Le fiamme provocate forse da un corto circuito hanno distrutto due baracche. Due baracche sono state distrutte da un incendio la scorsa notte nel 'ghetto' di Borgo Mezzanone, l'agglomerato abusivo in cui vivono numerosi migranti, sorto a pochi chilometri da Foggia. Non ci sono feriti e le fiamme sarebbero state causate da un corto circuito. Questo è il secondo incendio che si verifica in pochi giorni: il primo è avvenuto nella notte tra sabato e domenica.Altri due incendi nel ghetto sono divampati il 30 ottobre e il primo novembre scorsi: in quest’ultimo perse la vita un migrante. Le fiamme, la notte scorsa, hanno investito anche alcuni cumuli di rifiuti accatastati accanto alle baracche che si sono incendiate. Le costruzioni avvolte dalle fiamme si trovavano nella parte opposta alla zona interessata dalle operazioni di abbattimento di 11 manufatti abusivi, avvenuta la scorsa settimana. Il ghetto è interessato da una serie di azioni programmate dalla Procura di Foggia e dalla Prefettura che porteranno, nel corso dei mesi, ad un progressivo smantellamento dell’insediamento abusivo. Secondo quanto riportato nel decreto di sequestro preventivo a firma del Gip del Tribunale di Foggia, Manuela Castellabate, occorre demolire la baraccopoli anche per l'assenza di servizi fognari, una condizione che «accrescerebbe il rischio già allo stato allarmante di un danno ambientale». https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/foggia/1128072/ancora-incendi-a-borgo-mezzanone-nessun-ferito-secondo-rogo-in-pochi-giorni.html
Un fenomeno preoccupante e largamente diffuso sul territorio italiano, anche se ampiamente sottovalutato, è quello della mafia nigeriana. L’episodio di Roma San Lorenzo, del truce omicidio della povera Desirée, come quello precedente di Pamela a Macerata, violentata, uccisa e fatta a pezzi dai nigeriani, sembrano confermare l’allarme. Del resto il presunto quarto assassino della ragazza di Roma, Salia Yusif, in fuga dalla polizia, aveva lasciato Roma per tornare a Borgo Mezzanone, nel Foggiano, dove aveva già soggiornato fino al 2014 presso il C.A.R.A. Si era anche tagliato i capelli per non farsi riconoscere e viveva nella baraccopoli adiacente, ove è sorto un insediamento di immigrati che non hanno più titolo ad essere ospitati all’interno della struttura, e dove la mafia nigeriana ha creato dei potenti feudi di controllo sull’intera area.
Li chiamano «cult», dominano il racket da Torino a Palermo, tengono legami anche con i clan di Ballarò. «Ho fatto tre informative a tre procure diverse, Roma, Bologna e Palermo, interessate al fenomeno che si sta espandendo a macchia d’olio in tutta Italia e tutta Europa», ha detto alla Commissione parlamentare sulle periferie il commissario della municipale Fabrizio Lotito. Gerarchia mafiosa, riti d’iniziazione, cosche: «Torino è la città con il maggior numero di immigrati nigeriani, a ruota segue l’Emilia Romagna. Le nostre indagini su questo fenomeno mafioso vedono come attori principali i ‘cult’, nati nelle università nigeriane degli anni Settanta, poi evolutisi fuori e giunti anche in Italia».
Probabilmente anche l’agguato dello scorso settembre ai giardini Alimonda di Torino contro due poliziotti antidroga circondati e pestati da una trentina di spacciatori africani, dimostra la violenza del fenomeno. La mafia nigeriana comanda ormai in molte periferie italiane, anche in quel corso Giulio Cesare così multietnico che gli ultimi bottegai locali espongono in vetrina il cartello «negozio italiano».
Black Axe, Maphite, Supreme Eiye Confraternity, Ayee sono nomi di «cult» che riempiono ormai da anni le cronache giudiziarie, molto bene lo sanno gli inquirenti e gli abitanti delle zone più interessate, il fenomeno però è meno conosciuto per l’opinione pubblica. Le prime vittime dei «don» (i capi) sono ragazze nigeriane vendute come schiave e giovani nigeriani (baseball cap) ridotti a elemosinare davanti ai bar delle grandi città per ripagare debiti di famiglia contratti in Nigeria.
