giovedì 11 aprile 2019

La telefonata a Fazio contro l’invito a Di Maio.




Il Fatto Quotidiano racconta oggi che dietro l’ospitata di domenica sera di Luigi Di Maio da Fabio Fazio c’è un retroscena curioso, che parte da una telefonata ricevuta dal conduttore per cercare di dissuaderlo dall’invitare il leader M5S:

A non essere tanto normale è invece una telefonata partita dai piani alti di Viale Mazzini qualche giorno prima, tra venerdì e sabato, proprio a Fazio e anche al direttore del Tg1 Carboni, dopo che è stata resa nota la scaletta del programma. Un colloquio in cui un alto dirigente Rai, come riportava ieri anche il sito Dagospia, avrebbe tentato di convincere il conduttore a declinare l’invito al ministro del Lavoro.
Una conversazione dove si è fatto notare se fosse proprio il caso, a un mese e mezzo dalle Europee, di avere ospite Di Maio e se, nel caso, si fosse pensato a un riequilibrio nella settimana successiva con un ospite leghista. E, dato che Salvini da Fazio non ci va, se non fosse il caso comunque di evitare l’ospitata di Di Maio. Non una telefonata di censura, nemmeno un ordine perentorio, ma una sorta di moral suasion anche assai educata.
Secondo il Fatto il dirigente che si è mosso è Fabrizio Ferragni, capo delle relazioni istituzionali, vicino al presidente Foa:
Nella nuova Rai gialloverde, infatti,di lui si dice che sia molto apprezzato dalla Lega e dal presidente Marcello Foa. Quando Foa ha un impegno istituzionale, spesso ad accompagnarlo c’è Ferragni. Ed è farina del sacco di Foa la decisione di spacchettare la comunicazione, con la conferma di Ferragni. Con chi non aveva buoni rapporti, invece, è Mario Orfeo, di cui era vicedirettore al Tg1. E quando quest’ultimo passa alla direzione generale, gli preferisce, come suo successore, Andrea Montanari.
 https://theworldnews.net/it-news/la-telefonata-a-fazio-contro-l-invito-a-di-maio

