venerdì 10 luglio 2020

Mose, Conte preme il pulsante via a innalzamento dighe.

Una paratia del Mose di Venezia © ANSA

Ambientalisti e comitati contro le grandi navi in laguna preparano una manifestazione di protesta.

"Siamo qui per un test, non per una passerella. Il governo vuole verificare l'andamento dei lavori". Così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Venezia in occasione della cerimonia per il primo test completo delle dighe mobili del Mose.
"E' giusto avere dubbi, è giusta la dialettica, ma dico a chi sta protestando, ai cittadini e intellettuali, concentriamoci sull'obiettivo di completare il Mose" ha aggiunto Conte. "Facciamo in modo che funzioni - ha proseguito -. Di fronte all'ultimo miglio la politica si assume le proprie responsabilità e decide che con un ulteriore sforzo finanziario si completa e si augura che funzioni".
Spitz: 'Non è finito, ci vogliono altri 18 mesi' - "Il Mose non è finito, ci sono 18 mesi di lavori e test, bisognerà avviare il collaudo tecnico funzionale e poi alcuni anni di rodaggio per l'avviamento, per la progressiva ottimizzazione con procedure trasparenti e controllo rigoroso dei costi". Lo ha detto la commissaria alla conclusione del Mose di Venezia, Elisabetta Spitz, aprendo la cerimonia per il sollevamento delle dighe mobili. L'opera, ha proseguito "ha una storia travagliata e controversa, a noi è stato affidato il compito di portarla a termine. Una lunga pagina si chiude, Ringraziamo i veneziani per la lunga pazienza. Con le prove dei prossimi mesi sarà già possibile dal prossimo autunno il sollevamento in caso di maree altissime e salvare dall'acqua alta la Laguna".
La Laguna di Venezia è stata chiusa completamente al mare, con l'effettuazione del primo test completo delle 78 dighe mobili del sistema Mose, per salvare la città dalle acque eccezionali. Alla prova sono presenti il presidente del consiglio Giuseppe Conte, i ministri Lucia Lamorgese, Paola De Micheli e Federico D'Incà, il presidente del Veneto Luca Zaia e il sindaco Luigi Brugnaro. Sull'isola artificiale che divide la Bocca di Porto del Lido è stata approntata una 'control room' da cui si possono seguire le operazioni di sollevamento e discesa delle paratoie nelle quattro 'bocche', da nord a sud: Lido-Treporti, Lido-San Nicolò, Malamocco e Chioggia. Per consentire l'intera procedura è prevista l'interdizione completa del traffico marittimo.
Una decina le imbarcazioni che si sono radunate nello spazio acqueo davanti a Piazza San Marco per un'azione di protesta contro il Mose. Guardati a vista da imbarcazioni della polizia, i barchini hanno bandiere contro le grandi navi e contro quella che definiscono un'opera inutile.

Trani, era associazione a delinquere. Dieci anni all’ex pm Antonio Savasta. - Francesco Casula