Il traffico di giovani nigeriane verso l’Europa, che diventano schiave del racket e di riti vudù, è in continua ascesa. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), in Italia nel 2014 sono arrivate dalla Nigeria, via mare, 1.450 donne, 5.600 nel 2015, oltre 11.000 nel 2016, in buona parte minorenni. Il 2017 sembra confermare il trend, con 4.000 ragazze sbarcate nei primi sei mesi dell’anno. Le stime di OIM dicono che l’80% delle giovani in arrivo dal Paese africano è destinato alla prostituzione.Le nigeriane sono diventate una fetta consistente del mercato italiano che vale 4 miliardi di euro all’anno: il 55% delle prostitute in Italia sono straniere e il 36% di loro è di nazionalità nigeriana (Istat). L’85% delle prostitute nigeriane proviene dalla stessa città: Benin City, l’hub africano della prostituzione.
Il traffico degli esseri umani è una delle sue più importanti fonti di sostentamento, con introiti che non sfamano diversi strati della popolazione, comprese le famiglie delle vittime. «Ti chiamano trafficante e vogliono processarti», dice Exodus che per venti anni ha vissuto tra Benin City e la Libia e si è arricchito grazie alla tratta. «Guardiamo però alle operazioni del Naptip: arrestano un trafficante, ma poi si scopre che la famiglia era coinvolta, era d’accordo. Quindi anche loro sono trafficanti. E il passeur non è un trafficante? I poliziotti? La polizia prende i soldi dalle persone e permette loro di andarsene. Vuoi dirmi che non ci sono poliziotti nelle città al confine con il Niger? Vuoi dirmi che non ci sono funzionari dell’immigrazione? Vuoi dirmi che non ci sono posti di blocco? Dove sono tutti, dormono? E i giudici? Anche loro trafficanti! Le Ong? Ti dico solo una cosa: soldi, soldi, soldi. In America dicono ‘Money talks, bullshit walks’».
Exodus dice di non sentirsi in colpa, anzi di considerarsi un benefattore perché ha aiutato i suoi concittadini ad andarsene da un Paese povero e corrotto, inoltre, secondo lui, Tv, giornali e social media spaccerebbero dati gonfiati sulle morti «Nessuna delle ragazze che ho portato in Libia è mai morta nel Sahara. A non farcela sono le persone che partivano già malate». Purtroppo non è così, come dimostra anche l’ultimo ritrovamento, a novembre 2017, di 26 corpi senza vita di donne arrivate a Salerno, tutte di nazionalità nigeriana. Comunque non esiste un boss in questo business, dicono sia lui che il comandante del Naptip, là chiunque può diventare un trafficante, basta conoscere delle ragazze che vogliano partire e non serve nemmeno sforzarsi troppo per convincerle.
È un errore di valutazione dunque sottovalutare la mafia nigeriana, perché interessa almeno venti città (Torino e Bologna in testa) e dieci regioni coinvolte nella sua rete, e che conta in giro per il mondo trentamila affiliati in quaranta Stati.
Al Sud dove le mafie autoctone mantengono il controllo militare, la mafia venuta da Benin City ha stretto patti, come a Ballarò. Al Nord picchia duro: nel 2017, su 12.387 reati firmati dalla criminalità nigeriana (un quinto di quelli commessi da tutti gli stranieri da noi), 8.594 avvengono al Nord, 1.675 al Centro, 1.434 al Sud, 684 nelle Isole.
A Torino si è aperta l’operazione dei carabinieri Athenaeum, che documenta il legame tra Maphite e Eiye. Giovanni Falconieri sul Corriere di Torino ha raccontato di un pentito che descrive i Maphite in termini sconvolgenti: «Sono sbarcati a Lampedusa e la gente ha paura di loro… Non hanno rispetto per la vita».
Poi il giudice torinese Stefano Sala, in quasi 700 pagine di ordinanza, motiva le sentenze su 21 membri di Eiye e Maphite: «I moduli operativi delle associazioni criminali nigeriane sono stati trasferiti in Italia in coincidenza con i flussi migratori massivi cui assistiamo in questi anni» (…), «tra gli immigrati appena sbarcati vengono reclutati i corrieri che ingoiano cocaina».
Se Torino è la nostra città più permeata dalla migrazione nigeriana, Bologna è considerata «la capitale» del cultismo, lo spaccio nella centrale Bolognina e nelle periferie è da anni in mano ai Black Axe. Ma le ordinanze che si moltiplicano, con le operazioni di carabinieri e polizia, descrivono un’onda assai più lunga: Black Axe, a Palermo, 2016; Aquile Nere, Caserta, stesso anno. Cults, a Roma, 2014. Niger, Torino 2005. Ancora Black Axe, Castello di Cisterna, Napoli, 2011.