BOLLITI E MARINATI - Marco Travaglio



L’assoluzione di Ignazio Marino dalle accuse di peculato e falso è una buona notizia per lui e una pessima notizia per chi – da Renzi e Orfini in giù – lo cacciò anzitempo dal Campidoglio nel 2015, spalancando le porte ai 5Stelle. Ma è anche un’ottima occasione per misurare la febbre del cosiddetto “rapporto fra politica e giustizia” che i partiti continuano a non risolvere a 27 anni da Tangentopoli e infatti continua a destabilizzare sia la politica sia la giustizia. La giustizia ha le sue regole: i reati li fissa il Codice penale, le indagini e i processi li regola il Codice di procedura, le indagini, i rinvii a giudizio e le sentenze li decidono i magistrati in base alle prove che è o non è riuscita a raccogliere la polizia giudiziaria, nei tempi biblici previsti dal nostro farraginoso sistema. La politica ha, o dovrebbe avere, le proprie regole che si basano, o dovrebbero basarsi, sui fatti e seguire logiche e tempi del tutto diversi. I fatti possono emergere da cronache giornalistiche, da denunce politiche, da indagini o sentenze giudiziarie, o da mille altre fonti: quando sono assodati, o almeno plausibili, e un partito li ritiene gravi e incompatibili col proprio Codice etico, può decidere di espellere, dimissionare o sfiduciare il dirigente o rappresentante che li ha (o è sospettato di averli) commessi.
Quali fatti erano addebitati a Marino? Aver messo in conto al Comune 56 cene spacciate per “istituzionali”, ma in realtà private, per 20 mila e rotti euro. La notizia emerse dagli uffici comunali, nella feroce faida fra Marino e i suoi oppositori interni al Pd. E venne a conoscenza del Fatto, che diede per primo la notizia, e delle opposizioni, fra cui i 5Stelle che la cavalcarono. Marino fu indagato dalla Procura, rifiutò di dimettersi e il Pd lo sfiduciò a viva forza con una raccolta di firme fra i consiglieri indetta dal commissario Orfini nello studio di un notaio. Senza neppure un dibattito e un voto di sfiducia in Consiglio comunale. In tribunale Marino fu assolto e in appello condannato a 2 anni. Ma sia le motivazioni dell’assoluzione sia quelle della condanna davano per assodato il fatto: cioè le cene a spese dei contribuenti. Il Tribunale lo assolse per mancanza di dolo, ritenendo che Marino avesse fatto pasticci con la carta di credito comunale a causa della gestione approssimativa della sua segretaria, che gli rimborsò quelle spese private a sua insaputa. La Corte d’appello invece ritenne che Marino lo sapesse, dunque che la sua condotta fosse dolosa. Ora la Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna perché “il fatto non sussiste” (il “fatto” è la condotta contestata come illecita dall’accusa).
Il che, assodate le 56 cene a spese del Comune, può significare due cose soltanto: o non è provato il dolo di Marino, oppure cenare con moglie e/o amici a spese dei cittadini per importi dell’ordine di 20 mila euro non integra i reati di falso e peculato. Lo scopriremo dalle motivazioni. 
E dal processo parallelo a un’ex collaboratrice di Marino, che giurò di essere a cena con lui (mentre lui era con la moglie) ed è stata rinviata a giudizio per falsa testimonianza; e all’ex segretaria che gestì il pastrocchio delle note spese ed è a giudizio per falso. Ma è già imprudente la dichiarazione di Marino che, dolendosi comprensibilmente per essere stato cacciato da “sindaco eletto”, aggiunge: “Ripeto a testa alta che non ho mai utilizzato denaro pubblico per finalità private”: e allora perché restituì 20 mila euro al Comune a scandalo scoppiato? Imprudente anche la rivendicazione della sua “giunta impegnata a portare la legalità nella Capitale”: dimentica il suo vicesindaco e altri membri della maggioranza indagati o arrestati per Mafia Capitale. Imprudentissimo poi Zingaretti, che deduce dal dispositivo della Cassazione “la correttezza di Marino”: non tutto ciò che è penalmente irrilevante è eticamente e politicamente commendevole. Rischiano di aver ragione, a loro insaputa s’intende, Matteo Renzi e Matteo Orfini, quando rivendicano la sfiducia a Marino. Dice Renzi: “La vicenda degli scontrini è stata una violenta campagna di fango del M5S. Ma le dimissioni di 26 consiglieri Pd e il decadimento (sic, ndr) di Marino non avevano niente a che fare coi problemi giudiziari o con gli scontrini. Nel 2015 la scelta del Pd romano (sic, ndr) fu totalmente figlia di valutazioni amministrative legate al governo di Roma. Decisione politica, non guerriglia giudiziaria”. Dice Orfini: “Non devo scusarmi perché quella scelta l’ho assunta spiegando fin dall’inizio che non era legata all’inchiesta. Marino non era adeguato a quel ruolo, stava amministrando male Roma, la città era un disastro”.
Ma i due Matteo, parlandone da vivi, potrebbero dirlo solo se il Pd fosse uso rovesciare le sue svariate giunte comunali e regionali mal governate, anche molto peggio di quella di Marino: invece risulta averlo fatto solo quella volta, guardacaso prendendo a pretesto l’indagine prima giornalistica e politica (i 5Stelle fecero nient’altro che il proprio mestiere di oppositori), poi giudiziaria sulle cene a sbafo. Che, in un partito intransigente, avrebbe potuto bastare e avanzare, infatti all’estero ci si dimette anche per molto meno. Invece apparve subito come un pretesto ridicolo, ad Marinum, per un partito che teneva al governo noti indagati come De Filippo, Castiglione, Vicari, poi Lotti ecc.; che candidava, teneva e tuttora tiene in piedi un governatore plurimputato come De Luca; che si è appena alleato in Basilicata col suo ex governatore arrestato Pittella; e in Calabria ancora sostiene la giunta del governatore inquisito Oliverio. Ma c’è sempre una prima volta: ora Zingaretti potrebbe fissare un Codice etico valido per tutti e poi, tanto per cambiare un po’, applicarlo a tutti.