Trani, era associazione a delinquere. Dieci anni all’ex pm Antonio Savasta

Il sistema - Dura condanna per l’ormai ex magistrato. quattro anni anche al collega Scimè.
Condanne, multe e confische. È un conto salato quello presentato dai magistrati leccesi agli ormai ex colleghi coinvolti nell’inchiesta sul “Sistema Trani”. È di 10 anni di reclusione la condanna nei confronti dell’ex pm Antonio Savasta, considerato l’organizzatore dell’associazione a delinquere che in cambio di denaro e regali costosi, aggiustava indagini e processi degli imprenditori amici. Nei suoi confronti non sono stati tenuti in considerazione, secondo i suoi difensori, le confessioni e la collaborazione offerta durante le indagini.
I pm Roberta Licci e Giovanni Gallotta, con la supervisione del procuratore Leonardo Leone de Castris, hanno ritenuto che in realtà la collaborazione di Savasta non sia stata piena, ma anzi sia stata fuorviante. Pena a 4 anni di carcere per l’altro magistrato Luigi Scimè che dovrà anche abbandonare la toga: nei suoi confronti, infatti, è stato disposta anche l’estinzione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione. Stessa pena per l’imprenditore Luigi D’Agostino e infine 4 anni e 4 mesi per Ruggiero Sfrecola e 2 anni e 8 mesi per Giacomo Ragno, i due avvocati che avrebbe fornito un importante contributo al sistema.
Pesanti anche le confische ordinate dal tribunale: dai 75 mila euro per l’ex pm Scimè ai 224 mila per l’avvocato Ragno fino a 2 milioni e 390 mila euro per Savasta. Nell’inchiesta era coinvolto anche l’ex gip di Trani Michele Nardi che il rito ordinario: il processo nei confronti e di altri imputati inizierà il 4 novembre.
Numerosi gli episodi contestati dai magistrati leccesi: false denunce, false testimonianze e una serie di irregolarità consentiva agli ex magistrati di pilotare i procedimenti salvando gli amici o accelerando le accuse nei procedimenti in cui gli stessi amici figuravano come parte lesa. Savasta era accusato di far parte insieme a Nardi e ad altri tre imputati, tra i quali l’ispettore di Polizia Vincenzo Di Chiaro, di un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, falso ideologico, millantato credito, calunnie e falsa testimonianza.
Il gruppo criminale, per la procura leccese, poteva contare su numerosi soggetti “vicini” che pur non essendo organici all’associazione potevano fornire contributi determinanti per permettere al gruppo di raggiungere i propri obiettivi. A capo del gruppo, per l’accusa, c’era proprio Nardi.
È stato l’imprenditore Flavio D’Introno a svelare agli investigatori le ingenti somme versate al gruppo per ottenere la manipolazione delle indagini o dei processi a suo carico. Antonio Savasta era invece indicato come “l’organizzatore” dell’associazione a delinquere con il compito di “attivare e gestire” in modo strumentale all’interesse di D’Introno i procedimenti penali e tributari che lo riguardavano. Non solo. Proprio Savasta avrebbe svelato a D’Introno l’esistenza di indagini che lo riguardavano nella procura di Lecce e lo avrebbe persino invitato a fuggire all’estero dopo che una sentenza era diventata definitiva.
Nel sistema però, avevano un ruolo determinate secondo l’accusa anche gli avvocati. Come Simona Cuomo, anche lei rinviata a giudizio con Nardi: a lei sarebbe spettato il compito di trasformare in atti apparentemente legali le iniziative avviate da magistrati e imprenditori. Oppure come Ruggiero Sfrecola, difensore dell’imprenditore Luigi D’Agostino che, in accordo con Savasta avrebbe versato tangenti nel 2015 e controllato le dichiarazioni di alcuni testimoni in un’indagine sui reati fiscali di società riconducibili a D’agostino affinché non venisse mai fuori il suo nome. E ancora come giacomo Ragno che avrebbe individuato e messo a disposizione del sistema un uomo disposto a fornire false dichiarazioni per salvare D’Introno da una delle vicende che lo coinvolgevano.

La vera Fase 3 del prof. Lopalco: i virologi si danno alla politica. - Antonello Caporale

