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martedì 9 aprile 2019

Lobby continua. - Milena Gabanelli e Luigi Offeddu



Bruxelles supera Washington e si consacra capitale mondiale del lobbismo: sono 11.801 i gruppi di pressione elencati nel Registro della Trasparenza istituito dalla Commissione Europea.

A Bruxelles si fanno le leggi che riguardano 508 milioni di cittadini, e le lobby lavorano perché non contrastino gli interessi di imprese e associazioni che rappresentano: industrie, aziende private, grandi studi legali, ma anche sindacati, ong, associazioni di consumatori.

Ai primi posti nella classifica ci sono il Cefic o Consiglio delle industrie chimiche europee (12 milioni di euro di spese minime dichiarate nel 2018), Google (6 milioni nel 2017), Microsoft (5 milioni), BusinessEurope (la Confindustria europea, 4 milioni). C’ è anche Huawei, il colosso cinese della telefonia, 2.190.000 di costi dichiarati nel 2017.

Fra i singoli Paesi, l’ Italia, con 841 lobby, è al quinto posto dopo il Belgio (dove ovviamente si registrano molti gruppi stranieri), la Germania, la Gran Bretagna, la Francia. Fra le principali, per costi minimi dichiarati, troviamo: Altroconsumo (5 milioni di euro), Enel (2 milioni), Eni (1.250.000), Confindustria (900.000). Tutti insieme, i quasi dodicimila gruppi di pressione di Bruxelles spendono circa 1,5 miliardi all’ anno. A che cosa servono? A mantenere uffici e personale, a fare convegni e campagne d’ opinione in diversi Paesi. O a comprare voti, leggi e figure delle istituzioni, questo è il dubbio spesso evocato.

Il lavoro del lobbista è quello di contattare commissari ed eurodeputati trasmettendo loro idee per emendare questa o quella norma. Commissari e deputati, a loro volta, hanno bisogno di confrontarsi per sapere quanto e come incidono le direttive nei vari settori dell’ impresa e della società. Un’ attività legale quindi, purché avvenga alla luce del sole. Infatti ci sono delle transenne: se vuoi incontrare un commissario europeo, per esempio, devi essere iscritto nel Registro della Trasparenza.
Ma il problema dei controlli resta: «Mentre la Commissione obbliga i lobbysti a registrarsi prima che qualsiasi incontro possa aver luogo – spiega Raphael Kergueno, del sito Integrity Watch legato a Transparency International – esercitare il lobbysmo con gli eurodeputati e i delegati nazionali al Consiglio resta invece un’ attività largamente non regolata. Solo quando il registro coprirà tutte e tre le istituzioni potremo verificare i comportamenti di coloro che a Bruxelles prendono le decisioni politiche».
Ci sono tanti modi per fare lobbysmo, e a Bruxelles bisogna esserci, altrimenti ci sono solo gli «altri». L’ Ong Altroconsumo ha scritto nel 2018 agli eurodeputati italiani, chiedendo loro alcuni emendamenti a una proposta di direttiva sulle vendite a distanza.
Si voleva che anche ai beni digitali fossero estese ampie garanzie contro i difetti di funzionamento, e così è stato. Sempre Altroconsumo ha influenzato le direttive Ue contro l’ impiego degli antibiotici negli allevamenti intensivi. Slow Food ha fatto sentire la sua voce nelle direttive sugli Ogm. Altroconsumo dichiara di essere finanziata al 98,08 % da quote e abbonamenti degli associati.
Slow Food, costi minimi di 800.000 euro per il 2017, riceve sovvenzioni Ue per 730.285 euro e un contributo di 816.331 euro degli aderenti.

