Visualizzazione post con etichetta razzismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta razzismo. Mostra tutti i post

lunedì 12 ottobre 2020

La bugia da cui è nato il razzismo. - John Biewen

 

Sono un giornalista, documentarista e insegnante, per molto tempo il razzismo è stato un grande rompicapo per me: Perché esiste ancora, se è così chiaramente sbagliato? Da dove è nato?

La scienza è chiara. Siamo un’unica razza. Siamo tutti collegati, discendenti di un antenato in Africa. Alcune persone hanno lasciato l’Africa per luoghi più freddi e bui e hanno perso molta melanina, alcuni di noi più di altri. Ma geneticamente, siamo tutti uguali al 99,9%. C’è più diversità genetica all’interno di quelli che chiamiamo “gruppi razziali” che tra gruppi razziali diversi. Non c’è gene per essere bianco, nero, asiatico o di qualsiasi altra razza.

Allora, cosa è successo? Come è iniziato il razzismo?

Innanzitutto, la razza è un’invenzione recente, vecchia di poche centinaia di anni. Prima di allora, le persone erano divise per religione, gruppo tribale, lingua. Ma per la maggior parte della storia umana, la gente non aveva alcuna nozione di razza.

Nell’antica Grecia, per esempio, come mi ha riferito la storica Nell Irvin Painter, i greci pensavano di essere migliori degli altri, ma non per una qualche idea di superiorità innata. Pensavano solo di aver sviluppato una cultura più avanzata. Così guardarono gli etiopi, i persiani e i celti e dissero: “Sono tutti per metà barbari rispetto a noi. Culturalmente, semplicemente non sono greci”.

E nel mondo antico c’era molta schiavitù, ma la gente schiavizzava quelli che non gli assomigliavano. Lo sapevate che la parola inglese slave” (schiavo) deriva da “slav”? Perché gli slavi sono stati schiavizzati per secoli da ogni sorta di popoli, compresi gli europei occidentali. La schiavitù non era nemmeno una questione di razza, perché nessuno ci aveva ancora pensato.

Chi ci aveva pensato allora? L’ho chiesto a un altro storico importante, Ibram X. Kendi. Sembra impossibile ma mi rispose con un nome e una data, come se si trattasse dell’invenzione della lampada.

Mi disse che nella sua esauriente ricerca (pubblicata nel libro) ha trovato quella che, a suo avviso, era la prima articolazione delle idee razziste. E fece il nome del colpevole: Gomes Eanes de Zurara, uno scrittore portoghese. Scrisse un libro nel 1450 in cui, secondo Kendi, fece qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. Riunì tutti i popoli dell’Africa, un continente vasto ed eterogeneo, descrivendoli come un gruppo diverso, inferiore e bestiale. Non importa che in quel periodo pre-coloniale alcune delle culture più sofisticate del mondo fossero in Africa.

Ma perché questo tizio disse tutto ciò?

Per rispondere dobbiamo seguire la strada dei soldi. Prima di tutto, Zurara fu assunto dal re portoghese per scrivere quel libro, (Cronaca della scoperta e della conquista della Guinea) e solo pochi anni prima, i mercanti di schiavi legati alla corona portoghese erano stati effettivamente pionieri della tratta degli schiavi dell’Atlantico. Furono i primi europei a navigare direttamente verso l’Africa sub-sahariana per rapire e schiavizzare gli africani. Così è stato improvvisamente molto utile avere una storia sull’inferiorità degli africani per giustificare questo nuovo commercio, ad altre persone, alla chiesa, a se stessi. E con la scrittura, Zurara inventò sia il nero che il bianco, perché fondamentalmente creò il concetto di nero attraverso questa descrizione degli africani, come dice Ibram Kendi: “il nero non ha senso senza il bianco”. Zurara disse che gli africani catturati e venduti come schiavi erano pagani e avevano bisogno di salvezza religiosa e civile. Altri paesi europei seguirono l’esempio portoghese nel cercare in Africa beni umani adottando questa bugia sull’inferiorità delle persone africane.

Il razzismo non è iniziato con un malinteso, ma con una bugia.

Nel frattempo, qui negli Stati Uniti coloniali, le persone che si definivano bianche adottarono queste idee razziste trasformandole in leggi, privando tutti i diritti umani delle persone che chiamavano nere.

Posso immaginare che possiate pensare: “Questa è storia antica”. Che importanza ha? Le cose sono cambiate. Non possiamo superarlo e andare avanti?”. Per me imparare questa storia ha portato un vero cambiamento nel modo in cui oggi comprendo il razzismo.

La razza non è qualcosa di biologico, è una storia che alcuni hanno deciso di raccontare. La gente ha raccontato questa storia per giustificare il brutale sfruttamento degli esseri umani a scopo di lucro. Non ho imparato questi due fatti a scuola, credo che la maggior parte delle persone non l’abbia fatto. Dopo aver appreso ciò, diventa chiaro che il razzismo non è essenzialmente un problema di atteggiamenti, di intolleranza individuale. No, è uno strumento per dividerci e sostenere sistemi economici, politici e sociali che vanno a beneficio di alcuni e prevalgono su altri. Ed è uno strumento per convincere molti bianchi, che possono o meno guadagnare molto da una società altamente stratificata, a sostenere lo status quo. “Potrebbe essere peggio. Almeno sono bianco”.

Persone potenti lavorano ogni giorno approfittando e rinforzando questa vecchia arma nei corridoi del potere. E non dobbiamo preoccuparci se queste persone credono a quello che dicono, se sono davvero razziste. Non si tratta di questo, ma di soldi e di potere.