Chi diavolo ha fatto fuori Di Battista? - Rosanna Spadini




Non riesco a capire… spero non sia stato Luigi Di Maio, perché infastidito dalle proteste di Dibba contro l’appiattimento troppo servile nei confronti della Lega, vedi salvataggio per il processo farsa di Salvini che si sarebbe risolto in una strabiliante fuffa. Vedi continue critiche a certe linee di governo che tradivano l’identità originaria del MoV, perché né destra né sinistra non vuol dire dare un colpo al cerchio e uno alla botte in maniera indifferenziata, ma riuscire a bypassare le ideologie, intese come camicie di forza che impediscono di scegliere secondo ragione e buon senso.
Lo aveva detto proprio il vecchio Casaleggio: “Un’idea non è né di destra, né di sinistra, ma è buona o cattiva”. E finora lo slogan identitario era stato rispettato, al contrario di quanto è avvenuto al governo Salvimaio, che ha spesso trascurato lealtà e onestà nei confronti dei suoi elettori.
Di Battista è sparito? Sta facendo un corso di falegnameria che lo attizza parecchio? Sta partendo per l’India? Perché non è presente alla kermesse di Ivrea? Perché non sarà presente alla prossima campagna elettorale per le Europee?
Molte sono le domande che si fanno attivisti ed elettori, ma certo non credono alle sue dichiarazioni, circa il desiderio di mettersi a girovagare per il terzo mondo, inviando ficherrimi reportage al Fatto Quotidiano, sulle sue esperienze antropologico culturali, come fosse un novello Ulisse spinto dalla sete di conoscenza.
Forse però la scomparsa di Di Battista è un segnale molto più diretto e meno enigmatico di quanto possa sembrare, che riguarda la crisi interna e identitaria che sta vivendo il M5S. una forza politica che perde sistematicamente le battaglie amministrative, incapace di mettere radici sul territorio, dominato com’è da un anarchismo strutturale endemico, che genera automaticamente correnti antitetiche in continuo conflitto tra di loro per la conquista di un posto al sole, faide interne concepite soltanto al fine di screditare gli amici/avversari, e per far emergere unicamente i propri paladini.
Se l’anarchismo metodologico aveva favorito la nascita del MoV, e permesso di reclutare velocemente una classe dirigente autogeneratasi per palingenesi spontanea, tratta direttamente dalla società civile, ora sta impedendo il radicamento sul territorio, la vittoria in molte elezioni amministrative e il reclutamento di soggetti capaci in grado di affrontare le sfide politico sociali del presente e del futuro.
Nel tempo l’anarchismo endemico ha provocato la nascita di numerosi feudi territoriali dal forte potere gestionale, probabilmente sfuggiti al monitoraggio dei vertici, che pilotano direttamente le candidature, organizzando pacchetti di voti da destinare ai loro epigoni servili, spesso degli emeriti incapaci, che una volta arrivati a ricoprire qualche carica, o rimarranno legati da vincoli indissolubili ai loro feudatari (in cambio di che?), oppure alla prima occasione passeranno al gruppo misto, tradendo il mandato elettorale e i loro elettori.
Forse per questo Di Battista se n’è andato in India… forse non è riuscito a salvaguardare l’identità del MoV, la sua carica rivoluzionaria, i suoi valori tipici quali onestà, trasparenza, democrazia diretta. Vero che governare significa fare scelte, quindi dividere l’elettorato, però molte sono state le delusioni: Tap, vaccini, scuola, Ilva, salvataggio giudiziario di Salvini, Tav (??).
Nel caso del salvataggio di Salvini la scelta del MoV in quel caso fu assolutamente sbagliata e suicida, i 5 Stelle in quell’occasione tradirono i propri valori e dannarono se stessi. È bastato un anno di governo perché il virus del maschio Alfa strozzasse in fieri la rivoluzione.
Infatti se il MoV avesse veramente voluto cambiare le cose, avrebbe dovuto agire diversamente, senza doversi zerbinare in tante occasioni ai ricatti leghisti, molte vicende in cui all’opinione pubblica è sembrato che a decidere la linea del governo fossero stati i capricci dell’alleato/rivale, più che una vera sintonia esecutiva.
Una vera rivoluzione non dovrebbe essere strozzata sul nascere da pentimenti, rimorsi, rammarichi su quello che si sta facendo, ma l’esatto contrario e cioè dovrebbe essere una continua riaffermazione delle strategie poste in atto e una continua sfida verso le competizioni future.
La rivoluzione 5 Stelle voleva dare risposte a domanda di senso e di prospettiva, cercava di reagire alle ingiustizie e alle diseguaglianze. Ma la famosa “rivoluzione culturale” di cui parlava Grillo in realtà non è mai iniziata, basti solo pensare al fanatismo da parte del MoV nei riguardi della profilazione del candidato simbolo, che deve essere necessariamente giovane, non importa se colto/a, ma sempre un assiduo frequentatore del web, generatore indefesso di post di propaganda, sorriso accattivante e simpatico, abile collezionista di consensi, come fosse il ball boy di una partita di tennis.