Il lobbysmo delle imprese è più aggressivo.
Di norma, ogni proposta di legge raccoglie in Parlamento 50-100 emendamenti, ma a volte sono molti di più, e in questi casi possono infilarsi quelli proposti – o scritti direttamente – dai lobbysti, e ricopiati pari pari dai deputati. Quando si discusse l’ ultima riforma della politica agricola, gli emendamenti furono 8.000. Per la direttiva che avrebbe dovuto regolare meglio gli «hedge fund», i fondi di investimento a rischio, ne piovvero 1.600: secondo fonti ufficiose, metà erano stati scritti direttamente dai lobbysti della finanza.
Anno 2013, direttiva sulla protezione dei dati personali firmata dalla commissaria Ue Viviane Reding, che parlerà poi di «lobbying feroce». Un esempio, l’ articolo 35 del testo originale della direttiva dice: «Il controllore e il processore (di certi dati personali, ndr ) devono designare un responsabile della protezione…». La lobby della Camera di Commercio americana chiede che al «devono» si sostituisca un più morbido «possono». Il deputato conservatore inglese Sjjad Karim rilancia: nel suo emendamento, accolto, si legge «dovrebbero». La differenza fra «dovrebbero» e «devono» non è banale: sparisce l’ obbligo tassativo.

L’ ultima guerra fra le lobby è scoppiata intorno alla direttiva sul copyright, appena approvata dall’ Europarlamento. Da una parte Google e gli altri giganti dell’ high tech, dall’ altra musicisti, editori, giornalisti, e le società che raccolgono i loro diritti d’ autore, schierate contro il «no» allo sfruttamento gratuito sul Web di opere che hanno diritto a un copyright.
Dal novembre 2014 agli inizi del 2019 si sono avuti 765 incontri fra lobbysti e Commissione, nei cui verbali compare la parola «copyright». Google ha avuto tre incontri al mese per tutto il 2018 con i vertici della Commissione (e le associazioni per i diritti d’ autore ancora di più). In estate, i deputati Verdi sono stati bombardati da tremila email pro o contro le nuove norme. Virginie Roziere, deputata favorevole, ne ha ricevute 400 mila, tutte contrarie. Alla fine la direttiva ha disposto che i giganti dell’ high-tech (nonostante le pesantissime pressioni) ora debbano chiedere le autorizzazioni, pagare autori ed editori, e intervenire sulle violazioni dei diritti.

Un’ altra guerra è stata quella accesa dalle norme sulla plastica monouso. Il Cefic, l’ ombrello delle industrie chimiche (oggi schierato contro la plastica), nel 2010 dichiara sei milioni di costi di lobbying, che nel 2018 diventano 12. Nel frattempo, dal dicembre 2014 al febbraio 2019, ottiene 80 incontri con la Commissione Europea, più o meno uno ogni 23 giorni. Significa che questa è una lobby influente, ascoltata. Poi c’ è il pianeta di «Big Pharma». Secondo un rapporto del 2015, le lobby dei farmaci spendono tutte insieme 40 milioni di euro. Questi investimenti riguarderebbero anche le decisioni sui diritti di proprietà, o i delicati test sui farmaci.

Altro settore «caldo» è quello dell’ automobile. Le spese delle sue lobby a Bruxelles sono passate dai 7,6 milioni di euro del 2011 ai 20,2 milioni nel 2014. Indizio per azzardare un perché: nel 2013 si discutevano le norme Ue sulle emissioni di Co2 delle auto, nel 2014 quelle sull’ ossido d’ azoto.
L’ attività delle lobby è per sua natura opaca, e il panorama non è sempre tutto bianco o tutto nero. A volte è proprio nero. Novembre 2010-marzo 2011, due giornalisti del Sunday Times con telecamera nascosta si presentano come lobbysti a Ernst Strasser, capogruppo del partito popolare austriaco: «Vorremmo cambiare una direttiva, ci aiuta?». Lui accetta, loro pubblicano tutto. Strasser finirà in carcere per corruzione. 
Come l’ eurodeputato sloveno Zoran Thaler e il romeno Adrian Severin, incastrati dalla stessa telecamera. Stessa disponibilità: 100.000 euro a colpo.
Un anno dopo, ottobre 2012, il commissario Ue alla Salute, il maltese John Dalli, viene cacciato per i suoi legami con un lobbista del tabacco. Per aggiustare una direttiva Ue c’ erano in ballo 60 milioni.

https://infosannio.wordpress.com/2019/04/08/lobby-continua-2/?fbclid=IwAR2zpbq3SkCftGqRE3JIdpUD-s1xIY29G3OqUHotT7pV8sMIZ-52i7DtYKQ

domenica 29 aprile 2018

Sprechi, l’Europa del rigore fa la cattiva maestra: commissari si regalano più soldi e auto blu per 3 anni prima di lasciare. - Thomas Mackinson

