Visualizzazione post con etichetta Indulto. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Indulto. Mostra tutti i post

martedì 9 dicembre 2014

Mafia Capitale, il fasciomafioso Carminati “riemerso” anche grazie a tre indulti. - Diego Pretini

Mafia Capitale, il fasciomafioso Carminati “riemerso” anche grazie a tre indulti

La prima condanna definitiva per l'ex Nar è arrivata nel 1987 per una rapina a una banca in zona Eur nel 1979. L'ultima nel 2010 per un colpo alla filiale della Banca di Roma all'interno del Palazzo di Giustizia di Roma, nel 1999. Ma ad aiutarlo sono stati gli sconti di pena che i giudici hanno applicati dopo i provvedimenti dei governi e del Parlamento nel 1986, nel 1990 e nel 2006.

Massimo Carminatier cecato. I giornali hanno raccontato tutto di lui in questa settimana. Terrorista, eversore, neofascista abile con gli esplosivi e criminale comune in cerca del colpo grosso.Valerio Fioravanti – autore della strage di Bologna – lo definisce uno che non “vuole porsi limiti nella sua vita spericolata: pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura”. Link da trent’anni tra gli ambienti neofascisti e la mafia romana. Una storia nient’affatto consegnata alla storia. C’è la maxi rapina alla Banca di Roma del 1999, per esempio. E poi ancora e ancora. “Il nome del Cecato – scriveva due anni fa esatti Lirio Abbate sull’Espresso – viene sussurrato con paura in tutta l’area all’interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli attici dei Parioli. L’unica autorità in grado di guardare dall’alto quello che accade nella capitale”. Eppure,Massimo Carminati, il fascio-mafioso, senza un occhio non per caso, era ancora a piede libero, capace non solo di tornare “nel suo mondo” (di mezzo), ma anche di “infettare” le amministrazioni pubbliche. C’entrano anche – di nuovo – le scelte della politica. Carminati per 7 volte ha infatti potuto godere di indulti. Tre provvedimenti – nel 1986, nel 1990 e nel 2006 – che hanno tagliato uno dopo l’altro le pene che in oltre trent’anni di carriera l’ex Nar ha accumulato. E in alcuni casi si tratta di una miscela positiva – per Carminati – che incrocia le decisioni dei giudici, soprattutto i magistrati di sorveglianza che riconoscono, come prevede il codice e la legge, l’affidamento in prova e quando questo va bene anche l’estinzione della pena.
Il primo indulto di cui gode Carminati è quello del 16 dicembre 1986. Il presidente del Consiglio è Bettino Craxi, il suo vice è Arnaldo Forlani, il suo sottosegretario a Palazzo Chigi è Giuliano Amato, il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, il guardasigilli Virginio Rognoni. Viene scarcerato il 22% della popolazione in carcere: oltre 9700 su 43500 circa. Tra chi beneficia del provvedimento è anche Carminati. Lo sconto si applica ai 3 anni e mezzo che la Cassazione gli ha inflitto per 9 capi d’imputazione: tra questi la rapina, il porto illegale di armi, la ricettazione, le lesioni personali. Si tratta di fatti del 1979 e del 1980. In un caso, il 27 novembre 1979, Carminati, insieme ad alcuni del Nar e di Avanguardia Nazionale (tra questi c’era anche Fioravanti), rapinò la filiale della Chase Manhattan Bank all’Eur. Rubano “assegni turistici”. Una parte della refurtiva finirà nelle mani del boss della Banda della Magliana, Franco Giuseppucci. Il dispositivo della sentenza definitiva (dell’aprile 1987) parla