Infine, la più grande lezione di tutte, e mi rivolgerò in particolare ai bianchi. Quando capiamo che le persone che ci assomigliano hanno inventato il concetto stesso di razza per ottenere un vantaggio, non è più facile capire che è un nostro problema da risolvere? E’ un problema dell’uomo bianco. Mi vergogno di dire che per molto tempo ho pensato al razzismo principalmente come a una lotta per le persone di colore.  Ci siamo tutti dentro.  Siamo implicati.  E se non mi unisco alla lotta per smantellare un sistema  che mi avvantaggia,  sono complice.

Non si tratta di vergogna o di senso di colpa. La storia non è colpa mia o vostra. Quello che sento è un maggiore senso di responsabilità nel fare qualcosa.

Tutto questo ha modificato il mio modo di pensare e di avvicinarmi al mio lavoro di documentarista e di insegnante. Ma oltre a questo, cosa significa? Cosa significa per ognuno di noi? Significa che sosteniamo i leader che vogliono risolvere la situazione? Nelle nostre comunità, troviamo persone che lavorano per trasformare istituzioni ingiuste? Nel mio lavoro, sono io la persona bianca che sta cercando di capire come essere un vero complice dei miei colleghi di colore o il contrario? Ovunque ci presentiamo, dobbiamo farlo con umiltà e vulnerabilità e con la volontà di mettere via questo potere che non ci siamo guadagnati.

Possiamo trarre tutti beneficio se riusciamo a creare una società che non sia basata sullo sfruttamento o sull’oppressione di nessuno. Ma dobbiamo farlo, capire come agire. Perché è la cosa più giusta da fare.

(Photo Di Shutterstock Edited by happygrafic.com)

(Traduzione e adattamento del Tedx di John Biewen)

https://www.beppegrillo.it/la-bugia-da-cui-e-nato-il-razzismo/

venerdì 25 settembre 2020

Andrea Scanzi




Eccolo, il branco. Eccoli, i bravi ragazzi. I bambini immacolati, bianchi e italiani, protetti e viziati, non criticabili e iper-giustificati.

È una storia di bullismo durata un anno, finita con un’ultima esplosione di violenza. La vittima ha 13 anni. La sua colpa? Il colore della pelle.

Roma, quartiere Collatino. Tutto inizia nel settembre 2019 quando la vittima, allora dodicenne, viene presa di mira da compagni di scuola superiore più grandi di lei. La bambina ha così paura che smette di andare a scuola.

Il lockdown, paradossalmente, le ridà sicurezza. Poi la scuola riparte e le vessazioni pure. Offese razziste. E poi violenza.

Fino allo scorso 16 settembre. Racconta il Fatto: “Un’amica invita la tredicenne alla sua festa di compleanno. La ragazzina passa a prendere una terza compagna e insieme si avviano al locale per la festa. Per arrivarci passano davanti a un parco. E’ qui che incrociano la coppia di compagni di scuola che l’hanno presa di mira da un anno.

“Araba di m… Tornate al vostro Paese. Figli di pu….”. Dalle parole ai fatti: uno schiaffo, la caduta a terra, una dei due aggressori le salta addosso, la colpisce al volto. Il gruppo di amici dei due bulli violenti non li ferma, anzi: li incita. Ci sono sputi. E un filmato che poi girerà sulle chat della scuola, racconta la 13enne ai carabinieri”.

Siamo al crepuscolo del genere umano. 

https://www.facebook.com/andreascanzi74/photos/a.710778345605163/4006619502687681

sabato 2 marzo 2019

Black Axe, l’orrore che ignoriamo. (1) - Rosanna Spadini



Un fenomeno preoccupante e largamente diffuso sul territorio italiano, anche se ampiamente sottovalutato, è quello della mafia nigeriana. L’episodio di Roma San Lorenzo, del truce omicidio della povera Desirée, come quello precedente di Pamela a Macerata, violentata, uccisa e fatta a pezzi dai nigeriani, sembrano confermare l’allarme. Del resto il presunto quarto assassino della ragazza di Roma, Salia Yusif, in fuga dalla polizia, aveva lasciato Roma per tornare a Borgo Mezzanone, nel Foggiano, dove aveva già soggiornato fino al 2014 presso il C.A.R.A. Si era anche tagliato i capelli per non farsi riconoscere e viveva nella baraccopoli adiacente, ove è sorto  un insediamento di immigrati che non hanno più titolo ad essere ospitati all’interno della struttura, e dove la mafia nigeriana ha creato dei potenti feudi di controllo sull’intera area.
Li chiamano «cult», dominano il racket da Torino a Palermo, tengono legami anche con i clan di Ballarò. «Ho fatto tre informative a tre procure diverse, Roma, Bologna e Palermo, interessate al fenomeno che si sta espandendo a macchia d’olio in tutta Italia e tutta Europa», ha detto alla Commissione parlamentare sulle periferie il commissario della municipale Fabrizio Lotito. Gerarchia mafiosa, riti d’iniziazione, cosche: «Torino è la città con il maggior numero di immigrati nigeriani, a ruota segue l’Emilia Romagna. Le nostre indagini su questo fenomeno mafioso vedono come attori principali i ‘cult’, nati nelle università nigeriane degli anni Settanta, poi evolutisi fuori e giunti anche in Italia».
Probabilmente anche l’agguato dello scorso settembre ai giardini Alimonda di Torino contro due poliziotti antidroga circondati e pestati da una trentina di spacciatori africani, dimostra la violenza del fenomeno. La mafia nigeriana comanda ormai in molte periferie italiane, anche in quel corso Giulio Cesare così multietnico che gli ultimi bottegai locali espongono in vetrina il cartello «negozio italiano». 