La vera Fase 3 del prof. Lopalco: i virologi si danno alla politica

Dopo 150 giorni in tv la candidatura con Emiliano.
È il noto principio di gravità. Chiunque venga esposto in televisione per un tempo superiore ai sette minuti per sette giorni consecutivi ha due strade davanti a sé: o Temptation Island (se giovane e inidoneo al lavoro) oppure – se attempato – la politica.
Dopo 150 giorni di virus la legge della fisica è stata rispettata e Pierluigi Lopalco, epidemiologo dall’aspetto filiforme, pignolo illustratore seriale dei nostri vizi posturali (la distanza, le mani lavate, la bocca cucita) sarà quasi certamente candidato al consiglio regionale della Puglia. Sosterrà, secondo le prime notizie accreditate, Michele Emiliano che è colui che l’ha voluto consulente per gli affari straordinari legati alla pandemia. “Centoventimila euro pubblici per farsi la campagna elettorale”, l’acido commento di Forza Italia che rivela il compenso di Lopalco per la consulenza pugliese e l’esito della stessa.
Intanto dobbiamo riferire che in Liguria Matteo Bassetti, primario del reparto di Malattie infettive del San Martino di Genova, e altro volto noto delle serate da lockdown, sembra invece negarsi questa possibilità. Bassetti, rispetto a Lopalco, non ha presenziato (e ottimamente) soltanto nei talk show, in genere più noiosetti, ma ha confortato anche Barbara D’Urso (wow!) nel suo live su Canale 5. Bassetti è poi passato per la cronaca nera di Quarto grado, che su Retequattro racconta il mondo degli scomparsi, e insomma si è fatto un bel book tv. A Genova si è perciò detto: si candiderà con Giovanni Toti, il presidente uscente. Bassetti ha però rifiutato con una dichiarazione già da gran politico: “Amo il mio lavoro e voglio continuare a farlo. La politica non mi interessa”.
Resta da dire che il capo del dream team, Roberto Burioni, il più noto e punta di diamante dei virologi polemisti, dei professori televisivi, collocato al centro del centro del fact cheking renziano, si è preso una vacanza dalla tv e attualmente scarseggia anche su Twitter il luogo di coltura del bacillo pop. Burioni, come si ricorderà, ha anche fatturato molto e giustamente: i suoi consigli (mani pulite, distanza, bocche cucite) sono stati infatti richiesti dalle maggiori aziende italiane.
Non dobbiamo farci illusioni. Da qui a fine agosto, quando le liste saranno formalizzate, altri virologi, infettivologi, immunologi saranno compulsati.
La televisione ha cooptato i migliori, coloro che con una battuta illustravano l’epidemia, con una parola la vita e la morte. I più efficaci, come il professor Massimo Galli, ancora stanno parcheggiati dietro le telecamere. In autunno l’atteso girone di ritorno in tv, se la pandemia dovessi farsi più grave e il virus tornare nelle forme più cruenti. Chi da politico, chi da candidato mancato e chi da grande promessa: tra un po’ si rinnova anche il Parlamento.
Se ognuno può fare il virologo, pur non essendolo, perchè un virologo non può scegliere di buttarsi in politica?
La politica, in effetti, è l'unico lavoro/non lavoro garantito a tutti gli effetti;
chi fa politica ha solo diritti, non ha doveri e gode di impunità. 
Viaggia gratis ed ha diritto anche ad un rimborso pur non avendo pagato nulla; inoltre, anche se retribuito profumatamente, ha diritto ad un gettone di presenza se si reca al lavoro, se non si reca al lavoro, stranamente, non paga nulla...
Oltretutto, e non è poco, non hanno l'obbligo come noi di dover maturare un certo numero di anni di lavoro per andare in pensione, gli basta aver fatto brevi apparizioni in Parlamento per maturarla, e, in caso di morte, la stessa viene devoluta ai parenti vicini e lontani fino a non si sa quale generazione...
Entrare a far parte del mondo della politica rappresenta un'ottima scelta, è come vincere alla lotteria, perchè non approfittarne?

Sono disperato: Salvini a dieta, ma di bestialità. - Antonio Padellaro

BLOG DI CIPIRI: Dopo il Mojito di Salvini in Spiaggia
Alla ricerca di un spunto per questa rubrica ieri mi sono messo comodo davanti all’Aria che tira convinto che dall’intervista a Matteo Salvini qualcosa sarebbe venuto fuori. Dopo mezz’ora di disperati tentativi del conduttore, il bravo Francesco Magnani, avevo preso nota soltanto della forte somiglianza dell’uomo del “Papeete beach” con l’allenatore del Parma, Roberto D’Aversa. Infatti, è dai giorni del mojito (di cui ad agosto ricorre il primo anniversario) che il capo leghista continua a parlare ma senza dire niente. Situazione piuttosto spiacevole per chi, come noi, pasteggiava abitualmente grazie alla ricca produzione della famosa Bestia salviniana, e che da tempo si vede costretto a una dieta forzata delle relative bestialità, con evidente nocumento sulla qualità del lavoro.
Sui motivi dell’assoluta inconsistenza verbale, e politica, del capo della destra (ma fino a quando con Giorgia Meloni così arrembante?) si esercitano illustri commentatori. Convinti che il salvinismo non rappresenti più un’alternativa spendibile, per esempio sull’uscita dall’Euro, nel momento in cui solo i soldi dell’Europa possono salvarci. Senza contare il disastro populista e sovranista sul coronavirus, con la nemesi dei Boris Johnson e dei Jair Bolsonaro, responsabili davanti ai loro Paesi della folle sottovalutazione dell’epidemia, di cui pagano anche personalmente le conseguenze. E si può dire che con il crollo verticale nei sondaggi alla vigilia delle elezioni Usa di Donald Trump (un altro che minimizzava il Covid-19) la stagione della verità fatta a pezzi dalla propaganda stia tramontando. Quando la gente deve salvare la pelle passa davvero la voglia di dare retta agli imbonitori. Perciò Salvini (che è il meno dotato della compagnia) va capito quando si rifugia nella stucchevole elencazione, tipo Pagine Gialle, di ceti e categorie a cui dedica ascolto (che bisogna vedere se ancora ascoltano lui). Perciò anche chi scrive è altrettanto imbarazzante quando scuote il televisore con il faccione e implora: ti prego Salvini di’ qualcosa di destra.

