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giovedì 14 aprile 2022

Quanto sono pericolosi i valori maneggiati dai potenti della Terra. - Gustavo Zagrebelsky

 

Da una parte c'è la "Santa Russia" imperiale. Dall'altra si erge l'Occidente, amministratore della civiltà dei diritti. Ma una cosa è aiutare le vittime promuovendo la pace; altra cosa è attizzare cattive passioni: la crisi dà fiato ai nazionalisti

I morti ammazzati dai viventi sono sulla terra, anzi sotto terra; i valori sono in cielo. I morti chiedono compassione. Non sanno che farsene, dei valori. I potenti che ammazzano dove stanno? Sulla terra o in cielo? Evidentemente in terra, saldissimamente in terra, perché altrimenti non sarebbero potenti. Eppure, non fanno che evocare valori. Quando fanno finta d’essere in cielo, sono truffatori. Più si sale verso il cielo, più si perde di vista l’umanità.
Non c'è guerra, non c’è violenza, non c’è sopraffazione che non cerchino di giustificarsi, un tempo attraverso la santificazione, oggi attraverso la ideologizzazione. La violenza ha bisogno di “valorizzarsi”. Tanto più alto è il valore al quale ci si attacca, tanta più è la violenza cui ci si sente autorizzati. Per sua natura, “il valore deve valere”, cioè deve essere imposto con ogni mezzo. Il valore è astratto e puro e, come tutte le astrazioni, non è interessato al concreto. Anzi, lo disprezza perché nel concreto si annida la varietà, la relatività, l’impurità. Per realizzarsi, ogni ostacolo può, anzi deve essere spazzato via. Trasformata in valore anche la pace può giustificare la guerra, la “guerra giusta” o la guerra preventiva, per esempio (si vis pacem ecc.). Perfino la vita come valore può giustificare la morte (mors tua ecc.). Questa è la logica perversa del pensare per astrazioni.
I valori possono essere cose bellissime ma, maneggiati dai potenti, spesso fanno paura. In nome della promessa ad Abramo fatta dal “dio geloso” degli Ebrei, furono sterminate le popolazioni della terra di Canaan; in nome di Allah si proclama il Jihad offensivo contro gli infedeli; “Dio lo vuole” è il motto d’ogni “guerra santa”, d’ogni “crociata”, d’ogni sterminio degli eretici. Yahweh, Allah, il Dio cristiano degli eserciti hanno in comune l’assolutismo del valore. Chi potrebbe opporsi a chi parla e agisce in nome d’un dio? L’appello diretto, esplicito, a un dio di questa fatta, nel mondo secolarizzato odierno non fa più presa come un tempo. Le religioni, anzi, hanno fatto passi avanti verso la reciproca comprensione e il “dialogo interreligioso”, per essere possibile, deve rinunciare non ai propri valori, ma alla loro assolutizzazione. Ma, hanno trovato dei validi succedanei secolarizzati altrettanto astratti e pericolosi.
Tutte le “visioni del mondo”, le Weltanschauungen hanno parlato di “missioni” al servizio dell’umanità, o della civiltà, e si sono inevitabilmente risolte in razzismo, imperialismo, invasioni, stragi, partiti unici. Le guerre coloniali erano giuste per civilizzare i popoli primitivi, erano dunque un regalo. Lo stesso, gli sterminî degli indios per convertirli al cristianesimo. Il “destino manifesto” attribuito dalla Provvidenza agli americani chiamava i governanti di Washington al compito di espandere la libertà e la democrazia, tanto per incominciare con la cruentissima annessione del Nuovo Messico e con l’espansione in Arizona, Colorado, Nevada e Texas a spese dei popoli autoctoni.
Napoleone conquistò l’Europa e invase la Russia al prezzo di milioni di vittime in nome degli inviolabili valori della Rivoluzione. I nazisti e i fascisti si credevano in pieno diritto nel voler conquistare il proprio “spazio vitale” a danno dei popoli di “razza inferiore”. I dirigenti comunisti non dicevano certo di agire per sete di potere, ma per la felicità del popolo finalmente senza classi. Così, i valori, nelle mani dei potenti della terra, sono sempre stati armature ideologiche di politiche di potenza, fantasmi che si aggirano tra le genti con lo scopo di reciproche distruzioni. Questa è la sorte di tutte le dottrine universalistiche in mano alle potenze della terra, anche di quelle apparentemente più nobili e benevole. Il fatto, poi, che esse siano usate selettivamente, per intervenire qua e non là, secondo convenienze, dice tutto sul valore dei valori.
E oggi? Con quali fantasmi abbiamo a che fare?
Da una parte c’è l’ininterrotta presunzione della Russia d’essere destinataria d’una missione universale, che sia la “Santa Russia” imperiale o la “liberatrice dei popoli” o la patria della spiritualità ortodossa insidiata dal materialismo occidentale. Viene in mente l’immagine potente, meravigliosa agli occhi degli slavofili e terrificante per tutti gli altri, che conclude "Le anime morte" di Gogol: la troika che attraversa il mondo come un uragano, davanti alla quale tutti i popoli piegano il ginocchio.