Black Axe, Maphite, Supreme Eiye Confraternity, Ayee sono nomi di «cult» che riempiono ormai da anni le cronache giudiziarie, molto bene lo sanno gli inquirenti e gli abitanti delle zone più interessate, il fenomeno però è meno conosciuto per l’opinione pubblica. Le prime vittime dei «don» (i capi) sono ragazze nigeriane vendute come schiave e giovani nigeriani (baseball cap) ridotti a elemosinare davanti ai bar delle grandi città per ripagare debiti di famiglia contratti in Nigeria.
Il traffico di giovani nigeriane verso l’Europa, che diventano schiave del racket e di riti vudù,  è in continua ascesa. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), in Italia nel 2014 sono arrivate dalla Nigeria, via mare, 1.450 donne, 5.600 nel 2015, oltre 11.000 nel 2016, in buona parte minorenni. Il 2017 sembra confermare il trend, con 4.000 ragazze sbarcate nei primi sei mesi dell’anno. Le stime di OIM dicono che l’80% delle giovani in arrivo dal Paese africano è destinato alla prostituzione. Le nigeriane sono diventate una fetta consistente del mercato italiano che vale 4 miliardi di euro all’anno: il 55% delle prostitute in Italia sono straniere e il 36% di loro è di nazionalità nigeriana (Istat). L’85% delle prostitute nigeriane proviene dalla stessa città: Benin City, l’hub africano della prostituzione.  
Il traffico degli esseri umani è una delle sue più importanti fonti di sostentamento, con introiti che non sfamano diversi strati della popolazione, comprese le famiglie delle vittime. «Ti chiamano trafficante e vogliono processarti», dice Exodus che per venti anni ha vissuto tra Benin City e la Libia e si è arricchito grazie alla tratta. «Guardiamo però alle operazioni del Naptip: arrestano un trafficante, ma poi si scopre che la famiglia era coinvolta, era d’accordo. Quindi anche loro sono trafficanti. E il passeur non è un trafficante? I poliziotti? La polizia prende i soldi dalle persone e permette loro di andarsene. Vuoi dirmi che non ci sono poliziotti nelle città al confine con il Niger? Vuoi dirmi che non ci sono funzionari dell’immigrazione? Vuoi dirmi che non ci sono posti di blocco? Dove sono tutti, dormono? E i giudici? Anche loro trafficanti! Le Ong? Ti dico solo una cosa: soldi, soldi, soldi. In America dicono ‘Money talks, bullshit walks’».
Exodus dice di non sentirsi in colpa, anzi di considerarsi un benefattore perché ha aiutato i suoi concittadini ad andarsene da un Paese povero e corrotto, inoltre, secondo lui, Tv, giornali e social media spaccerebbero dati gonfiati sulle morti «Nessuna delle ragazze che ho portato in Libia è mai morta nel Sahara. A non farcela sono le persone che partivano già malate». Purtroppo non è così, come dimostra anche l’ultimo ritrovamento, a novembre 2017, di 26 corpi senza vita di donne arrivate a Salerno, tutte di nazionalità nigeriana. Comunque non esiste un boss in questo business, dicono sia lui che il comandante del Naptip, là chiunque può diventare un trafficante, basta conoscere delle ragazze che vogliano partire e non serve nemmeno sforzarsi troppo per convincerle.
È un errore di valutazione dunque sottovalutare la mafia nigeriana, perché interessa almeno venti città (Torino e Bologna in testa) e dieci regioni coinvolte nella sua rete, e che conta in giro per il mondo trentamila affiliati in quaranta Stati.
Al Sud dove le mafie autoctone mantengono il controllo militare, la mafia venuta da Benin City ha stretto patti, come a Ballarò. Al Nord picchia duro: nel 2017, su 12.387 reati firmati dalla criminalità nigeriana (un quinto di quelli commessi da tutti gli stranieri da noi), 8.594 avvengono al Nord, 1.675 al Centro, 1.434 al Sud, 684 nelle Isole.
A Torino si è aperta l’operazione dei carabinieri Athenaeum, che documenta il legame tra Maphite e Eiye. Giovanni Falconieri sul Corriere di Torino ha raccontato di un pentito che descrive i Maphite in termini sconvolgenti: «Sono sbarcati a Lampedusa e la gente ha paura di loro… Non hanno rispetto per la vita».
Poi il giudice torinese Stefano Sala, in quasi 700 pagine di ordinanza, motiva le sentenze su 21 membri di Eiye e Maphite: «I moduli operativi delle associazioni criminali nigeriane sono stati trasferiti in Italia in coincidenza con i flussi migratori massivi cui assistiamo in questi anni» (…), «tra gli immigrati appena sbarcati vengono reclutati i corrieri che ingoiano cocaina».
Se Torino è la nostra città più permeata dalla migrazione nigeriana, Bologna è considerata «la capitale» del cultismo, lo spaccio nella centrale Bolognina e nelle periferie è da anni in mano ai Black Axe. Ma le ordinanze che si moltiplicano, con le operazioni di carabinieri e polizia, descrivono un’onda assai più lunga: Black Axe, a Palermo, 2016; Aquile Nere, Caserta, stesso anno. Cults, a Roma, 2014. Niger, Torino 2005. Ancora Black Axe, Castello di Cisterna, Napoli, 2011.
«Noi siamo nate morte», raccontano le schiave nigeriane della Domiziana al sociologo Leonardo Palmisano in un libro di prossima uscita «Ascia Nera».
Nella «pista» di Borgo Mezzanone (Foggia) incomincia la bidonville dei migranti, Ogni giorno tirano su nuove baracche, sorte tra montagne di rifiuti, roghi di plastiche, fumi neri, prive di bagni, dove le ragazze appena arrivate sostano davanti al bordello. 