Il sospetto: “Ruolo attivo di Fontana per il cognato”. - Davide Milosa

Il sospetto: “Ruolo attivo di Fontana per il cognato”

Al vaglio dei pm le “mosse anomale del governatore nella fornitura dei dispositivi di protezione”.
L’inchiesta milanese sui camici prima venduti e poi donati dalla società del cognato del governatore Attilio Fontana alla centrale acquisiti della Regione (Aria) entra nel vivo. La Procura ha in mano due dati fondamentali per comprendere come si è svolta la vicenda e quale scopo aveva. Il primo elemento è la “prova” che Dama spa di Andrea Dini dopo aver chiuso la donazione con 25 mila camici in meno dell’accordo iniziale (50 mila invece che 75 mila) ha tentato di rivendere il rimanente a prezzo maggiorato e da un’altra parte. Il secondo elemento riguarda invece il ruolo del governatore Attilio Fontana che al momento non risulta indagato. Il tutto è ricondotto al 15 maggio quando il cronista di Report intervista il governatore. In quel momento il contratto (e non la donazione) di forniture è in essere da circa un mese.
Nel colloquio con il presidente non si parla dei camici, il tema è l’emergenza Covid e come è stata affrontata. La cosa però, si ragiona in Procura, pare aver insospettito Fontana che, secondo la ricostruzione dei pm, si è adoperato perché quella che fin dall’inizio doveva essere una fornitura commerciale per 513 mila euro di camici si trasformasse in una improbabile donazione. Un atteggiamento lodevole se non fosse legato, spiegano fonti qualificate, a una possibile anomalia precedente l’inizio del contratto tra Dama e Aria. Risultato: il 20 maggio Dini annuncia ad Aria lo storno delle fatture trasformando parte dell’offerta in donazione. Insomma pare di capire che Attilio Fontana, dopo essere stato archiviato dall’accusa di abuso d’ufficio in relazione all’incarico dato dalla Regione a un suo ex socio di studio, ora rischi di ricadere nel frullatore giudiziario. I pm stanno valutando un suo “ruolo attivo” in questa storia. I contorni, dunque, iniziano a chiarirsi dopo che la Procura ha iscritto Andrea Dini e il dg di Aria Filippo Bongiovanni con l’accusa di turbata libertà della scelta del contraente. Ieri, per sette ore, è stata interrogata come persone informata sui fatti, Carmen Schweigl, il responsabile della struttura gare e numero due di Aria. In realtà le vere novità emergono dalle carte acquisite in Regione. La Dama spa, tra i cui soci per il 10% c’è Roberta Dini moglie di Fontana, viene introdotta in Aria dall’assessore regionale all’Ambiente Raffaele Cattaneo. Cattaneo due giorni fa è stato interrogato dai pm e non risulta indagato. La sua posizione, pur nel suo ruolo di capo della task force per le forniture, è ritenuta marginale e comunque il fatto di aver introdotto, come da lui ammesso ai magistrati, la società del cognato di Fontana in Regione appare, al momento, un elemento accidentale. Ben più grave, come ricostruito dai pm, il fatto che fin da subito e fino a ieri la presunta donazione vantata da Dini non sia mai stata accettata da Aria, il che rende ancora valido il contratto del 16 aprile per 75 mila camici pagati 513 mila euro. Particolare reso ancora più evidente da una mail pre-pasquale, pubblicata dal Fatto, in cui Dini firma una proposta di contratto (e non di donazione) alla centrale acquisiti della Regione. È evidente, secondo la Procura, che molti sapessero quello che si stava consumando, e cioè un enorme conflitto d’interessi mai segnalato da Dama perché Aria ha deciso di derogare al patto di integrità della Regione.
La proposta commerciale di Dini elimina l’ipotesi che quella dovesse essere una donazione smentendo la ricostruzione dello stesso cognato, ovvero che fu solo un fraintendimento di comunicazione in azienda poi sanato dal suo intervento. Fin dall’inzio si è trattato di un’offerta commerciale il cui ok, secondo i pm, è avvenuto con “metodo fraudolento” e in modo illegale visto il conflitto d’interessi. La proposta, come detto, arriva prima di Pasqua, il contratto parte il 16 aprile. Tutto fila liscio fino al 15 maggio, data dell’intervista. Quel giorno ai piani alti del Pirellone le paure si fanno feroci. Cinque giorni dopo Dini invia a Bongiovanni un mail nella quale conferma lo storno di alcune fatture per un totale di 50mila camici. Nessuno però fa notare a Dama che ne mancano 25 mila per circa 130 mila euro. Cifra non da poco in giorni in cui la pandemia in Lombardia stava raggiungendo il picco. Che succede a quel punto? Andrea Dini, da bravo imprenditore, tenta di minimizzare il danno provando a rivendere i 25 mila camici a un prezzo superiore a 5,99 euro.