Risultati immagini per parlamento europeo

L'indennità da 13.500 euro al mese non bastava, arriva lo scivolo d'oro per la "transizione" alla normalità. E' il regalo che si stanno facendo i 28 commissari della Commissione europea in previsione della fine del loro mandato: una volta cessati, avranno a disposizione per altri 36 mesi auto blu con autisti, uffici presso la Commissione con segretari e personale. Il tutto esentasse. L'iniziativa chiama in causa direttamente Juncker e il nuovo segretario. La presidente tedesca della Commissione Bilancio chiede chiarimenti.

Uno scivolo d’oro per i tre anni di “transizione”, dalla bambagia alla normalità. Stavolta l’Europa dà dei punti al nostro Parlamento. I suoi commissari uscenti, senza troppa pubblicità, hanno infatti deciso di concedere a se stessi un piccolo ma sostanzioso regalo: tra 19 mesi usciranno di scena e ad attenderli, puntuali, troveranno materassi imbottiti d’euro e nuovi irrinunciabili benefit. A loro disposizione, oltre a stipendi da 8-15mila euro al mese per tre anni, potranno usufruire nello stesso periodo anche di auto blu con autista, di un ufficio con personale e segreteria dedicati, il tutto sempre a carico dei contribuenti dell’Unione. Tre anni da nababbi per i 28 ex commissari la cui ragione di fondo – o il cui pretesto, per i critici – riesiederebbe nella volontà di evitare che finiscano al soldo di qualche multinazionale o società di lobby come José Manuel Barroso, l’ex presidente della Commissione (2004-2014) trasferitosi con armi e bagagli alla Goldman Sachs. L’iniziativa, va da sé, solleva vari problemi e altrettanti imbarazzi.

Il primo è che le regole valgono per gli stessi commissari che le devono approvare in palese conflitto di interessi, visto che saranno i primi a sperimentarne i benefici potenzialmente equivalenti anche al triplo di ciò che attualmente ricevono. Non a caso, ed è il secondo elemento della storia, l’iniziativa è passata sotto silenzio. A segnalarla è stato un quotidiano tedesco, non atti ufficiali, non comunicazioni interne, nulla di nulla. Il 18 aprile scorso la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha pubblicato un articolo che dava conto dei benefit citando alcuni punti del trattamento allo studio. Da lì è partita anche la corsa a codificare politicamente la mossa. Da più parti viene attribuita infatti allo stesso presidente Jean Claude Junker e alla sua volontà di far quadrato attorno alla nomina (a sorpresa e indigesta a molti) a segretario generale della Commissione del suo capo di capo di gabinetto, il potente Martin Selmayr. La lettura malevola suggerisce che l’elargizione sia un viatico per rabbonire gli animi dei commissari contrari a tale scelta: perché rischiare di mordere la mano che ti darà ancora da mangiare?
Il terzo è che, come detto, di altre concessioni forse i commissari avrebbero in realtà ben poco bisogno, visto il trattamento d’oro che ricevono mentre sono in carica, grazie a stipendi da 20mila a 25mila euro al mese per cinque anni, rigorosamente esentasse così come i tanti benefit. Vista poi la sontuosa liquidazione. Ulteriori benefici economici finiscono fatalmente per stridere con l’idea romantica da “Europa solidale dei popoli”. Ma di cosa si tratta realmente?
“L’indennità di transizione” sarebbe pagata per tre o cinque anni e non due come è stato dal 2016. Questa indennità, che varia dal 40 al 65% dello stipendio base in base alla durata dei compiti precedente, vale a dire un minimo compreso tra 8.400 e 13.500 euro al mese, viene aggiunta a quella di “reinsediamento“, corrispondente al salario di un mese. Soprattutto, a queste somme, si aggiungeranno una serie di prestazioni in natura: un ufficio presso la Commissione (in precedenza solo gli ex presidenti avevano diritto), una macchina aziendale con autista e due assistenti. Grazie a questa operazione, un ex commissario riceverà effettivamente il doppio, se non il triplo, di ciò che attualmente riceve. Il tutto grazie anche a un’ulteriore piccola astuzia: mentre l’allungamento della durata del risarcimento (o il suo aumento) richiede l’accordo del Consiglio dei ministri (dove siedono gli Stati), questo non è il caso per le “prestazioni in natura” che dipendono dal bilancio della Commissione.
L’astuzia rischia di costare parecchio ai contribuenti e di dare un segnale contrario alle consuete rampogne di Bruxelles agli Stati spendaccioni e di aiutare gli antieuropeisti nell’opera di demolizione dell’immagine delle istituzioni europee. Non a caso c’è chi pretende immediate spiegazioni. Il 24 aprile scorso la presidente della Commissione controllo di bilancio del parlamento europeo Ingeborg Grässle (PPE) ha mandato una lettera al Commissario al Bilancio Günther Oettinger chiedendo spiegazioni. Sbigottito anche Marco Valli, membro della stessa commissione in quota M5s: “Siamo venuti a conoscenza della proposta di questi nuovi privilegi per i Commissari uscenti, grazie ad un articolo pubblicato da un giornale tedesco. Per questo chiediamo, attraverso una lettera della Commissione controllo dei bilanci del Parlamento europeo l’accesso al documento di lavoro. Vogliamo vedere le carte ed evitare abusi e conflitti di interesse. Non è la prima volta che la Commissione prende decisioni discutibili in modo opaco, basti vedere il recente caso di nomina diretta dell’uomo di fiducia di Juncker, Martin Selmayr come Segretario generale”.