«Noi siamo nate morte», raccontano le schiave nigeriane della Domiziana al sociologo Leonardo Palmisano in un libro di prossima uscita «Ascia Nera».
Nella «pista» di Borgo Mezzanone (Foggia) incomincia la bidonville dei migranti, Ogni giorno tirano su nuove baracche, sorte tra montagne di rifiuti, roghi di plastiche, fumi neri, prive di bagni, dove le ragazze appena arrivate sostano davanti al bordello.
Una vera e propria bidonville «il Ghetto» dei migranti, di cui nessuno sa niente in Italia, se non gli abitanti della zona, preoccupati per alcune bande nigeriane che controllano il territorio, dove la legalità è sparita da un pezzo e gli episodi di violenza minacciano quotidianamente quella terra di nessuno.
I militari presidiano il Cara, ma qualche metro più in là la baraccopoli ha una vita propria, e così un docente ammette «Qui i problemi sono troppi. Si mischiano diverse forme di illegalità. Diversi tipi di migrazione. Siamo soli, abbandonati, inascoltati. Qui manca tutto, bisognerebbe ripristinare la legalità ad ogni livello».
Naturalmente i media globalisti cercano di oscurare queste notizie, zitti e mosca sulla nuova mafia nigeriana, che attraverso l’immigrazione fuori controllo di questi ultimi anni è approdata in Italia ed ha tutta l’intenzione di usare il nostro Paese come terra da sfruttare, per poi dilagare in tutta Europa. Il business è già radicato sul territorio e attraverso l’esportazione del crimine, della violenza contro le donne, dello spaccio di droga, garantisce non solo l’aumento del tasso di criminalità, ma anche di aggiungere un altro nuovo rischio per una serena convivenza urbana, in una società sempre più multiculturale.
Nonostante Gad Lerner dica un’altra cosa «Dopo Pamela, guardiamo attoniti la vita e la morte di Desirée: dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre 15enne, vittima di pusher immigrati. Vicende tragiche che dovrebbero suggerirci qualcosa di più e di diverso dall’odio razziale».
Credo che Gad, da buon radical chic, collezionista di rolex, cerchi di scaricare le responsabilità di chi ha permesso che le periferie delle città italiane venissero infestate dalla presenza della mafia nigeriana, tanto che intere strade sono ormai infestate dallo spaccio di droga e dalla prostituzione h24. Il nostro buonista globalizzato condanna l’odio razziale, ma non ha tenuto conto che può esistere un ‘razzismo’ naturale, di chi cerca di difendersi dall’invadenza di un’immigrazione fuori controllo, come quello degli animali che marcano il loro territorio, e quindi sono pronti a difenderlo da qualunque ingerenza esterna, e c’è un ‘razzismo’ culturale, indotto da archetipi che si perdono nella notte dei tempi (KG Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo).
Nessun odio razziale quindi, ci basterebbe non assistere più a queste orribili vicende, e poter garantire anche la sicurezza delle donne italiane per le strade delle nostre città, ma ormai non credo sarà più possibile per molto tempo ancora.
L’incendio è divampato verso le quattro del mattino. Sono quattro le baracche distrutte dalle fiamme.
FOGGIA - Ancora fiamme nella baraccopoli di Borgo Mezzanone: un uomo, presumibilmente africano, è rimasto gravemente ustionato nell’incendio divampato all’alba nel ghetto abusivo adiacente al Centro richiedenti asilo (Cara), a pochi chilometri da Foggia. L’uomo, che non è stato possibile identificare poiché non aveva documenti con sé, ha riportato ustioni sull'80% del corpo ed è stato immediatamente trasferito al Centro grandi ustioni di Brindisi. Le sue condizioni sono state definite gravi.Si tratta del secondo incendio nella baraccopoli in due giorni.
L’incendio è divampato verso le quattro del mattino. Sono quattro le baracche distrutte dalle fiamme. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco. Indagini sono in corso per cercare di risalire alla natura dell’incendio, il secondo che si verifica in due giorni. Martedì sera, infatti, un altro rogo ha coinvolto 30 baracche. In questo caso rimasero ferite quattro persone, di cui un 22 enne della Guinea che ha riportato ustioni su mani, piedi, collo e torace.