Promemoria/1 - Marco Travaglio


In Edicola sul Fatto Quotidiano del 10 Luglio: Spingitori di B. ora Prodi vuole al governo il caimano  che comprò senatori per farlo cadere

Romano Prodi, alla festa del quotidiano che in tempi ormai remoti fu la palestra dell’antiberlusconismo, in piena sindrome di Stoccolma, assicura che non avrebbe nulla in contrario a un governo con Silvio Berlusconi e tutta Forza Italia, perché “la vecchiaia porta saggezza”. Non specifica se la porti a lui o a B.. Ma, a parte l’età (che non è sinonimo di amnistia o prescrizione) e la saggezza (che non ci pare caratterizzare né lui né B.), restano alcune faccenduole stampate su libri di storia e sentenze definitive che parrebbero vagamente ostative all’ingresso di B. al governo.
1973. Silvio B. soffia Villa San Martino ad Arcore a un’orfana minorenne, Annamaria Casati Stampa, pagandola una miseria (per giunta in azioni di sue società non quotate: valore zero) grazie ai buoni uffici del protutore della ragazza, l’avvocato Cesare Previti, figlio di uno dei suoi amministratori-prestanomi.
1974-1976. B. ospita nella villa Vittorio Mangano, un mafioso palermitano della famiglia di Porta Nuova con vari precedenti penali, Vittorio Mangano, poi definito da Paolo Borsellino “testa di ponte della mafia al Nord”, travestito da “stalliere”: glielo aveva presentato l’amico siciliano Marcello Dell’Utri, poi condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa, durante un incontro a Milano alla presenza di Stefano Bontate, capo di Cosa Nostra, e di altri boss del calibro di Francesco Di Carlo e Mimmo Teresi e del mafioso Gaetano Cinà. Mangano restò nella villa nonostante vi avesse organizzato un sequestro di persona, un paio di attentati dinamitardi contro un’altra residenza berlusconiana e vi fosse stato arrestato ben due volte.
1975-1983. Nelle società finanziarie che controllano la Fininvest (denominate “Holding Italiana” e numerate dalla 1 alla 37) confluiscono 113 miliardi di lire (pari a 300 milioni di euro) di provenienza misteriosa, in parte in contanti. Negli stessi anni – secondo il finanziare Filippo Alberto Rapisarda, vari pentiti e il boss Giuseppe Graviano – Cosa Nostra entra in società con la Fininvest per le attività edilizie e televisive.
1978. Sivio B., presentato al maestro venerabile Licio Gelli dal giornalista Roberto Gervaso, si iscrive alla loggia P2 (poi sciolta dal governo Spadolini in quanto illegale ed eversiva) con la tessera numero 1816 e il grado di “apprendista muratore”. E inizia a ricevere, per i cantieri di Milano2, crediti oltre ogni normalità da Montepaschi e Bnl, controllate entrambe da dirigenti piduisti; oltre a collaborare con commenti di economia e finanza al Corriere della sera, controllato dalla P2.
1980. Una soffiata lo avverte di un’imminente visita della Guardia di Finanza in casa Fininvest.
Così B. scrive una lettera all’amico segretario del Psi Bettino Craxi: “Caro Bettino, come ti ho accennato verbalmente, Radio Fante ha annunciato che dopo la visita a Torno, Guffanti e Cabassi, la polizia tributaria si interesserà a me… Ti ringrazio per quello che crederai giusto fare…”.