Una vera e propria bidonville «il Ghetto» dei migranti, di cui nessuno sa niente in Italia, se non gli abitanti della zona, preoccupati per alcune bande nigeriane che controllano il territorio, dove la legalità è sparita da un pezzo e gli episodi di violenza minacciano quotidianamente quella terra di nessuno.
I militari presidiano il Cara, ma qualche metro più in là la baraccopoli ha una vita propria, e così un docente ammette «Qui i problemi sono troppi. Si mischiano diverse forme di illegalità. Diversi tipi di migrazione. Siamo soli, abbandonati, inascoltati. Qui manca tutto, bisognerebbe ripristinare la legalità ad ogni livello».
Naturalmente i media globalisti cercano di oscurare queste notizie, zitti e mosca sulla nuova mafia nigeriana, che attraverso l’immigrazione fuori controllo di questi ultimi anni è approdata in Italia ed ha tutta l’intenzione di usare il nostro Paese come terra da sfruttare, per poi dilagare in tutta Europa. Il business è già radicato sul territorio e attraverso l’esportazione del crimine, della violenza contro le donne, dello spaccio di droga, garantisce non solo l’aumento del tasso di criminalità, ma anche di aggiungere un altro nuovo rischio per una serena convivenza urbana, in una società sempre più multiculturale.

Nonostante Gad Lerner dica un’altra cosa «Dopo Pamela, guardiamo attoniti la vita e la morte di Desirée: dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre 15enne, vittima di pusher immigrati. Vicende tragiche che dovrebbero suggerirci qualcosa di più e di diverso dall’odio razziale».
Credo che Gad, da buon radical chic, collezionista di rolex, cerchi di scaricare le responsabilità di chi ha permesso che le periferie delle città italiane venissero infestate dalla presenza della mafia nigeriana, tanto che intere strade sono ormai infestate dallo spaccio di droga e dalla prostituzione h24. Il nostro buonista globalizzato condanna l’odio razziale, ma non ha tenuto conto che può esistere un ‘razzismo’ naturale, di chi cerca di difendersi dall’invadenza di un’immigrazione fuori controllo, come quello degli animali che marcano il loro territorio, e quindi sono pronti a difenderlo da qualunque ingerenza esterna, e c’è un ‘razzismo’ culturale, indotto da archetipi che si perdono nella notte dei tempi (KG Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo).
Nessun odio razziale quindi, ci basterebbe non assistere più a queste orribili vicende, e poter garantire anche la sicurezza delle donne italiane per le strade delle nostre città, ma ormai non credo sarà più possibile per molto tempo ancora.
https://comedonchisciotte.org/black-axe-lorrore-che-ignoriamo/

martedì 9 gennaio 2018

Non esiste il Capitalismo Buono - Cecilia Zamudio




Gli immigrati, opera di Rodolfo Campodónico

Ogni giorno la povertà aumenta in tutto il mondo, mentre le grandi fortune crescono esponenzialmente: i capitalisti degradano sempre più il pianeta e riducono in schiavitù e reificano altri esseri viventi. Escludono milioni di esseri umani da una vita sana e dignitosa. Sterminano specie ed ecosistemi.
Milioni di esseri umani, impoveriti dal saccheggio perpetrato dalle multinazionali che capitalizzano sulla distruzione di montagne e fiumi, finiscono per affollarsi nelle cinte delle grandi città.

L'esodo degli esseri umani si intensifica, dai paesi più brutalmente saccheggiati, alla metropoli del capitalismo. Ma i paesi arricchiti a spese dell'impoverimento degli altri, vogliono cinicamente le ricchezze, ma non le persone. Muri e recinti di filo metallico crescono man mano che l'analisi e l'empatia diminuiscono. La sabbia delle spiagge è sbiancata dalle ossa di migliaia di naufraghi nel loro tentativo di fuggire dal calderone capitalista in cui gli uomini forti hanno convertito i loro paesi, a furia di saccheggiare e di guerre imperialiste.

I padroni dei paesi della metropoli capitalista, che intensifica anche lo sfruttamento contro gli operai della metropoli, e che precarizza le loro condizioni di vita, ha bisogno di un "Capro Espiatorio" per incolparla di ciò di cui non vuole farsi carico: usa i suoi media per alienare le maggioranze, sostenendo che la precarizzazione delle loro condizioni di vita è dovuta agli: "immigrati". La promozione del razzismo e del fascismo si intensifica nei mezzi dell'alienazione di massa, aumentando così la divisione della classe operaia e moltiplicando i livelli di violenza razzista.

Anche la violenza contro le donne è intensamente promossa per mezzo dell'alienazione di massa, dato che il maschilismo è una parte fondamentale della sovrastruttura capitalista: galoppano i profitti di pochi sulla mostruosità di femminicidio.

La reificazione dell'essere umano è promossa a sazietà. E tutto il valore della "solidarietà" è sostituito dai valori del consumatore. La nozione di "giustizia sociale" cerca di essere cancellata, e soppiantata dalla perversa "Carità", quando non lo è dall' "edonismo Zen", o direttamente dall' "Edonismo VIP ", ancora più egocentrico e triste.

