Il bello delle statue abbattute perché immortalano personaggi colpevoli di essere vissuti secoli fa in modo diverso dal nostro, è che chi si scaglia contro la riscrittura della storia col senno di poi sta facendo la stessa cosa sulle misure anti-Covid. Ma non dopo secoli: dopo tre mesi. Basta ricordare cosa dicevano a febbraio-marzo politici, giornali e imprenditori di destra contro le zone rosse, gli stessi che ora emettono sentenze di condanna contro il governo. Scambiano i testimoni Conte, Speranza e Lamorgese per indagati “alla sbarra”, anzi per pregiudicati. E sorvolano sulla pm Rota che ha ritrattato l’incauta dichiarazione rilasciata dopo le audizioni di Fontana e Gallera sulle zone rosse spettanti al governo centrale. E ha precisato di aver solo riportato la versione dei due politici lombardi. Cioè una falsa testimonianza, alla luce della legge 883/1978 e del decreto 22.2.2020. Se non ci fossero di mezzo migliaia di morti (molti più di quelli che avremmo avuto se la Regione avesse chiuso la Val Seriana al primo allarme sul suo focolaio di Alzano, anziché riaprire l’ospedale in 3 ore e dormirci su 15 giorni, finché l’Sos fu raccolto dal Cts a Roma il 3 marzo e poi dal governo fra il 5 e il 7, quando ormai tutta la Regione era infetta), il “Senti chi parla” sarebbe uno spasso.
Il Cazzaro Verde intima a Conte di “scusarsi coi parenti e gli amici dei troppi bergamaschi morti”. Lui che il 27 febbraio inguaiava i vertici della Lombardia: “Il Paese affonda, con i governatori leghisti concordiamo che occorre riaprire tutte le attività e tornare alla normalità”. E l’indomani rincarava: “Voglio dire a Conte che il problema non è la zona rossa, ma riaprire subito tutto. Si torni a produrre, a comprare, a sorridere”. Infatti il 29 febbraio l’apposito Gallera proclamò: “Non sono all’ordine del giorno nuove zone rosse, nemmeno ad Alzano e in Val Seriana”. Per fortuna poi la palla passò al governo, che chiuse tutta la Lombardia e altre province, poi l’intero Paese. Alle sparate ciclotimiche del Cazzaro si associavano come un sol uomo il Giornale e Libero, che ora trattano Conte da criminale per aver fatto ciò che non ha mai voluto fare la Lombardia (diversamente da regioni molto meno contagiate, che disposero 46 zone rosse e 70 arancioni in autonomia). Sentite Sallusti News, ieri: “Conte si autoassolve”, “Premier alla sbarra (sic, ndr) uno choc per M5S”, “L’incubo del premier”. È lo stesso house organ che il 28 febbraio esultava: “Isolato Conte. Il Nord riparte. Riaprono musei e duomo” . E Sallusti salmodiava: “Adesso bisogna velocemente tornare alla piena normalità, unica ricetta per sconfiggere paure e falsi allarmismi”. Nostradamus gli faceva una pippa.
Intanto i focolai divampavano in tutta la Lombardia. Ma il 2 marzo la cantatrice calva di Arcore oracolava: “Pensare di salvare lo Stato e far morire l’economia è pura utopia. Salviamo a ogni costo commercio e impresa e lo Stato si salverà”. Il 5 marzo altra apertura memorabile: “Sanno solo chiudere”. Ora vogliono il premier all’ergastolo perché non chiuse quando non volevano loro.
Libero è il consueto angolo del buonumore. Titolo: “Conte torchiato tre ore. La pm non lo assolve” (e come si assolve un testimone?). Editoriale di Annalisa Chirico, quella che fa l’innocentista anche sul mostro di Rostov e voleva riaprire l’Italia ancor prima che chiudesse: “Le vittime non avranno giustizia”. E autorevole analisi di Renato Farina in arte Betulla, che di processi se ne intende avendo patteggiato per concorso in sequestro di persona: “Conte ha voluto i pieni poteri. Fugge le responsabilità. Scarica le sue colpe su chi capita, perfino sugli imprenditori”. È lo stesso virologo della mutua che tre mesi fa fustigava il premier perché prendeva sul serio il virus: “È un pirla di virus qualsiasi”, “non montiamogli la testa” con inutili restrizioni. Era il 27 febbraio e Libero titolava: “Virus, ora si esagera. Non ha senso penalizzare ogni attività”. E il 28: “La normalità è vicina. Il virus ci ha stufati: si torni a vivere”. Cioè a morire. Il 2 marzo, capolavoro feltriano: “Lasciateci lavorare. Dopo i veneti, anche i lombardi scendono in piazza per essere liberati da alcune restrizioni. Confindustria e sindacati chiedono a Conte di riprendere l’attività”. Ora vogliono impalarlo per aver chiuso troppo poco e tardi.