Come per i “frati cercatori” di un tempo, che svolgevano l’umile mansione di reperire risorse presso il popolo, gli attivisti e portavoce dei 5 Stelle sono investiti dell’incarico di raccattare voti presso il popolo del web, umili yesmen assolutamente prostrati al volere dei loro capibastone di riferimento, che dettano loro programmi ed eventi da svolgere. I contestatori sono merce da scartare nel meraviglioso e libero mondo del MoV, gli eretici sono roba da bruciare sul rogo perché considerati avversi all’unico vero credo ammissibile, deciso sempre e comunque dai vertici, non certo dalla base, che serve come paravento democratico.
L’unico verbo dei 5 Stelle deve essere la rinuncia alla critica, la completa umiltà, l’obbedienza  volontaria, la pace interiore e l’assoluta fede nello spirito del MoV. Deve essere l’esclusiva e acritica sottomissione all’unica fede politica, una sorta di fanatismo ideologico spesso causa d’intolleranza, e di violenza verbale nei confronti di chi ne professa una diversa.
Il MoV è una tecnocrazia applicata alla politica, le votazioni raccolte su Rousseau, spesso attraverso cordate preconfezionate, scandiscono le tappe elettive, favoriscono il clientelismo più malsano, premiando così figure opache, afone, inespressive e ambigue, cioè l’esatto contrario della meritocrazia tanto proclamata.
Ironia della sorte l’umorismo di Grillo, che avrebbe dovuto rappresentare l’antidoto contro ogni forma di fanatismo, non è servito a salvaguardare la verginità della rivoluzione e ha dovuto cedere di fronte ai vizi della politica: arrivismo, superficialità, clientelismo, arroganza, ottusità, autoreferenzialità.
Dibba a questo punto è sparito, non si conoscono i veri motivi, ma si possono intuire. La sua partenza è stata probabilmente provocata da uno scontro interno tra le diverse anime del MoV, i cui vertici non sono stati in gradi di scongiurare.
Il primo segnale di impazzimento è stata proprio la sua scomparsa dalla scena politica, dopo l’exploit a Parigi presso i Gilets Jaunes che avevano fatto lui e Di Maio a febbraio, e dove era apparso marcato a vista e impedito nei movimenti. Però il tentativo di arginare la perdita di punti nei sondaggi non era riuscito, e l’evento aveva rilevato una spaccatura interna tra i due non ancora irrecuperabile, ma certamente evidente.
Nella gestione di governo i 5 Stelle hanno perso troppo tempo a impedire che le numerose “manine” dell’alleato potessero taroccare l’iter delle leggi da approvare, si sono lasciati anche logorare da un partner/avversario che ha cercato quotidianamente di drenare voti dal loro elettorato al suo, e che in parte c’è riuscito alla grande.  Insomma la maionese richiede diversi ingredienti dosati con precisione, va amalgamata e montata al punto giusto, diversamente impazzisce.
Ora il M5S senza Di Battista è come una Ferrari che non riesce a superare i 100 km orari, questo sembrano dire i sondaggi nel momento in cui c’è ancora molta strada da compiere per l’esecutivo. La legislatura ora dovrà proseguire continuando ad affrontare le prossime sfide: europee, flat tax, def. Ma la partita si fa sempre più difficile e la mancanza di Dibba pesa ogni giorno di più.
In parole povere chi li ha votati comincia a nutrire dei dubbi sulla validità della scelta espressa circa un anno fa, magari temendo di aver puntato sulla squadra sbagliata. I vertici hanno compiuto indubbiamente degli errori strategici, ma il ripristino delle posizioni perse non può avvenire senza un’autocritica seria e costruttiva, che al contrario pare essere stata per il momento scartata.
Non bastano migliaia di likes su Facebook e sorrisi smaglianti stampati in faccia per arginare l’inadeguatezza di certe strategie improvvisate, o dettate da scarse conoscenze storico politiche. Occorrerebbe molta più saggezza, che non può che derivare da sapienza e cultura.
Ed escludere dalla battaglia quotidiana un soggetto così fondamentale come Di Battista, dimostra carenza di quell’ingegno strategico, che non si trova tra gli spot di propaganda.
Dibba per il momento se n’è andato, non voglio pensare che sia stata l’arroganza del potere ad escluderlo, ma indubbiamente è sparito dalla scena politica. Forse dalle lontane radure indiane ripenserà alla verità di quel motto famoso espresso proprio da un vecchio arnese in odore di mafia, che lui si era proposto di combattere: “Il potere logora chi non ce l’ha”.
Oppure si siederà sulle rive del Gange aspettando il passaggio del cadavere di qualche suo nemico.

