domenica 14 giugno 2020

Italia 90, l’eredità del Mondiale trent’anni dopo: ecomostri, stazioni ferroviarie mai completate e stadi fatiscenti – Le storie. - Lorenzo Vendemiale

Italia 90, l’eredità del Mondiale trent’anni dopo: ecomostri, stazioni ferroviarie mai completate e stadi fatiscenti – Le storie

La grande occasione persa della competizione iridata, costata oltre 7mila miliardi di lire, lascia ancora oggi le sue cicatrici, da Nord a Sud. A Roma la stazione Farneto non è mai nata, Vigna Clara è ora alla fase del collaudo e Ostiense è diventata la sede di Eataly. A Napoli restano i misteri della Ltr, a Milano l'ecomostro Hotel Mundial è stato abbattuto come lo stadio Delle Alpi a Torino, a Bari il futuro del San Nicola è un'incognita. Ecco le loro storie.
Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)
Stazioni mai entrate in funzione, ecomostri di cemento, stadi disgraziati. Ilfattoquotidiano.it ha raccontato la grande occasione perduta dei Mondiali di Italia ’90, costati oltre 7mila miliardi di lire, tra sprechi, ritardi e progetti scriteriati. Ma non è vero che di quella stagione non resta più nulla: da Roma a Milano, da Nord a Sud, in giro per il Paese ancora oggi si possono vedere ruderi e incompiute di quel Mondiale. Queste sono le loro storie.
Farneto, Vigna Clara, Ostiense: sono le tre stazioni mondiali praticamente mai aperte, tre progetti scellerati costati allo Stato complessivamente oltre 400 miliardi di euro. La loro storia è tragicomica, farebbe ridere se non ci fosse da piangere. Partiamo dalla stazione Farneto: distante meno di un chilometro dall’Olimpico, doveva essere l’hub finale del trasporto dei tifosi allo stadio. Peccato che, nonostante i 15 miliardi di lire spesi, fosse completamente inadatta: chi l’aveva progettata, non aveva pensato che quel breve tratto di centinaia di metri correva in realtà su una strada buia, pericolosa e ad alta percorrenza, non il massimo per il transito di migliaia di tifosi in piena notte. Per non parlare delle misure sbagliate del tunnel: solo dopo averlo completato, ci si accorse che non c’era spazio sia per i treni che per la banchina. Per inserire il marciapiede fu eliminato uno dei due binari. Alla fine aprì per un paio di settimane, ci passarono appena 12 convogli, poi fu richiusa per sempre. Finita al centro di inchieste, è stata occupata per anni da gruppi di estrema destra, poi sgomberata nel 2015.
La sua storia si intreccia con quella di Vigna Clara, stazione di testa dello stesso collegamento, che di miliardi ne costò circa 80: attivata in occasione dell’inaugurazione dei Mondiali (ma ancora incompiuta), chiusa al termine della manifestazione, fu posta sotto sequestro nel 1993 nell’ambito di un’indagine su presunte irregolarità della pubblica amministrazione nella realizzazione del collegamento. I reati ipotizzati erano abuso e omissione di atti d’ufficio, gli imputati finirono tutti prosciolti. Nonostante tutto, la linea sarebbe stata preziosa per unire su ferro Roma Nord a Roma Sud e così nel corso degli anni si è parlato più volte di recuperarla, con diversi progetti che sono partiti e puntualmente si sono arenati. L’ultimo, che prevede il collegamento tra Vigna Clara e Valle Aurelia, avanza faticosamente proprio nelle ultime settimane sembra arrivata alla fase conclusiva, quella del collaudo. Chissà che non sia la volta buona.
Quanto all’Air Terminal di Ostiense, terminal aeroportuale che avrebbe dovuto portare a Fiumicino, ambizioso progetto firmato dagli architetti Lafuente e Sanrocchi, è costato appena 350 miliardi di lire. I calcoli di afflusso però erano sbagliati: i passeggeri erano troppo pochi, i negozi chiusero uno dopo l’altro, l’impianto accumulava perdite e fu abbandonato. Si trasformò prima in un ricovero per senza tetto, poi ci volevano fare un centro commerciale, quindi di nuovo una stazione, alla fine oggi è diventata la sede di Eataly.
Sotto viale Augusto che ce sta?”. È uno dei più grandi scandali di Italia ’90, tanto da diventare una canzone di Edoardo Bennato, che col suo alter-ego blues, Joe Sarnataro, negli anni Novanta cantava i misteri della Ltr. La famosa “Linea tranviaria rapida”, o metro leggera che dir si voglia, che avrebbe dovuto portare i tifosi al San Paolo attraversando viale Augusto. Le stazioni furono costruite, la linea mai inaugurata. A pochi mesi dal torneo, ci si accorse che la stazione di Piedigrotta era una specie di pozzo profondo trenta metri, da cui i passeggeri avrebbero dovuto emergere superando cinque piani di scale di ferro, 121 gradini, senza ascensore. Si decise di ovviare con un ingresso alternativo, qualche centinaio di metri più avanti, ma la talpa Hydroshield, che stava scavando la galleria, fu inghiottita dal terreno. Alla domanda di Bennato, ancora non si è avuta risposta.