appunto di 3 anni e mezzo di reclusione. Ma su questa pena interviene l’indulto del 1986 che condona anche tutte le pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici. Finisse qui. Su questa condanna interviene anche un altro indulto, firmato – come il precedente – dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Il capo del governo è Giulio Andreotti, il suo vice Claudio Martelli, il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli. Alla fine per questi 9 reati sarà disposta la riduzione della pena per liberazione anticipata nel 1992. Come prevede la legge sull’ordinamento penitenziario “al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione” viene riconosciuto uno sconto di 45 giorni ogni 6 mesi di pena scontata. E quindi gli tolgono altri 7 mesi e rotti.
L’indulto del 1990 falcia anche un’altra sentenza della Cassazione, pronunciata nel 1991. I capi d’imputazione sono 4 e sempre gli stessi: rapina, detenzione illegale di armi e munizioni, porto illegale di armi. Il dispositivo è di un anno, 6 mesi e 20 giorni. Gli viene condonata l’intera pena della reclusione e tutte le pene accessorie. La data non è banale: 30 luglio 1980, due giorni prima che la stazione di Bologna saltasse per aria. La cancellazione totale della pena avviene anche per una sentenza della corte d’appello di Milano del 1988, 8 mesi per ricettazione, la data della commissione del reato è 20 aprile 1981. E’ il giorno in cui Carminati perde l’occhio: sta fuggendo verso la Svizzera insieme ad altri due avanguardisti. Al valico del Gaggiolo (in provincia di Varese) li aspetta la polizia che apre il fuoco. I due avanguardisti ne escono senza un graffio, Carminati ci lascia l’occhio. Finisce dentro, viene operato più volte, montano le polemiche perché i tre erano disarmati, i missini e i radicali chiedono la scarcerazione. Verrà liberato, ma dura poco perché viene coinvolto nelle indagini sulla Banda della Magliana. Pena finale 6 anni (è il 2000) poi per l’accumulo delle condanne diventeranno 11 e 9 mesi che in parte ha già scontato. Il magistrato di sorveglianza nel 2006 disporrà anche la revoca della libertà vigilata.
Infine il grande ritorno con il colpo al caveau della Banca di Roma: finirà con una condanna, pure quella indultata. La rapina è alla filiale interna al palazzo di Giustizia, a piazzale Clodio. E’ l’estate del 1999: Carminati è ritenuto la mente di tutta l’operazione, coordina 23 persone anche all’interno dell’edificio. Rubano 50 miliardi di lire, gioielli, decine di cassette di sicurezza. L’obiettivo, secondo chi indagherà, era raccogliere documenti riservati sui magistrati. La sentenza della Cassazione (21 aprile 2010) fissa la pena a 4 anni. Già nel maggio il procuratore generale di Perugia dispone la sospensione dell’esecuzione della pena. Poi arriva anche l’indulto, il terzo. E’ quello del 2006, al governo da pochi mesi c’è l’Unione e a Palazzo Chigi Romano Prodi, il ministro della Giustizia è Clemente Mastella, ma vota sì tre quarti del Parlamento: contrari solo Idv, Lega e An, si astengono i Comunisti Italiani. Il risultato è che tre mesi dopo – a luglio – Carminati ottiene l’affidamento in prova. A gennaio la pena è estinta. Gli restano – dopo i nuovi ricalcoli – un anno da scontare e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Ma è evidente che per fare soldi, nei “pubblici uffici” non aveva bisogno di entrarci.