1984. A maggio B. è indagato a Roma con altri cento dirigenti di tv private per antenne abusive e interruzione di pubblico servizio (interferenze con le frequenze dell’aeroporto di Fiumicino) e viene interrogato dal vicecapo dell’Ufficio Istruzione Renato Squillante. Lo accompagna il suo legale, Cesare Previti. Viene subito archiviato, mentre per molti altri imputati l’inchiesta si chiuderà solo nel 1992. Si scoprirà poi che B., Previti e Squillante hanno conti in Svizzera comunicanti. A ottobre i pretori di Torino, Pescara e Roma sequestrano gli impianti che consentono alle tre reti Fininvest di trasmettere illegalmente in “interconnessione”, cioè in contemporanea con l’effetto-diretta in tutta Italia e dispongono che rientrino nella legalità irradiando i programmi in orari sfasati da regione a regione. B. auto-oscura Canale5, Rete4 e Italia1 fingendo che i giudici gliele abbiano spente e lanciando la campagna “Vietato vietare” a cura del confratello piduista Maurizio Costanzo. Craxi vara un decreto per neutralizzare le ordinanze dei pretori e legalizzare l’illegalità dell’amico. Il decreto però non viene convertito in legge perché la Dc lo ritiene incostituzionale. Craxi ne vara subito un secondo, minacciando la crisi di governo in caso di nuova bocciatura.
1988. B. denuncia per diffamazione i pochi giornalisti che hanno osato recensire la sua biografia non autorizzata Inchiesta sul Signor Tv di Giovanni Ruggeri e Mario Guarino (Editori Riuniti). E, sentito come parte lesa dal Tribunale di Verona, racconta un sacco di frottole sulla sua adesione alla P2, datandola al 1981 (quando esplose lo scandalo) e negando di aver mai pagato la quota di iscrizione. Invece si iscrisse nel 1978 e pagò regolarmente a Gelli la quota di 100mila lire. Così, da parte offesa, diventa imputato di falsa testimonianza dinanzi alla Corte d’appello di Venezia. Che sentenzierà: “Il Berlusconi ha dichiarato il falso” e “compiutamente realizzato gli estremi obiettivi del delitto di falsa testimonianza”, ma “il reato va dichiarato estinto per intervenuta amnistia” (appena varata nel ’90). Spergiuro e impunito.
1989-’91. Socio di minoranza della Mondadori controllato dalle famiglie De Benedetti e Formenton (oltre al ramo libri, possiede il quotidiano Repubblica, una catena di testate locali, i settimanali l’Espresso, Panorama ed Epoca), B. convince i Formenton a violare i patti con l’Ingegnere e a cedere a lui le loro quote, diventando l’azionista n.1 e il presidente del gruppo. Un lodo arbitrale dà ragione a De Benedetti, ma B. lo impugna dinanzi alla Corte d’appello di Roma. E lì il giudice Vittorio Metta lo ribalta, regalando la Mondadori a B. Una sentenza definitiva accerterà che Metta è stato corrotto da Previti con 400 milioni di lire in contanti provenienti dai conti esteri della Fininvest (comparto occulto All Iberian). Previti e Metta saranno condannati, mentre B. “privato corruttore” se la caverà con la prescrizione. Tangentista e impunito.
1990. Craxi e Andreotti impongono alla maggioranza di pentapartito la legge Mammì, cioè la tanto attesa riforma antitrust del sistema radiotelevisivo. Peccato che non riformi un bel nulla, anzi fotografi il monopolio illegale di B. Infatti verrà chiamata “legge Polaroid”. Per protesta, si dimettono dal governo Andreotti i cinque ministri della sinistra Dc, fra cui Sergio Mattarella. Il divo Giulio li rimpiazza in una notte. Qualche mese più tardi, Craxi inizia a ricevere sui suoi conti svizzeri una cascata di soldi da quelli della Fininvest (comparto occulto All Iberian): per un totale di 23 miliardi in pochi mesi. Dagli stessi conti All Iberian, fuoriescono in quei mesi centinaia di miliardi di cui la magistratura non riuscirà a individuare i destinatari. Così, oltreché della carta stampata e dell’editoria libraria, B. si consacra padrone assoluto della tv commerciale.
E questo è solo l’antipasto.
(1 – continua)


giovedì 9 luglio 2020

Mafia, perchè Messina Denaro è libero? “Custodisce i segreti di Riina”. - Giuseppe Lo Bianco