mercoledì 10 aprile 2019

Buco nero, oggi vedremo la prima immagine della storia. - Matteo Marini

Buco nero, oggi vedremo la prima immagine della storia

Alle 15 sei conferenze stampa internazionali mostreranno “la foto del secolo” tenuta finora segretissima. Ci si attende di vedere la linea dell’orizzonte degli eventi, la distorsione dello spaziotempo e testare, per la prima volta, la Relatività generale di Einstein in un laboratorio di fisica così estremo. All’osservazione hanno partecipato otto radiotelescopi di tutto il mondo.

OGGI finalmente vedremo “la foto del secolo” la prima immagine di un buco nero, qualcosa di invisibile per definizione, qualcosa che, fino a pochi decenni fa, anche parte della comunità scientifica non era convinta che esistesse. Fotografarla, o meglio, catturare la sua “ombra” è stata l’impresa portata a termine grazie a un grande sforzo internazionale. L’immagine è stata tenuta segretissima per i lunghi mesi serviti a elaborare i dati e a validare i risultati: fino alla sua presentazione, che avverrà oggi alle 15 in sei conferenze stampa internazionali. Evento che si potrà seguire anche in diretta streaming su Repubblica.it e sul canale dell’Unione europea.

Non è ancora chiaro quale sarà il “soggetto”: se il buco nero al centro della Via Lattea, Sagittarius A, oppure il quasar al centro della galassia M87, a circa 60 milioni di anni luce, un mostro massiccio quanto miliardi di soli.


La foto è stata ‘sviluppata’ grazie all’osservazione simultanea di otto radiotelescopi in tutto il globo del progetto Event Horizon Telescope (Eht), che ha visto coinvolti una sessantina di istituti scientifici nel mondo, tra cui anche l’Istituto nazionale di Astrofisica. Ben sei articoli scientifici usciranno in un numero speciale di The Astrophysical Journal Letters.


L’orizzonte degli eventi e Einstein.
Le aspettative sono altissime. È il sogno di ogni astrofisico, appassionato, o semplicemente amante del cinema di fantascienza. Quello di vedere finalmente il ‘confine’ dello spazio e del tempo, la linea dell’orizzonte degli eventi oltre la quale c’è solo il buio, tutto sparisce, inghiottito da una forza gravitazionale irresistibile, anche la luce. A emettere luce saranno, probabilmente, solo i gas che lo circondano, che si accendono proprio a causa della grandissima attrazione gravitazionale. Ma forse la risposta più attesa sarà quella sulla teoria della Relatività generale di Einstein. Osservare cioè come, un oggetto così massiccio, deforma lo spaziotempo attorno a sé, piega la luce di tutto ciò che lo circonda e l’immagine di quello che sta sullo sfondo. La Relatività finora è riuscita a spiegare tutto quello che vediamo accadere nell’Universo, ma non è mai stata testata in un ‘laboratorio’ così estremo. Trovare delle ‘crepe’ potrebbe significare dover cercare nuove formule, una nuova fisica, superando l’eredità di Einstein che ha retto per più di un secolo.

Un telescopio grande come la Terra. Otto radiotelescopi, situati a migliaia di chilometri l’uno dall’altro, dalle Ande cilene alle Hawaii, dal Messico alla Spagna, dagli Usa all’Antartide, hanno puntano contemporaneamente verso lo stesso angolo di cosmo. Tutte insieme è come se formassero un’unica, gigantesca, parabola, grande quasi come l’intero pianeta Terra. La tecnica usata è quella detta della “interferometria a lunghissima base”. I diversi radiotelescopi sono sincronizzati con un orologio atomico e i dati ottenuti da ognuno sono stati combinati attraverso algoritmi che gli scienziati hanno impiegato anni a sviluppare e poi a far girare. La risoluzione angolare stimata è di 20 secondi d'arco, come vedere una pallina da tennis sulla Luna.

Petabyte di dati. Ogni telescopio ha raccolto migliaia di Terabyte di dati, troppo pesanti per essere spediti via Internet. Gli hard disk hanno viaggiato in aereo verso i due centri di calcolo dove si trovano i supercomputer: all’Haystack Observatory del Mit, nel Massachusetts, e l’altro al Max Planck Institut fur Radioastronomie, a Bonn. A due anni dall’osservazione, che è durata in totale appena una decina di giorni, i ricercatori sono riusciti a mettere insieme tutti i tasselli e a comporre la foto scattata non con luce visibile, ma usando le frequenze delle onde radio. Quelle che più facilmente riescono a eludere la cortina di gas che circonda la galassia e ad arrivare fino a noi.

https://www.repubblica.it/scienze/2019/04/10/news/oggi_vedremo_la_prima_immagine_di_un_buco_nero-223681743/

Tumore via in un secondo con il fascio di elettroni: l'eccezionale scoperta di un fisico pugliese.

Cellule tumorali

Grazie all’utilizzo di fasci di elettroni generati via laser sarà possibile bruciare alcuni tumori in un secondo: è quanto scoperto da uno scienziato barese, Gabriele Grittani, che lavora nel centro di ricerca Eli-Beamlines di Dolni Brezany, a pochi chilometri da Praga. Grittani, giovane fisico nucleare, ha brevettato il nuovo sistema che promette maggiore efficacia nella lotta al cancro, in particolare nella cura alle neoplasie al polmone e alla prostata.