Fonte lagazzettadelmezzogiorno dell'1/11/2018
Dovrebbero chiudere questi "centri di accoglienza", in completo degrado. Quella che si fa in questi centri non è accoglienza, è annichilimento di tutto ciò che si definisce umanità! Cetta
Un nuovo incendio nel gran #ghetto di Borgo Mezzanone, in provincia di #Foggia. Questa notte le fiamme, divampate nell'area direttamente a ridosso del #Cara, avrebbero arso 4-5 baracche. Al momento non sembrerebbero esserci feriti gravi, ma si attendono ulteriori informazioni. La dinamica sembrerebbe essere sempre la medesima: causa dell'incendio, infatti, sembrerebbe essere ancora una volta una bombola di gas malfunzionante. Questo è il secondo incidente nell'arco di 48 ore. A causa dell'incendio divampato martedì sera è stato ricoverato presso il centro grandi ustioni di Brindisi un giovane originario della Guinea Conakry. Le sue condizioni sarebbero gravissime. I bollettini medici parlano di gravi ustioni sull'80% del corpo. In quell'#inferno, purtroppo, accade anche questo. #BorgoMezzanone#Fuoricampo#StayHuman
Baracche e rimessaggio nell’area nigeriana. A destra, due giovani nigeriane // Emma Barbaro
C’è una Puglia che non troverete nelle guide turistiche e nei percorsi mainstream. È la Puglia dei ghetti e dei caporali. La Puglia in cui lo Stato e l’anti-Stato sono un’unica: una realtà inscindibile.
Il 2 giugno scorso, festa della Repubblica, siamo rientrati nel gran ghetto di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. Mentre altrove – sulle pubbliche piazze – si celebrava lo Stato che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», che attribuisce «pari dignità sociale» e uguaglianza davanti alla legge, negli antri sperduti della nostra penisola si consumano quotidianamente crimini contro una porzione d’umanità che, ci piaccia o no, continua a esistere. Quella che stiamo per raccontarvi è la rapida evoluzione di ciò che gli esperti, quelli senza reticenze, definiscono «la più grande baraccopoli d’Europa.» Una vergogna a cielo aperto i cui numeri, oggi, sfiorano le 5 mila unità.
SODALIZI MAFIOSI. Cumuli di rifiuti e plastiche dati alle fiamme. Il puzzo che sale dalla ex pista del ghetto di Borgo Mezzanone è insopportabile. Eppure, come abbiamo previsto questo inverno, i numeri dei reietti che vivono nel ghetto sono destinati ad aumentare. Così come i nuclei abitativi. Ma chi fornisce a queste persone la materia prima per la costruzione delle baracche in mattoni e cemento? Chi alimenta lo spaccio di droga e la prostituzione, maschile e femminile, all’interno e all’esterno del ghetto? Chi contribuisce al giro d’affari criminale che si alimenta sulle spalle dei paria dell’umanità? Le risposte sono inequivocabili.
L’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia – approvata nella seduta dell’8 febbraio scorso – parla specificatamente di un sistema criminale che, a Borgo Mezzanone, si autoalimenta attraverso il sodalizio tra mafia nigeriana e ceppi mafiosi locali.
Realizzata col contributo dello scrittore ed etnografo Leonardo Palmisano – tra i primi ad analizzare e monitorare costantemente il fenomeno – la relazione censisce uno stato di fatto. Se la Sacra Corona Unita sembra vivere un momento di declino – la cui forza intimidatoria, tuttavia, continua a essere inversamente proporzionale alla necessità di esibirla – a stringere alleanze con la criminalità made in Nigeria ci pensa la mafia del Gargano. Una volta siglata la pax (provvisoria) tra i gruppi «dei montanari» – area garganica – e quelli «della pianura» – area Capitanata – l’interesse strategico delle cosche sembra essersi incanalato proprio verso l’ex pista di Borgo Mezzanone. Lì dove il traffico d’esseri umani e di stupefacenti sembra essere divenuto una realtà concreta attraverso il placet dei gruppi criminali stranieri.