martedì 28 marzo 2017

IL PARLAMENTO EUROPEO CENSURA LA SUA STESSA LIBERTÀ DI PAROLA. - Judith Bergman

Risultati immagini per censura parlamento europeo
Un articolo da non perdere del Gatestone Institute fa luce su una norma recentemente approvata dal Parlamento Europeo, che limita la libertà di parola dei suoi stessi membri – tanto più degni di tutela in quanto unici eletti all’interno delle opache istituzioni UE – quando i loro discorsi dovessero essere arbitrariamente considerati diffamatori, razzisti o xenofobi. Si tratta di una pericolosa svolta autoritaria delle istituzioni europee, che vogliono silenziare qualsiasi voce “fuori dal coro”, pensando forse che, se non espresso, il malcontento dei cittadini europei sparirà automaticamente. Al contrario, il livello di insoddisfazione e ribellione è destinato come conseguenza ad alzarsi, alimentando il clima “populista” di scontro con le istituzioni ormai così diffuso in Europa.
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Il parlamento europeo ha introdotto una nuova norma procedurale che consente al moderatore di un dibattito di interrompere la trasmissione dal vivo di un parlamentare europeo “in caso di linguaggio o comportamento diffamatorio, razzista o xenofobo di un suo membro”. Inoltre, il presidente del parlamento può anche “decidere di eliminare dalla registrazione audiovisiva del procedimento le parti del discorso di un membro del parlamento che contengono linguaggio diffamatorio, razzista o xenofobo”.
Nessuno però si è preoccupato di definire in che cosa consista un “linguaggio o comportamento diffamatorio, razzista o xenofobo”. Questa omissione significa che il moderatore di ogni dibattito al parlamento europeo è libero di decidere, senza alcuna linea guida né criterio oggettivo, se le affermazioni del parlamentari sono “diffamatorie, razziste o xenofobe”. La pena per i colpevoli a quanto sembra può raggiungere i 9.000 euro.
“C’è stato un numero crescente di casi di politici che dicono cose inaccettabili all’interno della normale discussione e del dibattito parlamentare”, ha affermato il parlamentare UE inglese Richard Corbett, che ha difeso la nuova regola, senza peraltro specificare che cosa ritiene “inaccettabile”.
Nel giugno 2016 il presidente dell’autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha tenuto un discorso al parlamento europeo, nel quale ha rispolverato vecchie calunnie anti-semite, come la falsa accusa a carico dei rabbini di Israele di avere chiesto al governo israeliano di avvelenare l’acqua usata dagli arabi palestinesi. Un discorso così chiaramente provocatorio e anti-semita non solo è stato consentito dai sensibili e “anti-razzisti” parlamentari all’interno del parlamento; ha ricevuto addirittura una standing ovation. Evidentemente le spericolate calunnie anti-semite pronunciate dagli arabi non costituiscono “cose inaccettabili all’interno della normale discussione e dibattito parlamentare”.
(Il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas riceve una standing ovation al Parlamento Europeo a Bruxelles il 23 giugno 2016, dopo aver falsamente sostenuto nel suo discorso che i rabbini di Israele chiedevano di avvelenare l’acqua dei Palestinesi. Più tardi, Abbas ha ritrattato e ammesso che le sue affermazioni erano false (fonte dell’immagine: Parlamento Europeo)