Sette piani, 300 camere, 180mila metri cubi di cemento: questo avrebbe dovuto essere l’imponente progetto dell’Hotel Mundial, l’enorme albergo nella periferia sud-est di Milano, costato 10 miliardi di lire. Si sono disputati ben cinque mondiali di calcio senza che abbia mai aperto. Collocato tra i Comuni di Milano e Ponte Lambro, immerso in una grande area verde, a due passi dallo svincolo di autostrada e tangenziale, avrebbe dovuto essere il quartier generale dei tifosi in arrivo da ogni parte del pianeta. Di tifosi in realtà non se ne videro così tanti, ma soprattutto l’hotel non era pronto: passato il torneo e ogni barlume di utilità, il progetto fu abbandonato a se stesso. È rimasto l’ecomostr, ed è arrivato presto anche il degrado, lo spaccio, le occupazioni abusive. Negli anni si sono sprecate anche le proposte di riqualificazione: carcere, polo sanitario, caserma, residenze universitarie. Tutte naufragate. Alla fine l’enorme scheletro di cemento fu abbattuto nel 2012, sotto la giunta Pisapia.
Bello era bello, non c’è che dire. Lo sarebbe ancora, se soltanto non cadesse a pezzi. Lo stadio San Nicola di Bari è forse il simbolo perfetto degli strani mondiali di Italia ’90, perché ne racchiude al contempo la magia e gli errori, la bellezza e gli sprechi. Costato 153 miliardi di lire, firmato dal grande Renzo Piano, fu uno dei centri nevralgici del torneo, con la finale per il terzo posto degli azzurri contro l’Inghilterra, amara consolazione del sogno mondiale infranto. Un anno dopo avrebbe ospitato addirittura la finale di Coppa Campioni vinta ai rigori dalla Stella Rossa contro l’Olympique Marsiglia. Due anni di gloria non sono bastati a fermarne l’inesorabile declino. Costruito nella periferia ovest della città, anzi proprio nel nulla, si è trasformata pian piano in una cattedrale nel deserto: sui desolati terreni circostanti si sono ciclicamente rinnovati una serie di appetiti immobiliari, mai però concretizzati insieme alla valorizzazione dell’impianto. Un po’ come la squadra locale, l’“astronave” non è mai riuscita a decollare veramente e si è ridotta in avaria: 13 dei 24 teloni in teflon, simbolo dello stadio, si sono staccati uno dopo l’altro, così alla fine l’amministrazione si è decisa a rimuoverli tutti. Soltanto di recente il Comune del sindaco Antonio Decaro ha approvato un primo, piccolo progetto di restyling, con la sostituzione di migliaia di seggiolini. E ha affidato per 5 anni l’impianto al nuovo Bari di De Laurentiis. Il futuro, però, resta un’incognita.
Al Delle Alpi è come giocare sempre fuori casa”. Con questa frase l’avvocato Agnelli sentenziò la condanna a morte dello stadio Delle Alpi, il più grande errore di Italia ‘90, almeno sotto il profilo dell’impiantistica sportiva. 160 miliardi di lire, con il rincaro più alto di tutta la manifestazione (+214% sul preventivo), per uno stadio durato appena 16 anni: inaugurato nel ’90, fu chiuso nel 2006 e abbattuto nel 2009. Fra queste due date c’è la storia di uno stadio disgraziato, troppo grande per le reali esigenze della città (eccessivi 69mila posti), pure scomodo per l’enorme pista di atletica pretesa dal Coni e quasi mai utilizzata, sempre mezzo vuoto, costoso e poco redditizio. Un disastro, insomma. Ad averne segnato il destino non furono solo i suoi difetti, ma anche gli interessi economici dei club, Juventus e Torino, che speravano di avere qualcosa di meglio e per questo gli dichiararono guerra, arrivando anche a minacciare il Comune di lasciare la città. Ed è così che a inizio Anni Duemila ci fu la svolta, con lo zampino di un altro grande evento sportivo, i Giochi di Torino 2006: con l’occasione delle Olimpiadi, si arrivò all’accordo per cui il Delle Alpi, insieme alla famosa area della Continassa, fu assegnato per 99 anni alla Juventus al prezzo estremamente vantaggioso di 25 milioni di euro. Sulle ceneri del vecchio impianto sarebbe sorto lo Juventus Stadium, diventato uno dei segreti del successo bianconero. Col senno di poi, si può dire che in fondo il Delle Alpi è stata una benedizione, almeno per la Juve.
Fossero solo queste le cattedrali nel deserto probabilmente volute e costruite dai riciclatori di denaro proveniente da operazioni che non hanno alcun sentore di legalità.
L'italiano è così corrotto, anche a livelli istituzionali, che temo sarà sempre più difficile tornale alla normalità.
Troppa corruzione, troppa smania di apparire, troppa voglia di arricchire e presto, ...
Siamo senza speranza. c.

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