Il «quarto potere» – così come viene definito dalla già citata relazione – si nutre di uomini e donne giovanissimi, importati direttamente dall’Africa come un tempo si faceva con le materie prime, allo scopo di garantire al sistema un flusso vitale minimo. Le più recenti relazioni della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) e della Direzione distrettuale antimafia (Dda) arricchiscono di particolari quella che ormai si è trasformata in una realtà tangibile. Un segnale incontrovertibile del fatto che le istituzioni sanno, monitorano, controllano. Ma perché, allora, non re-agiscono?
IL CARA. A dispetto di quel che si può ipotizzare, il sistema criminale sembra innescarsi direttamente dal Cara che sorge a ridosso della baraccopoli. Ebbene sì. Le reti metalliche prontamente squarciate in prossimità dell’area nigeriana, assicurano ai bordelli del ghetto un flusso di “materiale umano” da gestire e smistare continuamente. Il numero delle baracche realizzate per assicurarsi il controllo della prostituzione, maschile e femminile, è salito a sei. Tre in più di quelle che avevamo censito non più tardi di qualche mese fa. La più grande, quella che gli abitanti della baraccopoli definiscono «la discoteca», è il luogo prescelto per i festini a cui partecipano, spesso, i clienti abituali che costellano la provincia di Foggia. Vi si recano addirittura giovanissimi neolaureati per festeggiare “degnamente” la conclusione di percorsi di studio che avrebbero dovuto insegnare loro a vivere, prima ancora che ad assimilare concetti. Ma la pochezza morale, la bassezza delle intenzioni, sembra non avere limiti a Borgo Mezzanone. Il tutto, chiaramente, si svolge sotto lo sguardo vigile degli uomini dello Stato. Esercito, carabinieri e polizia, che non osano spingersi al di là della barriera metallica, osservano flusso e deflusso continuo di persone all’interno dei bordelli. Osservano anche me, mentre cerco di raccogliere elementi utili per tentare di dipanare la matassa. In silenzio, come si conviene. Più in là, nell’area centrale della baraccopoli, sorge invece la più grande chiesa pentecostale del ghetto. È quello il luogo in cui i nigeriani esercitano una vera e propria azione coercitiva e morale sui ragazzi, innescando le dinamiche dello sfruttamento. Mentre sono lì il prete, appena arrivato sulla pista con un’Audi A5, somministra sermoni ai numerosissimi adepti seduti ad ascoltarlo. A giudicare dagli occhi vacui e dalle movenze di molti di loro, sembrerebbe che la chiesa sia uno dei luoghi cardine in cui avviene lo smercio e la somministrazione di droghe. Che divengono, così, lo strumento ideale per tenere imbrigliati i ragazzi nelle maglie di uno sfruttamento che non conosce distinzioni di sesso, né d’età.
“CAVALLO BIANCO” Al ghetto la chiamano “cavallo bianco”. È una giovane donna, d’età indefinita, che si aggira ubriaca tra le baracche alla ricerca di “protezione”. Cavallo bianco è una zingara romena. Il colore del suo incarnato, dei suoi occhi, la rendono in questo contesto una merce tanto rara quanto pregiata. «Sono più simile a te, ecco perché tutti questi negri mi vogliono. Così io posso guadagnare un poco di più, senza problemi.» Sono queste le prime parole che pronuncia quando mi accompagna nella sua lurida stamberga, dove il nuovo protettore riposa indisturbato. Non so perché sceglie di raccontarmi la sua storia. Forse è troppo ubriaca persino per rendersi conto di infrangere la sacra regola del silenzio che vige nel ghetto. «Cosa faccio per vivere? Ma è semplice. Faccio la puttana. Sono una puttana da quando avevo dodici anni. Non posso lavorare in campagna perché ho ernia sulla pancia, sono già stata operata cinque volte», mi dice scoprendosi il ventre. Osservo bene e scorgo una lunghissima cicatrice che dall’altezza dell’ombelico si dipana verticalmente, a forma di serpente, fino al basso ventre. Ne noto un’altra, più marcata e orizzontale, che quasi si congiunge alla prima. «Come te la sei fatta questa?», le chiedo incuriosita. «Questa ho fatto qualche anno fa, per mio bambino. Sai, io avevo un bambino piccolo. Lo avevo chiamato Antonio, come un poliziotto amico mio.» «Dov’è adesso il tuo bambino?» insisto. «Mio bambino è…mio bambino è…io ho dovuto vendere mio bambino. Mi hanno portato via Antonio quando stavo in altro ghetto, quello dei bulgari.» E piange, disperata. È in questo preciso momento che cade la maschera. Abbandona la sua risata sgangherata, le grida sguaiate che utilizza come richiamo per i suoi clienti abituali e torna a essere, semplicemente, un essere umano. Quell’umanità violata commuove anche me. Le accarezzo il volto costellato di lentiggini chiare mentre lei alza lo sguardo e mi sussurra dolcemente: «Come sei bella. Mai nessuno ha toccato me così.»