Mentre i mezzi dell'alienazione capitalista addomesticano le persone con il loro promosso "non cambiare il mondo, cambia te stesso" (come se non si potesse provare a fare entrambe le cose allo stesso tempo), i capitalisti continuano a depredare. Implementano con maggiore intensità l'Obsolescenza programmata (invecchiamento precoce e programmato delle cose), trasformando questo pianeta in una discarica, avvelenando la terra e il cibo in modo cancerogeno, uccidono un bambino per fame ogni 5 secondi, in un mondo in cui l'agricoltura attuale riuscirebbe nutrire 12 miliardi di persone ...

I capitalisti approfittano della precarietà delle condizioni di vita (che loro stessi precarizzano) per espandere il loro bacino di schiavi: schiavitù moderna, prostituzione, traffico di bambini.
È urgente abbandonare questo sistema in cui una manciata di pochi capitalizza sul sangue, il sudore e le lacrime della maggioranza.

Data l'inevitabilità della constatazione (da parte di una parte importante della popolazione mondiale) dell'aumento dello sfruttamento, della miseria e del saccheggio della natura, i grandi capitalisti attaccano con i loro carri armati di pensiero: si tratta di colonizzare le nostre menti e di gestire la percezione della realtà.

Questi carri armati di pensiero cercano di porre il problema sotto luci deformanti, e per "guadagnare tempo" hanno inventato questa falsa dicotomia tra "capitalismo selvaggio" contro un presunto "capitalismo dal volto umano".

Il capitalismo è selvaggio per natura, poiché si basa sullo sfruttamento: non esiste un "capitalismo meno selvaggio" poiché la violenza e l'accelerazione di essa sono intrinseche all'accelerazione dell'accumulazione capitalista.

Crescono le grandi fortune sui cadaveri.
Nella fase attuale del capitalismo, i vecchi "Stati del benessere" in Europa vengono smantellati, perché dopo la caduta dell'URSS, i capitalisti non hanno bisogno di preoccuparsi di mascherare parte dei loro crimini, facendo finta che il capitalismo preservi il "benessere" , almeno per quelli del "primo mondo" autoproclamato.

Ricordiamo che il primo paese ad avere una sicurezza sociale fu l'Unione Sovietica, perché i lavoratori sovietici lo stabilirono poco dopo aver preso il potere (il primo paese ad avere un'assistenza sanitaria universale e gratuita, un'istruzione universale e gratuita, il diritto di voto alle donne, abitazioni come diritto concreto e tangibile, ecc.). Esistendo questi diritti nella vicina URSS, i capitalisti europei hanno capito che era necessario, per arginare il malcontento sociale nei paesi capitalisti, concedere un minimo in termini di sicurezza sociale. Così, la lotta degli operai, unita all'esistenza dell'URSS, ha permesso di ottenere alcuni diritti ... Gli stessi che stanno scomparendo oggi.

Oggi gli accumulatori di capitali e divoratori delle nostre ore di vita, festeggiano lo sfruttamento; non devono più mantenere alcuna "compostezza": sono già riusciti a finire l'URSS, hanno speso gli anni necessari per privatizzare tutto e a volgarizzare la sazietà, e i loro mezzi di alienazione di massa hanno iniettato un tenace odio contro il comunismo. Gli sfruttati possono già divorarsi a vicenda, immersi nel razzismo, nel maschilismo e nell'odio contro i rivoluzionari: gli sfruttatori hanno lavorato ai parametri della sottomissione al millimetro.

Ma siamo ancora vivi, e solo la lotta ci renderà liberi.
Ogni giorno l'accumulazione capitalista accelera, e con essa l'esclusione, lo sfruttamento, il saccheggio, la repressione, il terrorismo di stato, le guerre imperialiste, il fascismo, il razzismo, il maschilismo e tutte le forme di violenza.

Perciò è urgente combattere contro il capitalismo, e non credere che, forse, sarebbe possibile "un capitalismo meno cattivo". Sarebbe come fingere di dover lottare per un presunto "maschilismo meno cattivo" ... Quando ciò che esiste è un sistema di sfruttamento e le "variazioni" sintomatiche che percepiamo sono solo una funzione dello stadio di questo cancro sociale.

Traduzione per TLAXCALA di Alba Canelli

lunedì 5 settembre 2016

IL LENTO DECLINO DELL'IDEALE OLIMPICO. UNA SELVAGGIA MERCIFICAZIONE. - Chems Eddine CHITOUR



Rio 2016 - dia-Rio Olimpico: i campioni non tradiscono, ma il Brasile è indifferente


"Lo sport è rivelatore di come va il mondo, permette agli Stati di mettersi in mostra. Da tempo – e ancora oggi – esso è posto al servizio dalle ragioni di Stato"- 
Valérie Fourneyron, rapporto all’Assemblea nazionale francese

Ho potuto costatare che a fare incetta di medaglie sono per lo più i paesi avanzati scientificamente. È questo lo spirito olimpico? Mi sono poi accorto che lo sciovinismo se non addirittura il razzismo e il nazionalismo sono state le cose meglio distribuite in questi giochi. Nessun paese importante ne ha fatto a meno. L’abbiamo visto nella crociata antirussa. Inoltre, non è sacrilego pensare che il peso specifico di ciascuna nazione intervenga indirettamente nelle decisioni dei giudici a cui si devono talvolta giudizi controversi. Infine veniamo a sapere che alcuni responsabili del CIO si sono dati alla rivendita di biglietti.