«È in corso – spiega Grittani – la realizzazione di un prototipo indispensabile per avviare la fase sperimentale di una radioterapia che rappresenta una svolta storica nel campo dei tumori. I vantaggi di tale scoperta sono molteplici.  Gli elettroni sono più veloci e leggeri rispetto ai protoni oggi utilizzati. Pertanto, una terapia basata sugli elettroni è sicuramente più rapida, è meno invasiva e più economica. Inoltre, grazie alla tecnologia laser, il macchinario consente il monitoraggio in tempo reale della posizione del tumore, il quale comporta un controllo maggiore sulla terapia del paziente». Grittani, barese di nascita, si è laureato a Pisa, poi si è trasferito a Praga per un dottorato di ricerca e oggi lavora nel centro di ricerca occupandosi di sviluppare nuove tecnologie basate sul laserplasma.


https://www.quotidianodipuglia.it/attualita/bruciare_il_tumore_in_un_secondo_l_eccezionale_scoperta_di_un_pugliese-4418449.html?fbclid=IwAR1mFjCt1xYaAJOu95pMMpzG2DAGLkm1gHUw7KJjPd_kQIJtH4zyoTtaeaU

martedì 9 aprile 2019

Lobby continua. - Milena Gabanelli e Luigi Offeddu



Bruxelles supera Washington e si consacra capitale mondiale del lobbismo: sono 11.801 i gruppi di pressione elencati nel Registro della Trasparenza istituito dalla Commissione Europea.

A Bruxelles si fanno le leggi che riguardano 508 milioni di cittadini, e le lobby lavorano perché non contrastino gli interessi di imprese e associazioni che rappresentano: industrie, aziende private, grandi studi legali, ma anche sindacati, ong, associazioni di consumatori.

Ai primi posti nella classifica ci sono il Cefic o Consiglio delle industrie chimiche europee (12 milioni di euro di spese minime dichiarate nel 2018), Google (6 milioni nel 2017), Microsoft (5 milioni), BusinessEurope (la Confindustria europea, 4 milioni). C’ è anche Huawei, il colosso cinese della telefonia, 2.190.000 di costi dichiarati nel 2017.

Fra i singoli Paesi, l’ Italia, con 841 lobby, è al quinto posto dopo il Belgio (dove ovviamente si registrano molti gruppi stranieri), la Germania, la Gran Bretagna, la Francia. Fra le principali, per costi minimi dichiarati, troviamo: Altroconsumo (5 milioni di euro), Enel (2 milioni), Eni (1.250.000), Confindustria (900.000). Tutti insieme, i quasi dodicimila gruppi di pressione di Bruxelles spendono circa 1,5 miliardi all’ anno. A che cosa servono? A mantenere uffici e personale, a fare convegni e campagne d’ opinione in diversi Paesi. O a comprare voti, leggi e figure delle istituzioni, questo è il dubbio spesso evocato.

Il lavoro del lobbista è quello di contattare commissari ed eurodeputati trasmettendo loro idee per emendare questa o quella norma. Commissari e deputati, a loro volta, hanno bisogno di confrontarsi per sapere quanto e come incidono le direttive nei vari settori dell’ impresa e della società. Un’ attività legale quindi, purché avvenga alla luce del sole. Infatti ci sono delle transenne: se vuoi incontrare un commissario europeo, per esempio, devi essere iscritto nel Registro della Trasparenza.
Ma il problema dei controlli resta: «Mentre la Commissione obbliga i lobbysti a registrarsi prima che qualsiasi incontro possa aver luogo – spiega Raphael Kergueno, del sito Integrity Watch legato a Transparency International – esercitare il lobbysmo con gli eurodeputati e i delegati nazionali al Consiglio resta invece un’ attività largamente non regolata. Solo quando il registro coprirà tutte e tre le istituzioni potremo verificare i comportamenti di coloro che a Bruxelles prendono le decisioni politiche».
Ci sono tanti modi per fare lobbysmo, e a Bruxelles bisogna esserci, altrimenti ci sono solo gli «altri». L’ Ong Altroconsumo ha scritto nel 2018 agli eurodeputati italiani, chiedendo loro alcuni emendamenti a una proposta di direttiva sulle vendite a distanza.
Si voleva che anche ai beni digitali fossero estese ampie garanzie contro i difetti di funzionamento, e così è stato. Sempre Altroconsumo ha influenzato le direttive Ue contro l’ impiego degli antibiotici negli allevamenti intensivi. Slow Food ha fatto sentire la sua voce nelle direttive sugli Ogm. Altroconsumo dichiara di essere finanziata al 98,08 % da quote e abbonamenti degli associati.
Slow Food, costi minimi di 800.000 euro per il 2017, riceve sovvenzioni Ue per 730.285 euro e un contributo di 816.331 euro degli aderenti.