Poi c’è il mondo a parte dei giornaloni, che scrivono tutti lo stesso pezzo. L’idea che un premier faccia il suo dovere di testimoniare senza strillare al complotto o tentare di sottrarsi (come B., Salvini e Napolitano sulla Trattativa) li sgomenta. La scena, normale fra persone perbene, “non è bella” per Claudio Tito di Repubblica; fa “una certa impressione” a Marcello Sorgi della Stampa; ed è “preoccupante” per Massimo Franco del Corriere. Seguono le solite geremiadi sulla “politica debole” (infatti Conte non ha sparato ai pm) e la “supplenza della magistratura”. Tutta colpa dei 5Stelle (e di chi, se no?) che, assicura Tito in un idioma non indoeuropeo, hanno “sistematicamente agito per trattenere la politica nel perimetro ancellare della propaganda e della giustizia sistematica”. Tito aggiunge che il governo è stato “incapace di spiegare all’opinione pubblica o meglio di persuaderla delle scelte compiute”. È lo stesso Tito che sparava sulle conferenze stampa in cui Conte spiegava e persuadeva. Perché i politici sono quello che sono, ma certi giornalisti riescono sempre a essere peggio.
Libero è il consueto angolo del buonumore. Titolo: “Conte torchiato tre ore. La pm non lo assolve” (e come si assolve un testimone?). Editoriale di Annalisa Chirico, quella che fa l’innocentista anche sul mostro di Rostov e voleva riaprire l’Italia ancor prima che chiudesse: “Le vittime non avranno giustizia”. E autorevole analisi di Renato Farina in arte Betulla, che di processi se ne intende avendo patteggiato per concorso in sequestro di persona: “Conte ha voluto i pieni poteri. Fugge le responsabilità. Scarica le sue colpe su chi capita, perfino sugli imprenditori”. È lo stesso virologo della mutua che tre mesi fa fustigava il premier perché prendeva sul serio il virus: “È un pirla di virus qualsiasi”, “non montiamogli la testa” con inutili restrizioni. Era il 27 febbraio e Libero titolava: “Virus, ora si esagera. Non ha senso penalizzare ogni attività”. E il 28: “La normalità è vicina. Il virus ci ha stufati: si torni a vivere”. Cioè a morire. Il 2 marzo, capolavoro feltriano: “Lasciateci lavorare. Dopo i veneti, anche i lombardi scendono in piazza per essere liberati da alcune restrizioni. Confindustria e sindacati chiedono a Conte di riprendere l’attività”. Ora vogliono impalarlo per aver chiuso troppo poco e tardi.
Poi c’è il mondo a parte dei giornaloni, che scrivono tutti lo stesso pezzo. L’idea che un premier faccia il suo dovere di testimoniare senza strillare al complotto o tentare di sottrarsi (come B., Salvini e Napolitano sulla Trattativa) li sgomenta. La scena, normale fra persone perbene, “non è bella” per Claudio Tito di Repubblica; fa “una certa impressione” a Marcello Sorgi della Stampa; ed è “preoccupante” per Massimo Franco del Corriere. Seguono le solite geremiadi sulla “politica debole” (infatti Conte non ha sparato ai pm) e la “supplenza della magistratura”. Tutta colpa dei 5Stelle (e di chi, se no?) che, assicura Tito in un idioma non indoeuropeo, hanno “sistematicamente agito per trattenere la politica nel perimetro ancellare della propaganda e della giustizia sistematica”. Tito aggiunge che il governo è stato “incapace di spiegare all’opinione pubblica o meglio di persuaderla delle scelte compiute”. È lo stesso Tito che sparava sulle conferenze stampa in cui Conte spiegava e persuadeva. Perché i politici sono quello che sono, ma certi giornalisti riescono sempre a essere peggio.
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