Dall’altra parte, si erge l’Occidente, amministratore della civiltà dei diritti umani, della libertà, della democrazia: tutte bellissime cose che spesso, però, valgono soprattutto per rinfacciarne agli altri la violazione.
Ma, queste sono per l’appunto cose che stanno in cielo. Quando scendono in terra nelle mani dei potenti si trasformano in appropriazione monopolistica della legittimità. Servono le guerre, non la pace. Nella migliore delle ipotesi, i rapporti possono “congelarsi” temporaneamente, come nei decenni della “guerra fredda”. Abbiamo creduto in un “disgelo” che, in fondo, non ha mai sconfitto la politica di potenza, l’estensione delle “zone d’influenza”, la lotta per l’affiliazione o la dominazione dei popoli poveri e deboli che, per loro sfortuna, vivono nelle terre ricche.
Anche in quegli anni non c’era la pace, sebbene la guerra sembrasse improbabile nell’equilibrio del terrore. Improbabile non vuol dire impossibile e oggi ce ne rendiamo pienamente conto guardando la tragedia dell’Ucraina che, in fondo e per ora, sembra solo un foruncolo, ma forse è l’escrescenza su un’infezione che non è stata curata. Il che non diminuisce l’orrore, ma l’accresce.
I potenti che in tempo di guerra brandiscono una superiorità morale brandendo i loro valori si espongono a facili ironie e, soprattutto, non favoriscono la pace. Alzano barriere, armano i confini, creano incomunicabilità e ostilità. Alimentano il fanatismo, il conformismo, i “partiti unici” e comprimono le intelligenze. Si rialzano le frontiere. Si allontanano le speranze in un futuro in cui i nostri figli possano sentirsi membri d’una famiglia umana non divisa da vecchi e nuovi nazionalismi, possano viaggiare liberamente, possano stringere amicizie e coltivare amori con chi e come vogliono. Questa crisi, qualunque ne sia la fine, quando e se se ne verrà fuori, lascerà una scia di odio, di risentimenti, di desideri di rivincita, di altre violenze. Già ora si stanno distruggendo in un colpo solo i tanti fili economici, culturali, politici, giuridici e sociali che nei decenni sono stati faticosamente intessuti principalmente in Europa. Poiché, poi, la crisi dà fiato ai nazionalisti, consolida oligarchie, avvantaggia demagoghi e produttori di armi d’ogni tipo, è probabile che, al di là della propaganda e degli sdegni esibiti, vi sia chi ne trae vantaggio.
Con questa regressione dovremo fare i conti. Smascherando l’uso dei valori che stanno in cielo, guardando i morti e le sofferenze che stanno in terra. Qui, non là, sta la verità.
Accogliendo profughi senza distinzioni. Intessendo e potenziando relazioni, non interrompendole. Salvaguardando la dignità e l’universalità della cultura. Fornendo, nell’immediato, gli aiuti necessari a chi ne ha bisogno per vivere, sopravvivere e difendersi. La guerra c’è, e ci sono gli aggressori e gli aggrediti. Questa è l’unica certezza su cui non sono consentiti dubbi. Ma, una cosa è aiutare le vittime promuovendo la pace; altra cosa è attizzare cattive passioni. Dunque non aizzare i fanatici dell’Occidente, i nazionalisti, i sovranisti che oggi hanno l’occasione di mostrarsi come i suoi più efficaci difensori. Aiutare, ma contrastare le idee aggressive che prefigurano un futuro altrettanto o, forse, peggiore e, comunque, allontanano la prospettiva di un’intesa che metta fine alla guerra. Sobrietà e spirito critico, non per negare l’evidenza, ma per evitare il peggio.

lunedì 5 settembre 2016

IL LENTO DECLINO DELL'IDEALE OLIMPICO. UNA SELVAGGIA MERCIFICAZIONE. - Chems Eddine CHITOUR



Rio 2016 - dia-Rio Olimpico: i campioni non tradiscono, ma il Brasile è indifferente


"Lo sport è rivelatore di come va il mondo, permette agli Stati di mettersi in mostra. Da tempo – e ancora oggi – esso è posto al servizio dalle ragioni di Stato"- 
Valérie Fourneyron, rapporto all’Assemblea nazionale francese

Ho potuto costatare che a fare incetta di medaglie sono per lo più i paesi avanzati scientificamente. È questo lo spirito olimpico? Mi sono poi accorto che lo sciovinismo se non addirittura il razzismo e il nazionalismo sono state le cose meglio distribuite in questi giochi. Nessun paese importante ne ha fatto a meno. L’abbiamo visto nella crociata antirussa. Inoltre, non è sacrilego pensare che il peso specifico di ciascuna nazione intervenga indirettamente nelle decisioni dei giudici a cui si devono talvolta giudizi controversi. Infine veniamo a sapere che alcuni responsabili del CIO si sono dati alla rivendita di biglietti.