Mi vergogno. Mi vergogno di essere una donna che ha avuto la fortuna di nascere al di là della barriera. Mentre lei, rea di una colpa che non smetterà mai di espiare, è stata violentata dalla vita prima ancora che dal cugino di suo padre. L’uomo che, per la prima volta, le ha dato un mestiere. Cavallo bianco ha già cambiato diversi protettori all’interno del ghetto. Il primo, un nigeriano, viene definito come «un grandissimo stronzo. Quello mi faceva fare ficki ficki con tutti, ma poi non mi dava i soldi. E allora vaffanculo, ho detto.» Poi è passata sotto l’ala protettiva di un senegalese che le consentiva di andare con chi più le piacesse allo scopo di dividere, a fine giornata, i guadagni incassati. «Ora sto con amore mio», mi confessa. «Questo ogni tanto fa ficki ficki con me, ma ora troppo stanco per ramadan. Così io la sera vado alla discoteca, e faccio cazzi miei. Lui mi aiuta perché abbiamo costruito insieme baracca e dividiamo spese. Ma a me non mi frega un cazzo, se domani trovo uno con più soldi vado con quello.» La sua baracca le è costata 400 euro. Più le spese, incassate direttamente dai nigeriani, per l’affitto del terreno su cui sorge. «Ma chi vi dà i mattoni e il cemento per costruire le baracche più belle?» domando ancora. «Vengono da Foggia. Noi chiamiamo e quelli ci portano mattoni, cemento, segatura…tutto quello che serve insomma. Nigeriani controllano che va tutto bene, poi noi costruiamo.»
EVERY NIGGERS IS STAR. Cavallo bianco mi accompagna in uno dei bordelli. Vorrebbe farmi entrare anche nella famosa discoteca, ma capisco subito che sarebbe troppo rischioso. Molti dei nigeriani del ghetto mi seguono, mi tengono sotto stretta sorveglianza. Mi sento quasi “scortata” da occhi invisibili, celati in ogni punto, pronti a reagire se dovessi fare anche la minima mossa sbagliata. Nella baracca, in cui troneggia un grosso televisore Samsung spento, scorgo un nigeriano steso su un divano in pelle. Non male, per chi vive in un ghetto. Poco lontano intravedo un esserino minuscolo, di due anni o poco più, che viene prontamente sottratto al mio sguardo. Tutti mi hanno sempre ripetuto che non ci sono bambini nel ghetto. Ma è difficile nascondere la verità quando, tra i cumuli di rifiuti non ancora dati alle fiamme, ci sono porta-enfant semi distrutti, passeggini sgangherati, giochi per bambini e pannolini. I bambini, ben nascosti, nel ghetto ci sono eccome. Me lo hanno confermato alcuni testimoni, che hanno voluto restare anonimi. «Forse qualcuno lo portano poi a Foggia, non stanno sempre qua», mi hanno confessato sottovoce. «Ma noi li vediamo sempre. Se ci sono visite da fuori, li nascondono. Però ci sono.» Sì, ci sono. Così come ci sono prostitute minorenni prontamente fatte passare per ragazze che hanno già raggiunto la maggiore età. Giusto per limitare i danni, se dovessero essere scoperti. Una di loro è seduta ai limiti della baracca, con uno sguardo impaurito. Non parla in italiano, non si muove, non alza lo sguardo. Provo a presentarmi mentre il suo protettore mi osserva con lo sguardo truce. «Che lavoro fai?», mi chiede in inglese. So di non poter mentire. Se un bianco entra nel ghetto o è un medico, o è un giornalista o è uno che vuol andare a puttane. Il campo delle ipotesi è piuttosto ristretto. Non faccio in tempo a spiegarle che non sono lì per farle domande. I suoi occhi lanciano uno sguardo di terrore all’indirizzo del protettore che scatta in piedi, pronto a qualsiasi cosa. Vengo invitata gentilmente a lasciare la baracca. E lo faccio.