lunedì 28 ottobre 2013

Carceri sovraffollate? E’ perché l’Italia non rimpatria gli stranieri. Nonostante la legge. - Thomas Mackinson

Carceri sovraffollate? E’ perché l’Italia non rimpatria gli stranieri. Nonostante la legge

Lo prevede la convenzione di Strasburgo del 1983 che il nostro Paese ha sottoscritto. Con l'attuazione di questa norma si risparmierebbero anche 500 milioni. Ma a distanza di 24 anni dalla ratifica nessuno incentiva questo strumento. In più, non ci sono accordi bilaterali con Marocco, Tunisia e Romania che sono in cima alla classifica delle presenze.

Mentre ancora si parla di indulto e amnistia, l’Italia spende un miliardo all’anno per tenere nelle patrie galere detenuti stranieri che in buona parte potrebbero scontare la pena nei loro paesi d’origine. Il piano è pronto da decenni. Gli accordi per lo scambio ci sono, multi e bilaterali, stretti con quasi tutti i Paesi del mondo. Ma nessuno incentiva questo strumento per svuotare le carceri e i detenuti trasferiti, alla fine, sono così pochi che non vengono neppure conteggiati nelle statistiche sulla giustizia italiana. Percorrendo tutte le vie “ufficialissime” dei ministeri competenti – Interno, Giustizia ed Esteri – è materialmente impossibile avere un dato su quanti abbiano usufruito di questa possibilità e diritto, come prevede la convenzione di Strasburgo del 1983, che l’Italia ha ratificato e inserito nel proprio ordinamento dal 1989 e via via allargato con una serie di accordi bilaterali.
Una beffa. Perché questa strada avrebbe potuto, almeno sulla carta, segnare la svolta sulla questione carceri prima che diventasse emergenza nazionale. Lo dicono i numeri. Nelle celle italiane, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si contano oggi 22.770 detenuti stranieri, un terzo della popolazione carceraria. Tanti, troppi. E ci sarebbero motivi di mera convenienza, oltre che di civiltà, per incentivare a diminuirne il numero. Il costo medio per detenuto calcolato dalla Direzione bilancio del Dap è di 124,6 euro al giorno. Lo Stato, nel 2013, spenderà dunque 909 milioni di euro, quasi un miliardo l’anno. Ma quanto risparmierebbe se desse seguito agli accordi di rimpatrio? Per saperlo bisogna moltiplicare quel costo unitario per i 12.509 detenuti stranieri che scontano una condanna già definitiva, i soli sui quali può ricadere l’ipotesi di un trasferimento. Il costo reale del mancato rimpatrio, o se si vuole il conto del risparmio virtuale, arriva dunque a 568 milioni di euro l’anno, un milione e mezzo al giorno.  Un bella cifra nel conto dello Stato che potrebbe essere destinata a costruire nuove strutture, ammodernare quelle esistenti, incentivare forme di rieducazione e reinserimento. Per contro, i detenuti italiani all’estero non superano le tremila unità. Una differenza che rende evidente quanto il saldo degli “scambi” sarebbe a favore dellItalia (e degli italiani). “Non si possono fare deportazioni di massa”, ammoniscono gli esperti di procedura penale, mettendo in guardia da operazioni di macelleria detentiva.
Ma a chi oppone a ogni ragionamento questioni di ordine etico-morale va ricordato che dal 2002 nessuno ha sbarrato la strada ai voli di Stato per il rimpatrio dei clandestini che la Bossi-Fini ha reso – almeno per le modalità operative – del tutto simili alla deportazione coatta, per di più espulsi non per aver commesso un reato penale ma amministrativo (l’ingresso in Italia senza permesso di soggiorno o contratto di lavoro a supporto del reddito). Idem per il reato di clandestinità introdotto nel 2009 col decreto sicurezza. Ci sono poi ragionevoli argomenti per ritenere che in quel terzo di popolazione carceraria composta da stranieri ci possa essere chi preferirebbe – vista anche la condizione dei penitenziari nostrani – ricongiungersi ai propri parenti e scontare la pena nel proprio Paese. Peccato che non succeda mai, salvo rarissimi casi. A 24 anni dalla convenzione di Strasburgo gli accordi sul trasferimento sono rimasti lettera morta, con buona pace del tempo e delle risorse che l’Italia ha dedicato per dibattiti parlamentari, mandati esplorativi di funzionari della giustizia, riunioni e servizi d’ambasciata da una capo all’altro del mondo. 
