Emmanuel Macron è profondamente “désolé” per la disorganizzazione con cui è partita la campagna di vaccinazione, ora bisogna procedere con “umiltà e determinazione”. Ma non riconosce altri errori, se non per prendere atto della fiammata di contagi. E dunque, dopo giorni di attesa di una sua parola che non arrivava mai (Cosa sta aspettando?, titolava martedì a piena prima pagina Libération) ha finalmente annunciato ieri sera misure mai viste prima, che stanno dando luogo a una rivolta parlamentare e non solo delle opposizioni. Più che il merito si discute del metodo: il dibattito è stato aperto in Parlamento solo dopo la parola del monarca.
Intanto chiuse anche le scuole (per tre settimane) per la prima volta per la prima volta dall’inizio della pandemia. Coprifuoco a partire dalle 19. No agli spostamenti tra regioni, ci si può muovere dalla propria abitazione per non più di dieci chilometri salvo motivi eccezionali. Smartworking senza eccezioni per tutti quelli che lo possono fare… Lo specifico francese è una flambée, una fiammata di contagi, quasi mezzo milione nelle ultime due settimane, 60 mila solo ieri, al 90 per cento dovuti alla temuta “variante inglese”, nome particolarmente evocativo. Ventotto mila francesi ricoverati, oltre 5 mila in rianimazione. Dunque ospedali e rianimazioni letteralmente a “bout de souffle”, senza respiro. Vaccinazioni troppo lente: a oggi 2 milioni e 700 mila, solo il 4 per cento della popolazione, hanno avuto la dose completa, l’11 per cento la prima dose. Il ministro della sanità Olivier Veran spera che con queste misure si possa arrivare al picco entro fine aprirle.
“Abbiamo agito né troppo presto, né troppo tardi”, ha detto questa mattina all’Assemblée il primo ministro Jean Castex per fare da scudo all’accusa più forte indirizzata in questi giorni al governo e al presidente Macron, quella di non aver ascoltato gli scenari anticipati dagli epidemiologi e aver usato finora mezze misure. Sotto accusa anche per l’ostinazione a valor tenere le scuole aperte, a qualunque costo, negando che fossero anch’esse- com’è ovvio - bacino di contagio. (Detto tra parentesi, l’espressione usata dal presidente fin dal marzo 2020 era “quoi qu’il en coûte” e altro non era che la traduzione del “whatever it takes” di Mario Draghi divenuta proverbiale nelle élite europee).
Ieri sera Emmanuel Macron ha riconosciuto che sono stati fatti degli errori nell’organizzazione delle vaccinazioni, senza però mai ammettere di aver sbagliato nelle valutazioni generali. “Non ho nessun mea culpa da fare, né rimorsi da esprimere”, aveva detto sabato. La linea presidenziale è rimasta quella : la “flambée” non è arrivata a febbraio com’era stata prevista dagli scienziati, dunque “abbiamo guadagnato tempi di vita”. Adesso però “dobbiamo prenderci le nostre responsabilità, senza cedere la panico o alla negazione”.
Mentre i francesi si contagiano e muoiono più o meno come gli italiani (a ieri i morti erano 95 mila, in media 355 al giorno nelle ultime due settimane) sotto la tenda ad ossigeno c’è un altro malato illustre, la Quinta Repubblica. Da anni politici e costituzionalisti discutono sull’attualità del sistema istituzionale che Charles de Gaulle aveva ritagliato su sé stesso alla fine degli anni Cinquanta, in piena crisi d’Algeria e quando la seconda guerra mondiale era una memoria ancora fresca.
Da allora è praticamente rimasto intatto, la modifica più significativa è stata la riduzione da sette a cinque anni del mandato presidenziale fatta nel 2000 dalla coppia Chirac-Jospin, in un afflato destra-sinistra che aveva come obiettivo eliminare la distorsione della coabitazione e cioè la compresenza forzata di un presidente gollista e un primo ministro socialista (o viceversa) com’era avvenuto varie volte nel passato: Mitterrand-Chirac o appunto Chirac-Jospin. La coincidenza di elezioni presidenziali e legislative avrebbe dovuto risolvere il problema. È così è stato. Dal 2002 nessuna coabitazione. Ma il sistema presidenziale ne è risultato rafforzato, una vera “monarchia repubblicana” come nel disegno di De Gaulle, fino al punto che il brutale Sarkozy ha potuto derubricare il suo primo ministro Fillon in semplice “collaboratore”.
Con il più pacioso e caotico François Hollande la verticalità del sistema è parsa molto attenuata. Ma tutto si è rovesciato con Macron, fin dalla sera della sue elezioni quando il giovanissimo presidente si è presentato alla nazione in una scenografia che mescolava il “nouveau” con l’ “ancien régime”, lui solo nel cortile del Louvre sotto la piramide di Mitterrand, nell’aria le note della Marsigliese e dell’europeista Inno alla gioia. Macron è stato dunque una specie di rifondatore di una presidenzialissima Quinta Repubblica, teorizzando e praticando per se un ruolo “jupiterien” alla sommità dello Stato.
Nel corso delle varie crisi che hanno caratterizzato il suo mandato, dalla rivolta popolare e populista dei gilets gialli, a quella interclassista contro la riforma delle pensioni il presidente ha teso semmai a rafforzare il suo ruolo pantocratore, catalizzando lo scontento e gestendo in proprio le soluzioni. A metà mandato si è liberato di un primo ministro come Edouard Philippe divenuto troppo autonomo (e popolare) e ha collocato a Matignon l’attuale Jean Castex (un fedele di Sarkozy, tra l’altro) che per biografia e configurazione appare davvero come un “collaboratore” del presidente.
La crisi Covid ha enfatizzato questa situazione. Quella di ieri sera è stata la settima “allocuzione solenne” del presidente, 30,8 milioni francesi hanno ascoltato la sua parola e misurato la temperatura emotiva del palazzo rispetto alla pandemia. Una temperatura che è variata più volte nel corso dei mesi. La prima volta fu con tono bonapartista: “Siamo in guerra”. Poi via via il tono è cambiato, di volta in volta paternalista, scientifico, pedagogico. Ieri sera Macron ha voluto trasmettere un messaggio di umiltà e determinazione. Ma può un paese, un sistema, un mondo - visto che ci sono ancora “territori d’oltremare” - aspettare giorni e giorni la parola del presidente? Con governo e politica apparentemente paralizzati nell’attesa? Solo oggi all’Assemblée e domani al Senato si discuterà, ma di decisioni che sono state prese e annunciate ieri sera dal presidente. “Una Waterloo”, dice Marine Le Pen, mentre il capo degli Insoumis Jean-Luc Mélenchon parla di “pesce d’aprile”. Sono i capi delle opposizioni, estrema destra ed estrema sinistra, ma è bene ricordare che al primo turno delle presidenziali 2017 hanno preso ognuno un venti per cento dei voti, che sommati fanno quaranta che disegnano con nettezza i confini di uno stato d’animo collettivo anti sistema che non si è certo attenuato in questi quattro anni.
Il dibattito all’Assemblea è in corso, e anche i centristi dell’Udi, che sono nella maggioranza, hanno annunciato che non parteciperanno al voto: “una mascherata”. La crisi della Quinta Repubblica è aperta.
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