Collezionare ritagli di giornali è un hobby che consiglio a tutti: basta afferrare una cartellina a caso con quello che tizio diceva l’altroieri, confrontarlo con ciò che dice oggi e scompisciarsi. Un tempo il primato assoluto era dei politici, ora invece li scavalcano opinionisti, imprenditori e giuristi, oltre alle nuove star della virologia.
Il Cazzaro Verde non ci sta a farsi metter sotto, infatti il 10 marzo voleva “chiudere tutta l’Italia” e l’11 “tutta l’Europa”, massì abbondiamo: ora chiede “l’arresto di Conte, che chiuse l’Italia (l’Europa era troppo, ndr) contro il Comitato tecnico scientifico” (che era favorevole). Dinanzi alla crescita esponenziale dei contagi (mille al giorno, soprattutto nella Lombardia modello che conta il 35,2% dei 15.089 casi attivi al 18 agosto), proclama: “Ora non c’è emergenza e chi dice il contrario, ovvero il governo, è in malafede e fa terrorismo per mantenere il potere” (veramente dicono il contrario i suoi presidenti regionali Zaia e Fontana, ma fa niente). E i giornalisti che pubblicano i dati che dicono l’esatto opposto lo fanno perché “il virus conviene: tenere in vita il virus in pieno agosto fa guadagnare soldi o fa guadagnare voti. Non si spiega altrimenti il coro quasi unanime di giornali e tv per creare un allarme che non c’è e parlare di emergenza in mancanza di emergenza”. Certo, come no.
Senz’offesa per Salvini, le sue scemenze non riescono a eguagliare quelle ripetute fino a dieci giorni fa dal suo ultimo spirito guida dopo la dipartita di Bannon: l’emerito Sabino Cassese che, sul Corriere e i suoi derivati, contestava la proroga fino a metà ottobre dello “stato di emergenza senza emergenza” (quando esso fu proclamato il 30 gennaio, i positivi erano 2 in tutta Italia, dunque l’emergenza era infinitamente più lieve di quando il governo l’ha prorogata e lui avrebbe voluto revocarla; ma fa niente). Ecco: che fine ha fatto Cassese? Perché oggi, con mille nuovi infetti al giorno, non c’illumina d’immenso con qualche altra scempiaggine? Ci manca tanto.
Meglio di lui però fa Confindustria. Ricordate le filippiche del presidente Carlo Bonomi contro “il governo dei bonus e dei sussidi a pioggia” e contro il Dl Liquidità per i prestiti bancari garantiti dallo Stato alle imprese in difficoltà? “La strada di far indebitare le imprese non è quella giusta, l’accesso alla liquidità non è immediato”. Poi iniziò a frignare perché i prestiti non arrivavano, e mica era colpa delle banche, no: sempre del governo, tant’è che ne invocava “uno diverso”. Ieri Confindustria, forse approfittando delle sue ferie, ha annunciato fra squilli di tromba che già un milione di imprese hanno chiesto i prestiti garantiti.
Tripudio incontenibile: “Un traguardo che conferma la grande utilità di uno strumento che in questi mesi ha rappresentato una risposta concreta ed efficace per le imprese costrette a fronteggiare un’emergenza di liquidità senza precedenti”. Parola di Emanuele Orsini, vicepresidente di Confindustria. Il vice di Bonomi. Che ora si scuserà per aver detto il contrario. O no?
Meglio di Bonomi fa la Repubblica, con la sua nuova crociata per il No al taglio dei parlamentari, in tandem con i fratellini di Stampa ed Espresso e i nuovi cuginetti del Domani. L’appello al No del direttore Molinari è stato subito ritwittato da Ezio Mauro: lo stesso che nel 2008 reclamava “due riforme essenziali per la governabilità e la legittimità del sistema: la riduzione del numero dei parlamentari (con la fine del bicameralismo perfetto) e dei partiti”; e nel 2013 invitava il Pd a “sfidare i 5Stelle” con un “pacchetto che comprenda il dimezzamento del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione drastica dei costi della politica, l’abolizione dei privilegi”. Ieri, nella meritoria battaglia contro la propria storia, Repubblica ha reclutato i compagni Brunetta e Violante. Il primo voterà No con argomenti squisitamente giuridici: “I 5Stelle sono un partito morente” (infatti la maggioranza in Parlamento ce l’ha FI) e vanno “ammazzati definitivamente” per “dare la spallata a Conte”, visto che “la gente vuole la buona politica e si riconosce in Draghi”, oltreché – si capisce – in Brunetta. Anche Violante è in vena di diritto, ma pure di logica cartesiana: “Se prevalesse il Sì, gli effetti sarebbero gravi”: “il Senato con soli 200 componenti non riuscirà a stare al passo col lavoro della Camera” perché i senatori sarebbero la metà dei deputati (invece oggi che i senatori sono la metà dei deputati stanno al passo eccome). Seguirà un “ulteriore discredito del Parlamento”: infatti, diminuendo il numero dei suoi membri, “ciascun voto peserà molto di più” (più i parlamentari contano, più il Parlamento si scredita: è pura matematica). E infine il Senato andrà “alla paralisi o al disordine” (strano: dal 1948 al ’57 il Senato ebbe 237 membri, e poi 246 dal 1957 al ’63, e non si segnalarono paralisi né disordini). Ma non basta. Nel 2013 il presidente Napolitano nominò un comitato di 8 saggi per le riforme che, fra le altre, proposero questa: “I deputati verrebbero a essere complessivamente 480, per i senatori si propone un numero complessivo di 120” (cioè 600 come con l’attuale riforma, ma peggio distribuiti). Fra loro c’era un certo Luciano Violante. Chissà se è lo stesso Luciano Violante che ora scrive su Repubblica, o se i due omonimi si sono mai conosciuti.
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