di mancato rispetto delle regole di prevenzione e distanziamento, oggi le associazioni degli esercenti bussano a denari al Governo e chiedono 120mila euro a fondo perduto per ogni discoteca iscritta alle Camere di commercio. Ma a ballare, sinora, sono solo le cifre reali sul settore, specie quando si tratta di pagare le tasse: tre discoteche su quattro hanno un indicatore di affidabilità fiscale scarso o pessimo.
Nel tavolo con il Governo, al momento di quantificare gli aiuti, il sindacato di categoria Silb-Fipe aderente a Confcommercio ha parlato di un giro d’affari del settore da 4 miliardi con 100mila addetti tra diretti e indiretti. Oltre a Fiepet-Confesercenti, l’altra organizzazione del comparto è Assointrattenimento che fa capo a Confindustria, secondo la quale il giro d’affari delle discoteche lo scorso anno è stato di circa 3,5 miliardi, con 89mila dipendenti diretti e 90mila indiretti. È sulla base di questi dati che al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, le imprese chiedono rimborsi per 420 milioni, riduzione del carico fiscale oggi pari al 48% dei ricavi, di cui 22% di Iva a fronte della media del 10% del resto del comparto dello spettacolo, e un’attività di controllo e repressione più dura nei confronti dell’abusivismo che, secondo le associazioni di categoria, non rispetta le regole e fa concorrenza sleale.
Le cose, però, non paiono stare esattamente così, tanto che sui social network sono già scoppiate roventi polemiche. Secondo i dati più recenti dell’Istat, nel 2017 erano attive in Italia 1.569 discoteche, night club e locali da ballo, identificati come le imprese che gestiscono questa attività a titolo principale. Nulla si sa sul numero e la dimensione delle imprese che hanno la discoteca come attività secondaria, ma potrebbero essere qualche centinaio. Le discoteche censite avevano un totale di 9.392 addetti dei quali 8.046 dipendenti e 1.346 collaboratori con diverse forme contrattuali, a chiamata o di somministrazione. Il 58,7% degli addetti, oltre 5.500 persone, era occupato al Nord, 2.500 al Centro (26,6%), 930 al Sud (9,9%) e i restanti 450 circa nelle isole (4,6%).
Ma la parte più rilevante delle statistiche Istat è quella relativa all’andamento economico del settore. Si tratta di dati che, secondo i funzionari dell’Istituto nazionale di statistica, sono stati raccolti attraverso i bilanci depositati nelle Camere di commercio per le società di capitali oppure, per le società di persone, attraverso le dichiarazioni Irap e gli indici sintetici di affidabilità (Isa) del Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia, gli strumenti di verifica fiscale che hanno sostituito gli studi di settore.
Secondo queste informazioni, le 1.569 imprese censite in Italia nel 2017 avevano realizzato un fatturato medio di 449mila euro, per un totale di settore di poco più di 704 milioni. Il valore aggiunto medio era stato di 124mila euro, pari a un valore complessivo di poco meno di 195 milioni. I costi, con 320mila euro a discoteca, avevano totalizzato invece 502 milioni, comprimendo il margine operativo lordo (la differenza tra ricavi e costi al netto degli ammortamenti, delle minusvalenze, degli oneri finanziari e della tassazione) ad appena 32mila euro per impresa da ballo, pari a un valore nazionale di 50,2 milioni. Il tutto dopo aver spesato retribuzioni lorde per 68mila euro a impresa (106,7 milioni il totale nazionale) e un costo del lavoro complessivo di 92mila euro ad azienda, pari a 144,3 milioni complessivi.
I dati dell’Istat sono dunque estremamente diversi dalle cifre dichiarate dalle associazioni di settore. Se si prendono in esame le informazioni fiscali raccolte dal Dipartimento delle Finanze attraverso gli indicatori sintetici di affidabilità fiscale (Isa) relativi al periodo di imposta 2018, che riguardavano 1.057 discoteche controllate, emerge un quadro ancora differente. Quasi tre quinti delle sale da ballo erano gestite da società di capitali, un altro quinto da società di persone e il restante 21,9% da persone fisiche. In media, i ricavi o compensi dichiarati all’Erario erano pari a 292mila euro per impresa, per un fatturato di settore di 308,6 milioni. Il valore aggiunto medio di ciascuna impresa censita dal Fisco era di 82mila 700 euro, 87,5 milioni in tutto il comparto. Il reddito d’impresa o da lavoro autonomo, cioé l’utile di ciascun operatore sul quale si calcola l’imposta, era in media di appena 8.600 euro. Dunque tutte le discoteche controllate dal Dipartimento delle Finanze avrebbero realizzato, nell’intero 2018, un utile di poco più di 9 milioni. Si andava dalla perdita di 2.700 euro dichiarata dalle discoteche gestite da società di capitali “a bassa affidabilità fiscale” sino ai 39.300 euro di utile di quelle ad “alta affidabilità fiscale”.
Proprio la credibilità delle cifre indicate al Fisco, misurata dagli indicatori Isa, è il tallone d’Achille del settore. Secondo gli Isa, nel 2018 solo una sala da ballo su quattro, il 26,2% del totale, aveva un indicatore di attendibilità fiscale pari o superiore a 8 su 10, ovvero considerato “buono” dall’Agenzia delle Entrate. Chiedere 120mila euro come rimborso a fondo perduto per ogni discoteca pare dunque sproporzionato: forse sarebbe meglio condizionare le erogazioni pagate dallo Stato ai valori di credibilità fiscale e ai bilanci presentati da ciascun gestore.

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