Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 9 aprile 2015
Mai dire regime. - Marco Travaglio.
Dice bene Concita De Gregorio: “Bisogna essere molto longevi, in questo Paese”.
Molto longevi per avere giustizia almeno in Europa. Ma anche per ricordare a chi non c’era, a chi ha dimenticato, a chi ha visto solo la tv tanti fatti gravissimi, e chiamarli con il loro nome.
Ora che l’ha messa nero su bianco la Corte di Strasburgo, molti scoprono che l’Italia ha conosciuto la tortura.
Non nelle galere nazifasciste nel 1943-45. Ma in una scuola di Genova, 14 anni fa, in piena “democrazia”.
Negli stessi mesi l’Italia conosceva anche la censura. Ma era vietato parlare di regime e quei pochi che si azzardavano a farlo venivano scomunicati. Non solo dal regime, ma anche dalla stampa “indipendente”, e persino dalla cosiddetta opposizione. Non è acqua passata, perché con quella stagione nefasta non abbiamo mai fatto i conti. “Voltiamo pagina”, si dice. Troppo comodo il revisionismo di opinionisti e intellettuali “di sinistra”, che confondono la “normalità” con l’amnesia.
E non s’accorgono che il berlusconismo non finirà con Berlusconi (ammesso che sia giunta la sua ora): finirà quando si chiameranno finalmente le cose con il loro nome (non solo a Strasburgo, ma anche in Italia), e il virus che ha contagiato tutto e tutti, a destra e a sinistra, sarà sradicato dalle nostre teste e viscere fino all’ultimo sintomo.
Berlusconismo è “politica del fare” purchessia, leggi per favorire i pochi contro i molti, collusione fra arbitri e giocatori, disprezzo per la Costituzione camuffato da “riforme istituzionali”, Parlamento controllato da due o tre boss con legge elettorale ad hoc, insofferenza alle critiche della libera stampa, allergia a un’opposizione forte e radicale (l’unica possibile nelle vere democrazie), ostracismo ai controlli terzi (magistratura, informazione e opinione pubblica), orrore per la “piazza”, occupazione partitocratica della tv, trasformazione della stampa in megafono del potere, cupidigia di servilismo ai piedi dei potenti, impunità per la classe dirigente gabellata per “primato della politica”.
Tutte tossine letali che tuttora ammorbano l’Italia. I “fatti di Genova”, come pudicamente la vaselina della stampa di regime ha sempre chiamato le torture del G8 2001, non spuntarono dal nulla come un fungo raro.
Furono la prova generale di un’operazione studiata a tavolino, e perfettamente riuscita, per abituarci alle maniere spicce e sfigurare i fondamentali della democrazia liberale e dello Stato di diritto. Chi nel 2001 non era nato o andava all’asilo non ha mai avuto la fortuna di vederli. Così non ne sente neppure la mancanza.
Montanelli l’aveva già capito il 17 marzo 2001, nel pieno delle polemiche sulla mia intervista al Satyricon di Luttazzi sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri e la mafia: “Questa non è la destra, questo è il manganello”. E così altri tre vegliardi Bobbio, Galante Garrone e Sylos Labini che raccolsero l’appello di Flores d’Arcais su Micromega contro B. “pericolo per la democrazia”. Il 13 maggio Berlusconi non vinse, stravinse le elezioni. Primo atto: la mattanza di Genova. Rai e Mediaset censurarono le scene più crude, salvo il Tg5 di Mentana e il Tg3. Un cineoperatore del Tg2 riuscì a riprendere 20 minuti di pestaggi ai manifestanti. Si vedeva un gruppo di ragazzine che urlavano “Siamo delle Acli!”, mentre la polizia le massacrava di botte. Ma il filmato non fu trasmesso. Lo utilizzò un inviato del Tg1, Bruno Luverà, per un reportage che gli valse il premio Saint Vincent.
Dieci giorni dopo anche La7, unica alternativa al monopolio televisivo, fu normalizzata col passaggio di Telecom a Tronchetti Provera, che subito smantellò il palinsesto già pronto con Lerner direttore del tg e i programmi di Fazio e dei Guzzanti.
A settembre, dopo la strage delle Torri Gemelle, l’Italia entrò in guerra contro l’Afghanistan. Il 12 gennaio 2002 Borrelli aprì l’anno giudiziario col celebre “resistere, resistere, resistere”.
Subito dopo partirono i girotondi.
Intanto B. si pappava la Rai con un Cda di stretta osservanza e un dg, Agostino Saccà, che aveva appena dichiarato: “Voto Forza Italia con tutta la mia famiglia”.
E Violante ricordava a B. le benemerenze del centrosinistra: “Nel ‘94 gli è stata data la garanzia piena che non gli sarebbero state toccate le tv. Lo sa lui e lo sa Gianni Letta”. Il premier, da Sofia, ordinò alla sua Rai di cacciare Biagi, Santoro e Luttazzi.
Detto, fatto. Il 9 luglio il Cda bloccò pure la messa in onda del documentario Bella ciao di Freccero (appena rimpiazzato a Rai2 col leghista Marano), Marco Giusti e Roberto Torelli sulla macelleria di Genova, appena applaudito al Festival di Cannes, ma proibito in Italia.
Poi, nell’estate 2004, i vertici Ds pensarono bene di invitare alla Festa nazionale dell’Unità in programma a Genova l’ex ministro dell’Interno Scajola, responsabile politico della repressione.
Padellaro, condirettore dell’Unità, scrisse un editoriale dal titolo sarcastico: “I testimoni di Genova”: “È possibile che Scajola ci racconti finalmente chi diede l’ordine dei pestaggi al G8? No, il massimo che possiamo attenderci è qualche cautissima, genericissima, fumosissima apertura al dialogo destinata a evaporare con la fine dell’estate, quando riapriranno il Parlamento e Porta a Porta”.
Rispose tal Paganelli, responsabile della Festa: “Appare perlomeno singolare la scelta dell’Unità (giornale) di dedicare all’Unità (festa) un editoriale di critica alla vigilia dell’apertura”. E Vannino Chiti: “La gente non vuole una contrapposizione frontale permanente”. Colombo e Padellaro, nella serata inaugurale della Festa, furono accolti da un lungo applauso della folla in piedi. Pochi mesi dopo, fu cacciato Colombo. Poi anche Padellaro. Chiamare regime il regime non portava buono. Nemmeno a sinistra.
Il Fatto Quotidiano - Giovedì 9 aprile 2015
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