Il paradosso degli accordi all’italiana Il paradosso è che incentivare lo scambio e la detenzione all’estero non sarebbe una politica di destra o di sinistra ma di buona amministrazione, per di più ancorata e supportata nella sua applicazione da convenzioni e accordi. Con alcune bizzarrie e illogicità di fondo, però. L’Italia, si è detto, ha aderito alla convenzione di Strasburgo dell’83 insieme a 60 Paesi (gli ultimi sono la Russia e il Messico nel 2007). Ha poi stretto accordi bilaterali con altri sette che erano rimasti  fuori dalla convenzione. Ma – attenzione – non con quelli che più pesano sul conto delle carceri. Ricapitolandoli: nel 1998 abbiamo firmato un accordo con l’Avana quando i detenuti cubani sono una cinquantina e poco più, nel 1999 con Hong Kong a fronte di popolazione carceraria prossima allo zero, nel 1984 con Bangkok (ancora oggi si contano due soli detenuti thailandesi). Mancano all’appello, per contro, proprio i Paesi che per nazionalità affollano maggiormente le nostre celle: il Marocco, su tutti, visto che con 4.249 detenuti occupa il secondo posto nella classificazione delle presenze straniere (18,7%). LRomania che occupa il secondo con 3.674 detenuti (16,1%). La Tunisia, al terzo posto, con 2.774 (12,2%). Altri sono pronti da vent’anni, ma per l’inerzia del Parlamento restano lettera morta. Emblematico il caso del Brasile, dove l’accordo è firmato e manca solo il passaggio in aula. Siamo riusciti invece ad accordarci con l’Albania (2.787 detenuti, 12%). Quando è stato sottoscritto, nel 2002, nelle carceri italiane c’erano 2.700 detenuti albanesi, di cui 960 condannati in via definitiva. Trecento dovevano scontare una pena residuale superiore ai tre anni e sarebbero stati i primi a lasciare l’Italia per scontare la pena nelle patrie galere. Un modello che doveva essere, secondo il Guardasigilli di allora Roberto Castelli, esportato in Marocco, Algeria e Tunisia. Cosa mai avvenuta, a distanza di un decennio. Ma quanti albanesi sono stati  poi trasferiti? Impossibile saperlo, come per tutti gli altri detenuti stranieri in Italia.  
Il mistero sui numeri: “Non abbiamo il sistema informatico” I trasferimenti autorizzati  sulla base di quegli accordi sono irrilevanti al punto che non vengono neppure monitorati a fini statistici. Sapere quanti siano è un’impresa impossibile. Le interrogazioni parlamentari sulla questione non hanno mai avuto risposta e anche per le fonti giornalistiche la strada porta dritto a un muro di gomma che fa rimbalzare da un ministero all’altro. Dovrebbe averli il ministero degli Interni ma non è così. “Sono numeri molto modesti a fronte di procedure complesse, per questo non sono sottoposti a monitoraggio statistico e vanno a finire nelle diciture “altro” degli annali giudiziari”, premettono imbarazzati i funzionari del Viminale. “Il detenuto fa domanda al direttore del carcere che la gira al magistrato di sorveglianza che fornisce il suo giudizio e lo trasmette al ministero. Dovrebbero però averli al ministero di Grazia e Giustizia che amministra le pene”. Ma si bussa lì senza maggior fortuna. Il direttore dell’ufficio Affari penali Antonietta Ciriaco fa sapere che il suo ministero non ha neppure il sistema informatico necessario a estrapolarli quei dati, che non si tratta di estradizioni, per cui “una volta che c’è l’accordo internazionale e una sentenza favorevole della Corte d’Appello al trasferimento, è materia del Dap”. Ma anche al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria cadono dalle nuove. “Noi abbiamo solo dati rispetto a detenzione e scarcerazione, questa storia di chi ha i dati sui trasferimenti va avanti da anni e alla fine le richieste arrivano sempre qui, ma noi non li abbiamo. Avete provato al ministero degli Interni?”. E si ricomincia.
Il saldo delle carceri: 20mila restano, 200 (forse) vanno
Qualche barlume, alla fine, illumina almeno il passato. A margine di uno dei tanti trattati bilaterali il ministero degli Interni nel 2008 fornì, con parsimonia, qualche cifra: nel 2005 il trasferimento delle persone straniere condannate è stato pari a 216, 46 nel 2006, 111 nel 2007 e 87 nel 2008. Si presume che da allora le cose non siano cambiate e che a prendere la frontiera per la carcerazione all’estero siano grosso modo un centinaio di detenuti all’anno. Numeri che rendono bene l’idea di come siano stati tradotti nel nostro Paese la convenzione di Strasburgo e tutta la congerie di accordi bilaterali che negli ultimi vent’anni sono stati annunciati, sottoscritti e celebrati in pompa magna tra convegni, delegazioni e voti in Parlamento.
Alla fine del giro tocca chiedersi anche se la resistenza a fornire dati sul trasferimento – insieme al disinteresse per tracciarli, recuperarli e renderli pubblici – sia del tutto casuale, il frutto accidentale della sovrapposizione di competenze e burocrazie, o se sotto ci sia altro. Il sospetto è che non vengano divulgati perché la loro stessa inconsistenza sarebbe fonte d’imbarazzo per le istituzioni italianeRivela come per vent’anni lo stesso ceto politico che alzava la voce sull’emergenza carceri non è stato capace di utilizzare lo strumento del rimpatrio per alleggerirle. Ancora oggi, del resto, sembra baloccarsi con fantomatici “piani carceri” per i quali non riesce a reperire le risorse e alla fine – messo con le spalle al muro dalla condizione ipertrofica delle celle – si affida all’unico “svuotacarceri” che non comporta costi diretti: un atto di clemenza che consenta alla politica di non fare i conti con la propria storica inerzia. E poco importa se amnistia e indulto alimentano il senso di ingiustizia tra i cittadini incensurati.