SOLUZIONI A CONFRONTO. «Quel posto lì va chiuso. So da tempo che il ghetto di Borgo Mezzanone è un inferno, ma va chiuso, senza soluzione di continuità. Quel che posso fare è chiedere un confronto col ministero dell’Interno per verificare, insieme, le modalità con cui gestire lo sgombero.» Michele Emiliano sembra deciso sul destino del gran ghetto. Intervenuto, tra i consensi generali, a una manifestazione organizzata lo scorso 2 giugno da Casa Sankara Associazione Ghetto Out, a San Severo, non ha remore. Abbraccia i bambini, disciplina le folle, raccoglie larghi consensi. Nel corso del suo lungo monologo descrive l’Italia, e la Puglia in particolare, come l’isola felice dei diritti. Il luogo in cui, attraverso un’azione di governo ispirata dal compianto assessore regionale Stefano Fumarulo, si è dato respiro alla voglia di riscatto di tre ex schiavi che si sono ribellati al giogo del caporalato. Nel più comune plebiscito di consensi, il Governatore sembra quasi aver dimenticato che Casa Sankara, purtroppo, è una realtà unica nel suo genere. E che quella unicità non rende meno evidenti le lacune di un’azione di governo che da troppo tempo, ormai, sembra aver completamente bypassato le responsabilità nella gestione delle numerose criticità regionali. Basti pensare alla sospensione della convenzione con Emergency senza aver offerto, al contempo, soluzioni di continuità per la tutela dei diritti alla salute dei giovani migranti che, dal Salento alla Capitanata, soffrono l’impossibilità di poter accedere liberamente alle cure. Assistenza medica affidata, in contumacia, all’azione solitaria delle associazioni – come il Cuamm Medici per l’Africa o ai volontari dei medici col camper – che troppo spesso agiscono nell’impossibilità di coprire tutti i ghetti che costellano la regione. Le responsabilità istituzionali sono troppo evidenti. E non si possono mascherare con un abbraccio dato, a favore di fotografi, a uno dei ragazzi del ghetto giunto fino a Casa Sankara per avere l’opportunità di descrivere al Presidente, con toni accorati, la propria condizione di inumanità. Più calibrata sulla realtà sembra invece la soluzione offerta dallo scrittore Leonardo Palmisano. Che, su Borgo Mezzanone, ha le idee fin troppo chiare. «La presenza dello Stato lì è visibile. Lo Stato c’è, è armato fino ai denti, ma non interviene su situazioni che non sono semplicemente illegali, ma criminali. I veri “invisibili” sono loro. Traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, insediamento mafioso e traffico di cibarie, mattoni, cemento. E va chiarito che non si tratta di materiali di risulta, ma di materie prime che vengono trasportate direttamente all’interno del ghetto.
I leader di Borgo Mezzanone hanno relazioni fitte e ben radicate con il territorio. Poi, parliamoci chiaro. Quel che succede all’interno del Cara, a me puzza. Infatti chiederò al Ministero dell’Interno un’inchiesta sulla gestione di quel centro. Perché non è possibile che nel ghetto vi siano ragazzi e ragazze del Cara che vengono sfruttati tanto nei campi quanto per la prostituzione. Chi gestisce il Cara e quali sono le spese? Quanto ci guadagnano? Gli operatori, sono all’altezza dell’accoglienza? Non è possibile che, ad oggi, non sia pervenuta alcuna denuncia da parte di chi gestisce il Cara.
La verità è che lì Stato e anti-Stato sono la stessa cosa. In più, si deve pensare al destino di queste persone. Vogliamo consegnarle nuovamente alla mafia dei caporali anche quest’estate? Non penso. Penso invece che serva smantellare il Cara e conseguentemente pensare a una soluzione alternativa per chi vive nel ghetto, ma non è un criminale. I criminali, e quindi la gran parte dei nigeriani che gestiscono questi traffici, vanno consegnati alla giustizia.
Se questo significa sgombero, ebbene che si pervenga a una soluzione praticabile. Quel posto va smantellato, è inevitabile. Non c’è alternativa. Il rischio di epidemie è altissimo, le violenze sono quotidiane e non possiamo tollerare che tutto ciò avvenga sul territorio italiano, sotto gli occhi impassibili delle forze dell’ordine. L’emergenza l’ha creata lo Stato, con la complice indifferenza della Regione Puglia. E allora, che lo Stato la gestisca, se è uno Stato di diritto.»