Siamo lontani dall’ideale dei giochi olimpici dell’epoca greca. Per la cronaca, ai primi giochi olimpici dell’era moderna presero parte 245 atleti rappresentanti di 14 paesi. Gli atleti – non le atlete – disputarono 43 prove tra atletica, lotta, sollevamento pesi, ginnastica, nuoto, tiro, ciclismo e scherma. Discipline di resistenza, corse di velocità, giavellotto e disco. Da allora sono state aggiunte diverse dozzine di discipline per nulla appannaggio dei paesi poco all’avanguardia in campo tecnologico, 28 discipline, tra le quali due nuove. Il prato accomuna queste ultime. Il 2016 è stato l’anno di un grande debutto – per il rugby a sette, giudicato più spettacolare (e più facile da organizzare) – e di un grande ritorno, quello del golf, assente dal 1904. A fianco di sport tradizionali quali l’atletica, il nuoto, gli sport di lotta o la ginnastica, se ne sono aggiunti degli altri: pentathlon moderno, vela, hockey su prato o la BMX, presente dall’edizione di Pechino del 2008. L’edizione dei giochi olimpici di Tokio, nel 2020, darà spazio ad altri cinque sport: karate, baseball, surf, arrampicata e skateboard. Ne approfitteranno quei paesi in cui tali sport sono già radicati. Perché non aggiungere sport nazionali quali la corsa dei cammelli, versione poco mondana della corsa dei cavalli? Lo sport non coincide con l’Occidente, ma si è scartato tutti ciò che non è occidentale. È vero che le corse dei cavalli le troviamo in Egitto nel VI secolo, la pratica del polo nella Cina del VII e VIII secolo o a Cordova nell’IX secolo, le corse dei carri a Costantinopoli nel X secolo, le competizioni di lotta nel XII secolo in Bretagna, le famose giostre medioevali dal XIII al XVI secolo e così altre attività sportive. Ma è evidente che negli attuali giochi olimpici la maggior parte delle discipline «moderne» escluda in toto quei paesi che non hanno né le strutture né il clima adatto né il rilievo e la geografia. Non è ai sahariani che bisogna parlare di canoa kayak o di sci. Inoltre, quando si aggiungono discipline fortemente tecnologiche, nello stesso tempo si scarta la maggior parte dei paesi che non ne dispone. Basti pensare che i giochi olimpici difficilmente potranno svolgersi nei paesi del Sud. Inoltre non è mai stata presa in considerazione la cooperazione tra più paesi.

Rio in cifre: la dismisura
Siamo arrivati a 10.500 atleti, 50 volte di più. I giochi di Rio sono i primi a tenersi nel continente sudamericano. Dal 1896 trenta edizioni hanno avuto luogo in Europa, America del Nord, Asia, Oceania (Australia) o in America centrale (Città del Messico). Tutti i paesi che non hanno accesso all’acqua in forma di fiume, mare, e semplici piscine, non avrà atleti impegnati in questi sport. Il budget stimato per l’organizzazione dei giochi di Rio è di 10 miliardi di euro. Con una riduzione di circa 2 miliardi rispetto ai giochi di Londra. 5130 medaglie finanziate per il 57% da privati e per il 43% da denaro pubblico. 3,5 miliardi di spettatori per la cerimonia d’apertura. Circa 2000 eventi sportivi. A ciascun campione olimpico francese toccheranno 50.000 euro, in caso di oro. 20.000 per una medaglia d’argento e 13.000 per l’ultima piazza del podio. Per gli atleti americani 22.000 euro per una medaglia d’oro e 330.000 euro per gli atleti azeri. Non sappiamo cosa abbiano promesso le autorità algerine. Infine i giochi di Rio hanno goduto della protezione dell’ISDS, compagnia israeliana presieduta da Leo Gleser, venditore di armi ed ex agente del Mossad, per un budget di 2 miliardi di dollari.

Doping, cinismo e merchandising
Juan Antonio Samaranch, presidente CIO dal 1980 al 2001, ha preparato la mercificazione dei giochi e fatto dei giochi un’impresa molto redditizia: le entrate del movimento olimpico si sono centuplicate anche grazie alla corruzione e alla mercificazione. Noi dove siamo? Secondo Sebastien Nadot, siamo più che mai in presenza di una crisi valoriale. Dottore Ehess: «doping, cinismo politico, commercio oltraggioso dei diritti umani universali: lo sport, almeno quello di cui si parla e che vorremmo continuare ad amare, è in pessimo stato. Che lo si voglia o meno, la politica e la diplomazia hanno pesantemente piegato lo sport ai propri meccanismi. Lo sport placa le tensioni internazionali se si vuol credere all’ateniese Tucidide che descriveva i giochi olimpici del 428 a.C. come «un’occasione per favorire i contatti diplomatici in tempi di tregua sacra». I giochi olimpici di Barcellona nel 1992 hanno dato il via alla svolta commerciale. Diversi sono gli attori coinvolti: gli sportivi, gli spettatori-consumatori, i cittadini, i politici, le autorità internazionali dello sport, gli agenti economici e commerciali».