mercoledì 9 ottobre 2013

Carceri, messaggio di Napolitano alle Camere: “Servono amnistia e indulto”. -

Carceri, messaggio di Napolitano alle Camere: “Servono amnistia e indulto”

Messaggio alle Camere sulle carceri: "Il sovraffollamento cronico è incostituzionale". Proposti 3 anni di sconto" su tutte le pene e cancellazione dei reati minori. E a beneficiarne sarebbero soprattutto (e ancora una volta) i politici.

Intervenire d’urgenza, anche con rimedi straordinari: cioè amnistia e indulto. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano manda il suo primo messaggio alle Camere dopo 8 anni e mette al centro il dramma del sovraffollamento delle carceri. Una situazione “intollerabile”, dice il capo dello Stato, la cui soluzione è diventata “inderogabile”, che “umilia” il Paese davanti alla comunità internazionale, è “mortificante” e viola pure la Costituzione. Per “garantire i diritti elementari dei detenuti” e soprattutto per eseguire la sentenza della Corte di Strasburgo che ha già condannato l’Italia nel gennaio scorso intimando di risolvere la situazione entro il maggio 2014. Quindi servono misure straordinarie, come le pene alternative al carcere, ma bisogna fare presto e quindi si dovrà ricorrere – se serve – anche ai provvedimenti di clemenza che potrà decidere il Parlamento: amnistia e indulto. Parole che immediatamente accendono lo scontro sui possibili benefici per il pregiudicato Silvio Berlusconi e innescano uno scontro durissimo tra il presidente e il Movimento Cinque Stelle
Il messaggio alle Camere del capo dello Stato, dunque, è destinato a diventare l’ennesimo ring sul quale sono destinati a salire i partiti in lotta tra loro, maggioranza o opposizione che siano. Napolitano pone al Parlamento “con determinazione e concretezza la questione scottante” dell’emergenza dei penitenziari e Napolitano aggiunge di dover “mettere in evidenza come la decisione della Corte di Strasburgo rappresenta la mortificante conferma della perdurante incapacità del sistema italiano di garantire i diritti elementari e la sollecitazione pressante ad imboccare una strada efficace”. I dati ufficiali sulla popolazione carceraria, ricorda il presidente, parlano nel 2011 di 64.758 detenuti in carcere con una capienza di 47.615 posti. ”L’Italia – ha spiegato il capo dello Stato – viene a porsi in una condizione umiliante sul piano internazionale per violazione dei principi sul trattamento umano dei detenuti”.
“Le istituzioni e l’opinione pubblica – spiega ancora il presidente della Repubblica – non possono scivolare nell’indifferenza convivendo con una realtà di degrado civile e sofferenza umana”. Per evitare questo sono “necessari immediati rimedi straordinari”, quindi è “opportuno” varare contemporaneamente un provvedimento di amnistia e uno di indulto, perché questo “permetterebbe di conseguire rapidamente i seguenti risultati positivi: l’indulto avrebbe immediato effetto di ridurre popolazione carceraria”, mentre “l’amnistia permetterebbe di estinguere procedimenti per fatti bagatellari”, e con ciò “permetterebbe di ridurre i tempi di custodia cautelare”.
“Amnistia e indulto, ma anche strumenti alternativi”
Napolitano spinge a fondo sulla necessità di utilizzare più strumenti, a partire, con le loro peculiarità, dall’indulto e l’amnistia ma perseguendo anche innovazioni di carattere strutturale e puntando sull’aumento della capienza complessiva degli istituti penitenziari. Tra i rimedi che indica anche una “decisiva depenalizzazione” oltre all’applicazione di pene alternative alla cella: domiciliari o servizi sociali, per esempio. Ma anche “messa alla prova come pena principale”, con la possibilità di iniziare “da subito un percorso di reinserimento” e “riduzione dell’area applicativa della custodia cautelare in carcere”.  Per gli stranieri, inoltre, la possibilità di scontare la pena nei loro Paesi d’origine.