Il lobbysmo delle imprese è più aggressivo.
Di norma, ogni proposta di legge raccoglie in Parlamento 50-100 emendamenti, ma a volte sono molti di più, e in questi casi possono infilarsi quelli proposti – o scritti direttamente – dai lobbysti, e ricopiati pari pari dai deputati. Quando si discusse l’ ultima riforma della politica agricola, gli emendamenti furono 8.000. Per la direttiva che avrebbe dovuto regolare meglio gli «hedge fund», i fondi di investimento a rischio, ne piovvero 1.600: secondo fonti ufficiose, metà erano stati scritti direttamente dai lobbysti della finanza.
Anno 2013, direttiva sulla protezione dei dati personali firmata dalla commissaria Ue Viviane Reding, che parlerà poi di «lobbying feroce». Un esempio, l’ articolo 35 del testo originale della direttiva dice: «Il controllore e il processore (di certi dati personali, ndr ) devono designare un responsabile della protezione…». La lobby della Camera di Commercio americana chiede che al «devono» si sostituisca un più morbido «possono». Il deputato conservatore inglese Sjjad Karim rilancia: nel suo emendamento, accolto, si legge «dovrebbero». La differenza fra «dovrebbero» e «devono» non è banale: sparisce l’ obbligo tassativo.

L’ ultima guerra fra le lobby è scoppiata intorno alla direttiva sul copyright, appena approvata dall’ Europarlamento. Da una parte Google e gli altri giganti dell’ high tech, dall’ altra musicisti, editori, giornalisti, e le società che raccolgono i loro diritti d’ autore, schierate contro il «no» allo sfruttamento gratuito sul Web di opere che hanno diritto a un copyright.
Dal novembre 2014 agli inizi del 2019 si sono avuti 765 incontri fra lobbysti e Commissione, nei cui verbali compare la parola «copyright». Google ha avuto tre incontri al mese per tutto il 2018 con i vertici della Commissione (e le associazioni per i diritti d’ autore ancora di più). In estate, i deputati Verdi sono stati bombardati da tremila email pro o contro le nuove norme. Virginie Roziere, deputata favorevole, ne ha ricevute 400 mila, tutte contrarie. Alla fine la direttiva ha disposto che i giganti dell’ high-tech (nonostante le pesantissime pressioni) ora debbano chiedere le autorizzazioni, pagare autori ed editori, e intervenire sulle violazioni dei diritti.

Un’ altra guerra è stata quella accesa dalle norme sulla plastica monouso. Il Cefic, l’ ombrello delle industrie chimiche (oggi schierato contro la plastica), nel 2010 dichiara sei milioni di costi di lobbying, che nel 2018 diventano 12. Nel frattempo, dal dicembre 2014 al febbraio 2019, ottiene 80 incontri con la Commissione Europea, più o meno uno ogni 23 giorni. Significa che questa è una lobby influente, ascoltata. Poi c’ è il pianeta di «Big Pharma». Secondo un rapporto del 2015, le lobby dei farmaci spendono tutte insieme 40 milioni di euro. Questi investimenti riguarderebbero anche le decisioni sui diritti di proprietà, o i delicati test sui farmaci.

Altro settore «caldo» è quello dell’ automobile. Le spese delle sue lobby a Bruxelles sono passate dai 7,6 milioni di euro del 2011 ai 20,2 milioni nel 2014. Indizio per azzardare un perché: nel 2013 si discutevano le norme Ue sulle emissioni di Co2 delle auto, nel 2014 quelle sull’ ossido d’ azoto.
L’ attività delle lobby è per sua natura opaca, e il panorama non è sempre tutto bianco o tutto nero. A volte è proprio nero. Novembre 2010-marzo 2011, due giornalisti del Sunday Times con telecamera nascosta si presentano come lobbysti a Ernst Strasser, capogruppo del partito popolare austriaco: «Vorremmo cambiare una direttiva, ci aiuta?». Lui accetta, loro pubblicano tutto. Strasser finirà in carcere per corruzione. 
Come l’ eurodeputato sloveno Zoran Thaler e il romeno Adrian Severin, incastrati dalla stessa telecamera. Stessa disponibilità: 100.000 euro a colpo.
Un anno dopo, ottobre 2012, il commissario Ue alla Salute, il maltese John Dalli, viene cacciato per i suoi legami con un lobbista del tabacco. Per aggiustare una direttiva Ue c’ erano in ballo 60 milioni.

https://infosannio.wordpress.com/2019/04/08/lobby-continua-2/?fbclid=IwAR2zpbq3SkCftGqRE3JIdpUD-s1xIY29G3OqUHotT7pV8sMIZ-52i7DtYKQ

Milano, per Metropolitana autonoleggio d’oro: paga 70 Panda come fossero suv. “Abbiamo già modificato il contratto”. - Thomas Mackinson

Milano, per Metropolitana autonoleggio d’oro: paga 70 Panda come fossero suv. “Abbiamo già modificato il contratto”

La municipalizzata milanese ha noleggiato un centinaio di Fiat 1.200 di cilindrata per 84 mesi, vale a dire sette anni, a 535,68 euro. Al termine del contratto ognuna sarà costata quasi 50mila euro. "Ipotesi di danno erariale da due milioni", denuncia con un'interrogazione il consigliere Fabrizio De Pasquale (FI). La società risponderà entro il 23 aprile, ma fa sapere di aver rivisto le tariffe a gennaio. 