Il body shopping degli atleti
Generalmente nessun paese, se ne ha i mezzi, rinuncia a barare. Questo accade attraverso il depauperamento delle elite sportive dei paesi poveri in un processo noto come «body shopping» anche se quest’espressione veniva usata in partenza per indicare un’immigrazione voluta e non subita. In mancanza di un forte sentimento di appartenenza, questi paesi poveri non hanno mezzi per trattenere i propri atleti né per competere economicamente con i paesi ricchi che comprano i loro atleti offrendogli laudi compensi.
Come suona l’inno nazionale francese o inglese cantato da un cinese o da un ceceno arrivati come atleti off-shore che non conoscono la lingua del paese che li accoglie? Andiamo verso un nazionalismo al ribasso su cui è permesso chiudere un occhio. L’abbiamo riconosciuto nei presentatori che faticano a pronunciare il nome di quegli atleti che, in caso di fallimento, non rinunceranno a biasimare. Ricacciandoli così nelle stesse condizioni che hanno lasciato. Si parla con cattiveria del Qatar e della sua «legione straniera» di pallamano, si dimentica di dire che la squadra francese del 1998 – lo slogan dell’epoca era nero bianco blu – come quella del 2016 era composta principalmente da francesi d’origine straniera. Nero, nero, nero, avrebbe detto l’ineffabile Alain Finkielkraut denunciando il fatto e invitando a ritrovare lo spirito di Alesia anche se lui stesso è nato all’estero, e nessuno andrebbe a dirgli che è un francese nato all’estero.
È evidente che la maggior parte dei paesi occidentali sfrutti l’immigrazione anche in ambito sportivo. La proporzione può arrivare fino al 20%. Paradossalmente i paesi dell’Est e specialmente la Russia non si danno al body shopping. Altre sono le nazioni che se ne servono. Naturalizzata francese, la giocatrice di ping-pong Xue Li disputerà i suoi secondi giochi olimpici a Rio. Molto fiera di rappresentare il proprio paese d’adozione nel quale vive da undici anni. Nel 1994 la naturalizzazione danese di Wilson Kipketer, corridore keniota, aveva aperto la via. Nella squadra francese di Rio una quarantina di atleti non sono nati in Francia. «Dei 396 atleti che difenderanno i colori blu-bianco-rosso a Rio, scrive Cedric Callier, alcuni sono nati all’estero. Ciò che non impedisce al Qatar e alla sua imponente … legione straniera (ben tre quarti degli atleti del Qatar sono il frutto di una massiccia politica di naturalizzazione) di dichiararsi fieri e ben integrati. Operazione che ha provocato un’importante levata di scudi. Ultimo esempio? Al tempo dei recenti campionati europei di atletica, la Turchia ha conquistato 12 medaglie, 10 delle quali da parte di atleti nati fuori dal territorio turco! Giocatore-simbolo della pallamano francese, il campione olimpico Nikola Karabatic è nato a Nis, in Serbia. La judoka (medaglia di bronzo) Gévrise Émane, a Yaoundé, in Camerun. A Rio altri atleti naturalizzati hanno rappresentato fieramente la Francia. Come Zelimkhan Khadjiev, l’unico lottatore francese tra gli uomini. Amore per la maglia francese condiviso dalla ventenne Tamara Horacek, riserva della squadra francese di pallamano. Così Kseniya Moustafaeva, bielorussa d’origine, è la sola rappresentante francese nella ginnastica ritmica: «Ho iniziato a praticare ginnastica nel mio paese a 4 anni e sono arrivata qui che ne avevo 5».

L’ideale olimpico, la politica e la sfortuna del mondo
In un contributo precedente «i giochi olimpici; la guerra con altri mezzi» avevo scritto in merito all’esclusione della Russia per sospetto doping considerandola l’occasione per l’Occidente di punire la Russia per la sua indipendenza e il suo rifiuto di obbedire all’Impero. Risultato: la delegazione russa è stata privata di 110 atleti e nonostante questo si è posizionata quarta nel medagliere. Fa venire alla mente i giochi di Mosca boicottati dai paesi occidentali e quelli di Sochi dove la pressione fu enorme. Lo stesso è accaduto per quelli di Los Angeles boicottati dall’Urss. Il CIO stesso si è immerso nella politica dando vita a un’equipe olimpica costituita da rifugiati registrati come apolidi per sottrarli al loro paese d’origine e a cui è stato dato uno statuto … Il che dimostra come si possa fare politica attraverso lo sport.

Il lato oscuro di Pierre de Coubertin medaglia d’oro di razzismo
Coloro che si interessano della storia recente dei giochi, non potranno fare a meno di evidenziare come il barone Pierre de Coubertin, inventore dei giochi, fosse un fiero sostenitore dell’ineguaglianza delle razze. Nato alla fine del secolo in Francia, ispirato dai Renan e dai Gobineau, cantori insieme a Jules Ferry delle razze superiori, «il barone aveva un culto per la forza fisica e credeva nella necessità di una selezione naturale atta a eliminare i più deboli. I suoi giochi olimpici dovevano permettere una colonizzazione sportiva e dimostrare la superiorità della razza bianca sulle altre». Per Daniel Salvatore Shiffer: «De Coubertin stesso, nelle sue memorie (1936), si vantava di essere un «fanatico colonialista» «Le razze hanno valori differenti e alla razza bianca, d’essenza superiore, tutte le altre devono obbedire» Tanto che Coubertin, per coronare il tutto, considera lo sport il mezzo migliore per preparare la gioventù alla guerra: «Il giovane sportivo sarà evidentemente più predisposto a partire (per la guerra) rispetto ai suoi avi. E quando si è preparati per qualcosa, si fa più volentieri».

I giochi olimpici e le buone cause
Oltre alle strumentalizzazioni politiche, i giochi sono stati usati anche per sostenere delle buone cause. Per l’emancipazione dei popoli. Per la cronaca, dei giochi di Città del Messico del 1968, ci si ricorda dei famosi pugni inguantati alzati verso il cielo dei duecentisti americani Tommy Smith e John Carlos. Nessuno ha prestato attenzione al terzo corridore e pertanto scrive Riccardo Gazzaniga … «Potrebbe essere lui il vero eroe della scena. (…) Bianco, immobile sul secondo gradino del podio. 