Mafia, perchè Messina Denaro è libero? “Custodisce i segreti di Riina”

La caccia al boss di Cosa nostra dura da 27 anni. Come ha potuto sfuggire alla cattura così a lungo? Secondo un magistrato avrebbe goduto delle coperture delle logge segrete e - particolare importante - potrebbe nascondere i documenti che si trovavano nel covo di Totò Riina.
Le ultime tracce “pubbliche” di una “caccia” che dura da 27 anni si fermano alla sera dell’11 gennaio 2017, quando a palazzo San Macuto, in commissione Antimafia, il procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato anticipò alla commissione, in quel momento presieduta da Claudio Fava, “un fatto molto particolare, che ci ha dato dei segnali di lettura, a mio avviso di grande interesse”. E cioè che poco dopo l’emissione di due ordinanze di custodia cautelare, “una a carico di Firenze Rosario + 9″, Firenze Rosario era considerato una specie di figlioccio di Matteo Messina Denaro, e un’altra a carico di “Loretta Carlo + 13” per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, con i conseguenti sequestri, “tra il 4 e il 6 gennaio dei ladri sono penetrati all’interno della casa di Francesco Guttadauro, nipote di Matteo. L’hanno messa a soqquadro, hanno rubato delle televisioni, dei frigoriferi”. Erano le 20.30 circa, e subito dopo il magistrato ha chiesto di passare in seduta segreta, terminata alle 22.30. Sono chiuse in quelle due ore gli sviluppi pubblici (naturalmente solo per i commissari dell’Antimafia) più aggiornati delle indagini sulla cattura dell’ultimo corleonese stragista, Matteo Messina Denaro, un “carnefice sanguinario, che ha ucciso persone innocenti e bambini” e che in Sicilia hanno chiamato Diabolik, con quel misto di ammirazione e simpatia che ha circondato come un’aura il suo mito di imprendibile “primula rossa”, ultimo sopravvissuto “eccellente” di una catena di protezioni e complicità che in Sicilia ha radici antiche negli apparati dello Stato. Complicità cementate nel trapanese sullo sfondo di logge segrete in cui accanto agli uomini in grembiule e cappuccio sedevano gli uomini di Cosa Nostra. E che gli hanno consentito di costruire, con relazioni e consenso, una rete affaristico clientelare senza uguali e precedenti, incistata nel tessuto sociale, ma anche istituzionale: negli ultimi decenni è stato un fantasma evocato ad ogni retata che in Sicilia ha interrotto brillanti carriere politiche e manageriali, spedito in carcere imprenditori di successo con agganci nei palazzi romani, colpito burocrati massoni appesi alla spesa pubblica.
Ha resistito per 27 anni alla macchia, superando il poco invidiabile primato di Totò Riina (26 anni). Ed è riuscito a resistere anche ai processi delle stragi contro i giudici Falcone e Borsellino, dimenticato da magistrati e investigatori, sfuggendo all’etichetta di stragista del ’92; per quelle del ’93, inchiodato dai pentiti che ne hanno descritto il ruolo operativo, è condannato all’ergastolo dai giudici di Firenze. Per 22 anni le tracce giudiziarie di Matteo Messina Denaro si erano fermate alla fine di febbraio 1992, quando con Giuseppe Graviano guidò a Roma il commando di killer (trapanesi e di Brancaccio) che doveva uccidere Giovanni Falcone, richiamato poi in Sicilia da Totò Riina che aveva cambiato idea: doveva essere una strage.