Milano una controllata municipale riesce nell’impresa di noleggiare 70 Panda al costo di un suv e forse più. Si tratta di Metropolitana Milanese Spa (MM), società di ingegneria che serve il capoluogo nel trasporto, nella gestione del patrimonio immobiliare e nel servizio idrico con un migliaio di dipendenti. A fare le pulci al suo parco auto è il consigliere comunale di Forza Italia, Fabrizio De Pasquale, che ha presentato un’interrogazione agli uffici di Piazza Scala ipotizzando un danno erariale vicino ai due milioni di euro. MMspa, in sostanza, avrebbe noleggiato un centinaio di Fiat Panda 1.200 di cilindrata per 84 mesi, vale a dire sette anni, a 535,68 euro. La Panda, a fine vita, verrebbe così a costare 45mila euro quando sul mercato te la danno a 15mila “chiavi in mano”. Per De Pasquale quella tariffa tutto sarebbe fuorché un “affare”, atteso che Consip – la centrale unica per gli acquisti della Pa – riporta per analoghi modelli condizioni e prezzi decisamente più convenienti, inferiori anche alla metà rispetto al prezzo praticato per le Punto a nolo di MM.
La controllata MM sta lavorando per rispondere agli uffici per le partecipate del Comune e da qui al consigliere, ma a Libero ha già risposto che contratto e tariffe in questione sono stati rivisti a gennaio di quest’anno “allineando la fornitura ai prezzi di mercato”. Dichiarazione che suona come un’implicita ammissione, anche se MM fornirà una più articolata ed esaustiva risposta al suo azionista entro una decina di giorni ancora.
Dal canto suo, Consip – interpellata dal Fattoquotidiano.it – precisa che gli enti locali, diversamente delle amministrazioni statali, non hanno l’obbligo di utilizzare le convenzioni attivate dalla centrale acquisti. Qualora però decidano di rivolgersi al mercato libero (teoricamente) sono tenuti a optare per beni/servizi di costo inferiore al prezzo-parametro individuato da Consip a seguito di una gara. Qualora optino poi per servizi e beni diversi e più cari, devono giustificare questa scelta specificando perché quelli proposti dalla centrale non soddisfano per caratteristiche le esigenze dell’ente. La Corte dei Conti infatti potrebbe decidere di vederci meglio e intervenire contestando la decisione.
Nell’interrogazione il consigliere chiede poi conto delle modalità di esecuzione della gara e dei successivi rinnovi. Spostando le lancette all’inizio della storia si va al 9 gennaio 2015, quando MM indice la gara per il noleggio a lungo termine per 84 mesi con termine per le offerte in data 23 febbraio. L’appalto viene aggiudicato all’unica concorrente, la Arval Service Lease Italia Spa per quasi sei milioni (5.990.796,00). In realtà Arval era già fornitore della controllata dal 2008 grazie a un appalto di 48 mesi poi prorogato di 28 mesi, “nonostante il capitolato prevedesse un massimo di 6 mesi” e sei ulteriori di proroga tecnica. Nel 2015 viene indetta la nuova gara ma si presenta ancora e solo Arval che ottiene di fatto la commessa per oltre 10 anni.
De Pasquale ritiene che possa ave inciso la “breve durata concessa per la presentazione dell’offerta” pari a 45 giorni, tra il 9 gennaio e il 23 febbraio 2015. Nell’appalto sono state noleggiate con ARVAL 45 Fiat Panda 1200 di cilindrata a benzina al canone mensile di 535,58, 38 Opel Combo 1300 diesel con canone mensile a seconda dell’allestimento che varia da 518,50 a  574,62 euro (Panda e Combo hanno una percorrenza annua compresa di 8000 km), mentre per furgoni più grossi i canoni come il Fiat Ducato 595,42 o per gli Opel Movano da 728,35.
Prezzi alti, altissimi, visto che nel 2017 MM – attraverso Consip con fornitore Lease Plan Spa – noleggia una trentina di Fiat Panda 1200 al canone mensile di 223,748 euro (con percorrenza di 15000 chilometri annui) e una Opel Mokka 1600 diesel 4×4 al canone mensile di € 336,964 e una durata contrattuale di 48 mesi. Ragion per cui De Pasquale parla di ipotesi si danno erariale per i canoni sopra riportati. “In sintesi una Panda 1200 benzina costa in 7 anni di noleggio 44.988,72 euro con una percorrenza annua di solo 8000 km, mentre adottando la proposta Consip i canoni sarebbero stati inferiori del 60% circa e avrebbero avuto una percorrenza annua quasi doppia, cioè di 15000 chilometri. Questa abnorme differenza applicata a ben 72 veicoli, avrebbe procurato un danno erariale per i 7 anni di quasi 1.900.000”. Ad MM tocca ora la risposta.