Resta però che “il combinato disposto di amnistia e indulto potrebbe favorire una significativa riduzione della popolazione carceraria”. Il capo dello Stato chiarisce che l’indulto inciderà sulla popolazione carceraria mentre l’amnistia può accelerare i tempi della giustizia e incidere anche sulla custodia cautelare. Quanto all’amnistia, scrive il Quirinale, “di fronte agli obblighi costituzionali e ad un imperativo morale e giuridico penso sia venuto il momento di rivedere le perplessità sull’adozione di atti di clemenza generali. Sull’amnistia non ritengo che il presidente della Repubblica possa indicare la perimetrazione della legge di clemenza, cosa che rientra nelle esclusive competenze del Parlamento e di chi eventualmente avanzerà una proposta di legge in materia”. “Fermo restando l’esclusione dall’amnistia dei reati di particolare allarme sociale come la violenza contro donne – aggiunge Napolitano – non ritengo che il capo dello Stato debba indicare le singole fattispecie da escludere: la perimetrazione dell’amnistia rientra nelle competenze esclusive Parlamento”.
“Risolvere la questione è una necessità inderogabile”
Ad ogni modo – precisa il presidente – quale che sia, serve un intervento d’urgenza, spiega Napolitano. “Sottopongo all’attenzione del Parlamento – scrive il presidente della Repubblica – l’inderogabile necessità di porre fine ad uno stato di cose che ci rende corresponsabili delle violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo. Esse si configurano come un’inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento si cui si basa l’integrazione europea”. La sentenza pilota della Corte europea da cui è partito Napolitano è quella che nel maggio scorso ha condannato l’Italia a risolvere, entro il maggio prossimo, il problema del sovraffollamento negli istituti di pena e a prevedere i rimborsi per i detenuti vittime del problema. L’Italia non può più opporsi in alcun modo alla richiesta che le viene dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, perché la Corte di Strasburgo ha rigettato il suo appello, confermando il verdetto contro l’Italia che aveva già emesso l’8 gennaio scorso. Nella sentenza i giudici condannano l’Italia per aver sottoposto 7 detenuti del carcere di Busto Arsizio e di Piacenza a condizioni inumane e degradanti: condividevano celle di 9 metri quadri con altri due carcerati e non avevano sempre accesso alle docce dove spesso mancava l’acqua calda. La Corte oltre ad aver condannato l’Italia a risarcirli con quasi 90mila euro, ha dato al governo un anno di tempo per risolvere il problema del sovraffollamento dei penitenziari.
Amnistia, indulto e gli effetti sul caso Berlusconi
Resta da capire come un atto di clemenza possa incidere sulle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi. Per quanto riguarda l’amnistia, disciplinata dall’articolo 151 del codice penale, “estingue il reato, e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie” e, per effetto e nei limiti dell’articolo 210 dello stesso codice, “impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l’esecuzione”. Pertanto un’amnistia potrebbe risolvere in parte i problemi giuridici del leader del Pdl, almeno per quanto riguarda la condanna passata in giudicato relativa ai 4 anni per la frode fiscale nel processo Mediaset. Rimarrebbero scoperti però gli altri processi in dirittura d’arrivo. L’indulto invece è “causa generale di estinzione della pena, che condona in tutto o in parte la sanzione inflitta con la sentenza di condanna, ovvero la commuta in pena di specie diversa”. Questo provvedimento quindi non cambierebbe la situazione di Berlusconi per quanto riguarda la decadenza da senatore. Si tratta comunque di due atti di clemenza generali, ad efficacia retroattiva e, come tali, si distinguono dalla grazia che, invece, è un provvedimento individuale. 
I provvedimenti di clemenza e i benefici per la politica