Per 22 anni giudici e investigatori che indagavano sugli episodi del ’92 lo avevano dimenticato, nonostante le accuse di Giovanni Brusca e di Balduccio Di Maggio, e quelle di Vincenzo Sinacori e Ferro, mosse negli anni ’90, che lo indicavano come uno dei leader della strategia terroristico eversiva di attacco allo Stato. Perché questo ritardo di 22 anni nel processare MMD per strage? “Perché – è la risposta del pm Gabriele Paci nella requisitoria del processo di Caltanissetta in cui MMD è l’unico imputato – l’attenzione si focalizza su Mariano Agate che viene indicato erroneamente da Leonardo Messina e Vincenzo Calcara (come il capo della Provincia di Trapani, ndr): un errore marchiano. Un errore cui si rimedia in corso d’opera’’. Catturato nel 1982 dai carabinieri dell’allora capitano Nicolò Gebbia due anni dopo essere stato sorpreso in auto con il boss Nitto Santapaola e altri tre uomini d’onore catanesi a poca distanza dal luogo dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano – iscritto alla loggia segreta Iside 2, punto d’incontro di boss e colletti bianchi e frequentata da vescovi, commissari di polizia, prefetti, ufficiali dell’esercito – e poi condannato per le stragi come componente della cupola regionale, Agate, si scoprirà dopo, nelle formali gerarchie mafiose era “solo” il capo del mandamento di Mazara.
Distrazioni, superficialità ed errori sono una costante nella lotta alla mafia in terra trapanese: tranne pochi, brillanti e motivati, investigatori – da quelli della Polizia Rino Germanà (“che aveva il difetto di chiamare spesso in ufficio il giovane Matteo ed è vivo per miracolo”) e Francesco Misiti (“che doveva fare la stessa fine), ai sottufficiali dei carabinieri Santomauro, Di Pietro, Sciarratta, che hanno deposto nel processo – chi indagava, ha detto Paci, ha preferito voltarsi dall’altra parte, anche dopo le stragi del ‘92: “Quando arrivò Bonanno, nel 1994, alla guida del commissariato di Castelvetrano – ha detto il pm – il fratello e il cognato di Francesco Messina Denaro avevano ancora il porto d’armi, il padre di Matteo era un ‘signor nessuno’ e tutti cercavano Totò Minore, morto nel 1982″. Coperture iniziate negli anni ’60, quando Francesco Messina Denaro , “era campiere dei feudi D’Alì (famiglia di proprietari terrieri, banchieri, imprenditori, uno di loro, senatore, è stato sottosegretario all’Interno, ndr) e come tutti i campieri si conoscevano i soprusi: ‘ma nessuno l’ha scritto’’’. Erano anni di soffiate mirate a protezione del boss: “Il maresciallo Santomauro che nell’86 compie una perquisizione non lo trova, e non lo trova tutte le volte che va a casa a trovarlo”, e di intimidazioni, più o meno velate: il figlio Matteo, che allora aveva 26 anni, “scrive al comandante dei carabinieri di Castelvetrano: ‘mio padre è uscito, va a lavorare non scocciate, non venite a cercarlo perchè ci da fastidio’. La lettera è agli atti”.
Nel trapanese paura, distrazioni e complicità, divisi da una linea sempre più sottile, bendano gli occhi agli apparati, con esiti amaramente grotteschi: “Nessuno – ha detto il pm Paci – aveva il coraggio di dire che Peppe Ferro (boss poi pentito, ndr), che ancora oggi gode di vitalità, si presentava in aula in barella, catatonico, e quando la polizia andava via si rimetteva i pantaloni e andava a sparare”.
Bastano queste distrazioni a spiegare ritardi e latitanza, in un contesto di sostanziale impunità che ha consentito a MMD di muoversi liberamente per il mondo seguendo i suoi affari? Dove nasce, in buona sostanza, il potere che lo protegge e lo rafforza? Nella requisitoria il pm Paci ha fornito due spunti: la massoneria e le carte di Riina. “A Trapani – ha detto – nelle logge massoniche gli iscritti stavano insieme ai mafiosi. Non appartenevano alle tradizionali obbedienze, erano coperte, dunque segrete. A Trapani c’è stato l’unico processo in Italia per associazione segreta, l’unica applicazione della legge Spadolini”. E il pentito Giuffrè “dice che Provenzano gli fa capire che allo svuotamento del covo di Riina partecipa MMD”. E ha aggiunto: “Dire che Matteo Messina Denaro è in possesso di quelle carte recuperate nel covo mai perquisito di via Bernini è attribuirgli un potere non indifferente di ricatto da utilizzare alla bisogna, ma è un problema che non possiamo porci in questa sede”. L’unica certezza, per il pm nisseno, è che “i Messina Denaro sono i custodi dei segreti e dei forzieri di Totò Riina”.
1) continua