Sembra che il parlamento europeo non si sia nemmeno degnato di pubblicizzare la sua nuova regola procedurale; è stata resa pubblica dal giornale spagnolo La Vanguardia. Sembra che gli elettori non dovessero sapere quello che può essere loro impedito di ascoltare nelle trasmissioni in diretta dei parlamentari che hanno eletto per rappresentarli nella UE, se il moderatore del dibattito ritiene che – a suo giudizio – quello che viene detto è “razzista, diffamatorio o xenofobo”.
Il parlamento europeo è l’unica istituzione democraticamente eletta della UE. Helmut Sholz, del partito tedesco di sinistra Die Linke, ha dichiarato che i legislatori UE hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni su come dovrebbe funzionare l’Europa: “Non si può limitare o negare questo diritto”. Be’, certo, possono esprimerle (ma fino a quando?), peccato solo che nessuno fuori dal parlamento possa sentirli.
La regola colpisce nel profondo il diritto di parola, in particolare quello di politici eletti, che la Corte europea dei Diritti umani ha ritenuto, nella sua pratica, di dover proteggere in maniera particolare. I membri del parlamento europeo sono persone che sono state elette per dar voce agli elettori all’interno delle istituzioni dell’Unione europea. Limitare la loro libertà di parola è antidemocratico, preoccupante e pericolosamente Orwelliano.
Questa regola non può che avere un effetto limitante sulla libertà di parola del parlamento europeo e si rivelerà uno strumento efficace per mettere a tacere i parlamentari che non seguono la narrazione politicamente corretta dell’UE.
Negli ultimi tempi il parlamento europeo sembra avere ingaggiato una guerra contro la libertà di parola. All’inizio di marzo, ha tolto l’immunità parlamentare alla candidata alla presidenza francese Marine Le Pen. Il suo crimine? Avere pubblicato su Twitter nel 2015 tre immagini di esecuzioni dell’ISIS. In Francia la “pubblicazione di immagini violente” costituisce un comportamento criminale, cosa che può comportare fino a tre anni di prigione e a una multa di 75.000 euro. Togliendole l’immunità mentre è in corsa per diventare presidente francese, il parlamento europeo ha inviato un segnale chiaro: pubblicare le immagini e l’orribile verità dei crimini dell’ISIS, anziché essere visto come un avvertimento di quello che potrebbe presto avvenire in Europa, deve invece essere punito.
Si tratta di un ben strano segnale da dare, specialmente alle vittime cristiane e Yazide dell’ISIS, che sono per lo più ignorate dall’Unione Europea. I parlamentari europei, evidentemente, sono troppo sensibili per sopportare le immagini degli assassinii di persone indifese in Medio Oriente, e sono più preoccupati di perseguire coloro che le diffondono, come Marine Le Pen.
Quindi il politicamente corretto, ormai diventato la “polizia religiosa” del dibattito politico, non solo si è impadronito dei media e dei discorsi accademici; anche i parlamentari eletti ormai devono mantenersi sulla sua linea, altrimenti vengono letteralmente oscurati. Nessuno ha fermato il parlamento europeo mentre approvava questa regola antidemocratica contro la libertà di parola. Perché nessuno dei 751 europarlamentari ha puntato il dito contro la norma, prima che venisse approvata definitivamente? E ancora più importante: a che punto si fermerà questo impulso chiaramente totalitarista, e chi lo fermerà?