Il rischio è che a beneficiare dei provvedimenti di clemenza collettiva non saranno solo i detenuti che soffrono in carcere del sovraffollamento ben oltre i limiti della decenza. Ma anche e soprattutto i “colletti bianchi“, quelli che in galera sono stati mai e che quindi potrebbero non andarci mai. Per parlare ancora più chiaro: coloro che hanno un’inchiesta in corso partirebbero da “meno 3 anni” (almeno secondo il suggerimento del Quirinale) da togliere alla pena che rischiano. I reati contestati ai politici solitamente sono corruzione, concussione, abuso d’ufficio, peculato. Questo significa che – quando va bene – con sentenze da 6 anni in su potrà accadere che non si sconterà neanche un giorno di carcere. Questo mentre sono una quarantina i parlamentari sotto inchiesta o sotto processo, mentre si trovano nella stessa situazione centinaia di consiglieri comunali, provinciali e soprattutto regionali (in carica o ex) dopo gli scandali sull’uso improprio dei fondi destinati ai gruppi consiliari nelle varie Regioni.
Leghisti scuotono la testa, Cinque Stelle non applaudono
Appena le parole amnistia e indulto sono risuonate nell’Aula della Camera e del Senato (lette dai presidenti Laura Boldrini e Piero Grasso) si è subito capito che il tema sarebbe diventato il nuovo motivo di scontro tra le forze politiche. I deputati leghisti hanno scosso la testa. Il capogruppo Giancarlo Giorgetti si è messo le mani alla fronte. Applausi invece dai banchi del Pdl. “E’ il primo passo verso l’amnistia a Berlusconi con la scusa di risolvere il sovraffollamento delle carceri” scrive subito il capogruppo uscente della Camera del Movimento Cinque StelleRiccardo Nuti su facebook. E i deputati di M5S non hanno applaudito al termine della lettura del messaggio a Montecitorio. E’ stato solo l’inizio dell’ennesima bufera politica. I partiti di maggioranza definiscono il discorso di Napolitano di alta levatura, i Cinque Stelle e la Lega vanno all’attacco. Tanto che alla fine è lo stesso Napolitano a perdere la pazienza: “Chi pensa sia un provvedimento pro-Berlusconi se ne frega dei problemi del Paese”.
Primo messaggio alle Camere in 8 anni
Il messaggio sullo stato delle carceri consegnato alle Camere è il primo in 8 anni per il presidente Napolitano. L’inquilino del Quirinale aveva concluso il primo settennato senza alcun messaggio. A pochi mesi dalla sua rielezione al Quirinale ha scelto di inviare al dibattito parlamentare un messaggio su un tema particolarmente che è quello del sovraffollamento delle carceri. Si tratta del suo primo messaggio al Parlamento in quasi otto anni di permanenza al Quirinale. Una mossa inaspettata ma che nasce da lontano. Da tempi non sospetti Napolitano si interessa al degrado carcerario e chiede alle forze politiche di interessarsi al problema nonostante la difficoltà che presenta il varo di un provvedimento – amnistia o indulto – che necessita di una maggioranza di due terzi del Parlamento. Di recente il presidente della Repubblica era tornato con forza sul tema. “Pongo al Parlamento un interrogativo – aveva detto il capo dello Stato durante la visita al carcere di Poggioreale - se esso ritenga di prendere in considerazione la necessità di un provvedimento di clemenza, di indulto e di amnistia”. Sono 11 anni che le Camere non aprivano un dibattito su un messaggio presidenziale: l’ultimo fu infatti nel 2002 quando Carlo Azeglio Ciampi investì le Camere del tema della libertà di informazione. L’anno successivo peraltro arrivò sulla scrivania dell’allora presidente la legge Gasparri sulle telecomunicazioni e Ciampi la rispedì alle Camere.
E uno, a 88 anni, scrive alle camere un messaggio di 9 pagine?
Per una questione che si protrae da minimo 10 anni?
Si è svegliato adesso o lo hanno fatto svegliare?
Inqualificabile, inoltre, il suo attacco ad una componente del parlamento votata da milioni di persone.
Esigo rispetto! E quando non lo ricevo, non lo rendo!