Garante per i rigoristi - Con l’ex Bce l’Italia farà le riforme europee, ma (un po’) meno austerità. Le partite di Mr Ue: nomine, Colle, soldi.
Paolo Gentiloni ha avuto un ruolo determinante nel passaggio dal governo Conte-2 a quello di Mario Draghi: è evidente dalle sue mosse negli ultimi mesi, dalle nomine nel nuovo esecutivo e, ora, anche dalle sue parole. In una lunga intervista rilasciata ieri a La Stampa il commissario Ue chiarisce perché l’ex presidente della Bce è a Palazzo Chigi e per fare cosa. Partiamo proprio da qui: la recessione innescata dal Covid, com’è noto, non ha paragoni in tempo di pace e ora bisogna stare attenti a “evitare gli errori fatti nella crisi del 2008 e non tarpare le ali alla ripresa”, eliminando gli aiuti troppo presto. In particolare, dice Gentiloni, “nelle prossime settimane decideremo (a livello europeo, ndr) se e come prolungare il congelamento del Patto di Stabilità, mentre nei prossimi mesi avvieremo una riflessione cruciale su come ricalibrarlo”.
Tradotto: l’Italia deve evitare in ogni modo che tornino i vecchi vincoli di bilancio che ci costringerebbero a fare forti avanzi primari (austerità) fin dal 2023. Il governo Conte – è il ragionamento – non dava abbastanza garanzie ai rigoristi del Nord Europa: “Un’Italia finalmente virtuosa può spostare gli equilibri interni all’Ue”, essendo “più concentrata sulle riforme strutturali per una crescita sostenibile e meno disattenta alla dinamica del debito” (si tratterebbe, par di capire, di fare da soli quel che dice Bruxelles per evitare che ce lo chiedano dopo). Al di là di questo, Draghi – sempre secondo Gentiloni – dà maggiori garanzie sulla collocazione internazionale dell’Italia, insomma piace di più agli Usa: “Il governo Draghi è fortemente atlantista ed europeista”, mentre Conte da premier gialloverde aveva “avuto alcune gravi sbandate. Il nuovo governo ha ora le carte in regola non solo per farsi accettare, ma anche per farsi valere in Europa. Una differenza notevole”. Per non fare che un esempio, “l’atlantismo” di Draghi conterà assai su una partita come quella del 5G, centrale nel Recovery Plan, che gli americani vogliono “depurare” della presenza cinese: le deleghe sul tema a Giancarlo Giorgetti e Vittorio Colao – che Gentiloni già “impose” a Conte ai tempi della famigerata task force – sono una garanzia per Washington.
Questa sorta di “confessione” di Gentiloni permette di rileggere in controluce le mosse del commissario europeo dalla fine dell’anno scorso: attento a non sbilanciarsi, Gentiloni ha fatto da sponda all’operazione Draghi, disseminando segnali più forti via via che Conte si indeboliva. D’altra parte, Gentiloni e Draghi si conoscono da tempo e sono tra i principali punti di riferimento (informali) di Sergio Mattarella su quanto si muove sullo scenario internazionale. Era ancora novembre quando il Corriere pubblicò stralci di un documento del capo di gabinetto di Gentiloni, Marco Buti, che insisteva sulla necessità di una cabina di regia per il Recovery Plan, ma esprimeva anche una serie di preoccupazioni sulle fragilità italiane. Due giorni dopo, il commissario Ue smentiva ritardi del nostro paese. Una sorta di gioco delle parti che, comunque, puntava i riflettori sulla gestione dei fondi da parte di Conte.
Nei due mesi successivi, Gentiloni ha buttato lì i suoi timori sulla situazione italiana, senza attaccare mai Conte. Il 29 dicembre a Repubblica, Gentiloni esprimeva preoccupazione per la “qualità” del Recovery Plan italiano e sulla capacità di attuarlo, invocando procedure straordinarie; all’Eurogruppo del 18 gennaio esprimeva l’esigenza di un suo rafforzamento con obiettivi e riforme. Intanto in Italia, la linea del commissario europeo era quella di Luigi Zanda, stavolta distante sia dal suo capo-corrente Franceschini che dal segretario Zingaretti: il 3 gennaio invitava Conte ad affrontare “le fratture” aperte da Renzi; il 17 – mentre il Pd si attestava sulla linea “o Conte o voto” – si esprimeva contro le elezioni; il 1° febbraio, mentre Roberto Fico “esplorava”, lanciava un governo di “alte personalità”. E così, di fatto, il congresso del Pd si è aperto in mezzo alla crisi.
Anche nell’esecutivo non mancano le impronte di Gentiloni: il capo di gabinetto di Draghi è lo stesso che fu con lui a Palazzo Chigi, Antonio Funiciello; lo stesso Colao è passato dalla task force a un ministero; un pezzo della burocratja ministeriale è stata suggerita da lui. Draghi non ha certo bisogno di king maker, ma l’aiuto lo avrà gradito di sicuro.
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