Non alza il pugno verso il cielo (…) Tant’è che pensavo che quest’uomo, nella sua rigidità, rappresentasse l’archetipo del conservatore bianco che così esprime la sua resistenza al cambiamento che Smith e Carlos invocano silenziosamente dietro di lui (…). In realtà l’uomo bianco della foto, quello che non alza il braccio, potrebbe essere il vero protagonista di quella serata estiva del 1968. Si chiamava Peter Norman, era australiano e quella sera aveva corso come un matto, tagliando il traguardo in un incredibile 20 secondi e 06». «Il razzismo e la segregazione, prosegue l’autore, erano estremamente violenti in Australia, non solo contro i Neri, ma anche contro le popolazioni aborigene. I due afroamericani hanno chiesto a Norman se credesse nei diritti umani. Lui rispose di sì. «Gli abbiamo riferito cosa avremmo fatto, racconterà più tardi John Carlos. Mi aspettavo di vedere della paura negli occhi di Norman … Al contrario abbiamo visto dell’amore». Norman ha semplicemente risposto: «Sarò con voi». Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio a piedi nudi per simboleggiare la povertà che colpisce la maggior parte delle persone di colore. Avrebbero sfoggiato il distintivo del Progetto olimpico per i diritti dell’uomo, un movimento di atleti impegnati nella lotta per l’uguaglianza. Appena prima di salire sul podio, Smith e Carlos si resero conto di avere solo un paio di guanti. Volevano rinunciare a questo simbolo, ma è Norman che ha insistito consigliando loro di portarne uno ciascuno. Se guardate bene la foto, vi accorgerete che anche Norman porta il distintivo del Progetto olimpico per i diritti dell’uomo, spillato sul cuore. I tre atleti sono saliti sul podio, il resto è Storia catturata dalla potenza di una foto ormai nota in tutto mondo». «Ciò che si sa meno è che Peter Norman ha subito pesanti conseguenze. Per aver dato il proprio sostegno ai due uomini, ha dovuto dire addio a una promettente carriera. Delle semplici scuse gli avrebbero consentito di continuare (…) Ma non l’ha fatto. Col tempo Smith e Carlos sono diventati dei veri e proprio eroi avendo difeso contro tutti la causa dell’uguaglianza razziale. In California è stata eretta una statua dedicata ai due uomini con il pugno alzato … Solo l’australiano non compare. Peter Norman muore nel 2006 a Melbourne in Australia. In occasione dei suoi funerali i due sprinter americani hanno voluto portare la bara. Non dimentichiamo Peter Norman, eroe senza guanto, cancellato dalla Storia, che non ha mai smesso di lottare per l’uguaglianza degli uomini».

La debacle dello sport in Algeria
In Algeria lo sport è ancora un’utopia. I rari successi conseguiti sono indipendenti delle politiche del potere. È per proprie capacità che Boulmerka, Morcelli, Benida Merah hanno conquistato l’oro olimpico; non lo devono alle politiche dello Stato. Per la cronaca Boughera El-Ouafi, algerino di Ouled Djellal, vicino a Biskra, era un atleta fuori norma. Conquistò la medaglia d’oro alla maratona dei giochi olimpici del 1928, organizzati ad Amsterdam, nei Paesi bassi. Come al solito gli algerini dovranno pregare per avere visibilità a Rio. Non ci sarà il miracolo perché una rondine non fa primavera. Perché? Perché abbiamo sempre lavorato nell’effimero. Perché? Con solo dieci milioni di giovani del sistema scolastico avremmo potuto costruire un sistema sportivo. Ma ci affidiamo ancora all’uomo della provvidenza perché il sentimento nazionale è scomparso. Tutto si paga. Abbiamo l’impressione che il ministero della gioventù e dello sport coincida con una squadra nazionale praticamente off-shore. Lo sport dovrebbe essere praticato in maniera intensiva nelle scuole. Ricordiamo che la maggior parte degli atleti americani proviene dalle università. Dovremmo fare un serio esame di coscienza. È l’unico mezzo per riconquistare la gioventù e affrontare le competizioni restituendo visibilità dell’Algeria.

Come possiamo concludere?
Ritroviamo la stessa influenza dei ricchi in un evento sportivo che pretende di essere ecumenico. Il medagliere non significa niente, e il trionfalismo costante reca con sé qualcosa di immorale e meschino. Siamo in diritto di dubitare della rilevanza di questi giochi, destinati al fallimento. Più veloce più alto più lontano è uno slogan a cui nessuno ormai crede dato che dall’inizio i giochi sono falsificati dal doping e dalla mediatizzazione che si regge su un merchandising mischiato a un nazionalismo perverso che avvantaggia solo le oligarchie finanziarie che tirano i fili. Quando le luci si spengono i cittadini lusingati dal nazionalismo perverso, ritornano a una quotidianità amara. Pitagora aveva sicuramente ragione: «Lo spettacolo del mondo assomiglia a quello dei giochi olimpici: alcuni ci commerciano, alcuni pagano in prima persona, altri si accontentano di guardare». È chiaro che coloro che commerciano non sono interessati al valore dell’avvenimento. Così va il mondo.

Risultati immagini per peter norman
Peter Norman, Tommy Smith e John Carlos

Professor Chems Eddine Chitour
Fonte: www.legrandsoir.info
Link: http://www.legrandsoir.info/les-jeux-olympiques-du-xxeme-siecle-la-guerre-par-d-autres-moyens.html
28.07.2016

Traduizione per www.comedonchisciotte.org a cura di VOLLMOND

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16843