Siamo lontani dall’ideale dei giochi olimpici dell’epoca greca. Per la cronaca, ai primi giochi olimpici dell’era moderna presero parte 245 atleti rappresentanti di 14 paesi. Gli atleti – non le atlete – disputarono 43 prove tra atletica, lotta, sollevamento pesi, ginnastica, nuoto, tiro, ciclismo e scherma. Discipline di resistenza, corse di velocità, giavellotto e disco. Da allora sono state aggiunte diverse dozzine di discipline per nulla appannaggio dei paesi poco all’avanguardia in campo tecnologico, 28 discipline, tra le quali due nuove. Il prato accomuna queste ultime. Il 2016 è stato l’anno di un grande debutto – per il rugby a sette, giudicato più spettacolare (e più facile da organizzare) – e di un grande ritorno, quello del golf, assente dal 1904. A fianco di sport tradizionali quali l’atletica, il nuoto, gli sport di lotta o la ginnastica, se ne sono aggiunti degli altri: pentathlon moderno, vela, hockey su prato o la BMX, presente dall’edizione di Pechino del 2008. L’edizione dei giochi olimpici di Tokio, nel 2020, darà spazio ad altri cinque sport: karate, baseball, surf, arrampicata e skateboard. Ne approfitteranno quei paesi in cui tali sport sono già radicati. Perché non aggiungere sport nazionali quali la corsa dei cammelli, versione poco mondana della corsa dei cavalli? Lo sport non coincide con l’Occidente, ma si è scartato tutti ciò che non è occidentale. È vero che le corse dei cavalli le troviamo in Egitto nel VI secolo, la pratica del polo nella Cina del VII e VIII secolo o a Cordova nell’IX secolo, le corse dei carri a Costantinopoli nel X secolo, le competizioni di lotta nel XII secolo in Bretagna, le famose giostre medioevali dal XIII al XVI secolo e così altre attività sportive. Ma è evidente che negli attuali giochi olimpici la maggior parte delle discipline «moderne» escluda in toto quei paesi che non hanno né le strutture né il clima adatto né il rilievo e la geografia. Non è ai sahariani che bisogna parlare di canoa kayak o di sci. Inoltre, quando si aggiungono discipline fortemente tecnologiche, nello stesso tempo si scarta la maggior parte dei paesi che non ne dispone. Basti pensare che i giochi olimpici difficilmente potranno svolgersi nei paesi del Sud. Inoltre non è mai stata presa in considerazione la cooperazione tra più paesi.

Rio in cifre: la dismisura
Siamo arrivati a 10.500 atleti, 50 volte di più. I giochi di Rio sono i primi a tenersi nel continente sudamericano. Dal 1896 trenta edizioni hanno avuto luogo in Europa, America del Nord, Asia, Oceania (Australia) o in America centrale (Città del Messico). Tutti i paesi che non hanno accesso all’acqua in forma di fiume, mare, e semplici piscine, non avrà atleti impegnati in questi sport. Il budget stimato per l’organizzazione dei giochi di Rio è di 10 miliardi di euro. Con una riduzione di circa 2 miliardi rispetto ai giochi di Londra. 5130 medaglie finanziate per il 57% da privati e per il 43% da denaro pubblico. 3,5 miliardi di spettatori per la cerimonia d’apertura. Circa 2000 eventi sportivi. A ciascun campione olimpico francese toccheranno 50.000 euro, in caso di oro. 20.000 per una medaglia d’argento e 13.000 per l’ultima piazza del podio. Per gli atleti americani 22.000 euro per una medaglia d’oro e 330.000 euro per gli atleti azeri. Non sappiamo cosa abbiano promesso le autorità algerine. Infine i giochi di Rio hanno goduto della protezione dell’ISDS, compagnia israeliana presieduta da Leo Gleser, venditore di armi ed ex agente del Mossad, per un budget di 2 miliardi di dollari.

Doping, cinismo e merchandising
Juan Antonio Samaranch, presidente CIO dal 1980 al 2001, ha preparato la mercificazione dei giochi e fatto dei giochi un’impresa molto redditizia: le entrate del movimento olimpico si sono centuplicate anche grazie alla corruzione e alla mercificazione. Noi dove siamo? Secondo Sebastien Nadot, siamo più che mai in presenza di una crisi valoriale. Dottore Ehess: «doping, cinismo politico, commercio oltraggioso dei diritti umani universali: lo sport, almeno quello di cui si parla e che vorremmo continuare ad amare, è in pessimo stato. Che lo si voglia o meno, la politica e la diplomazia hanno pesantemente piegato lo sport ai propri meccanismi. Lo sport placa le tensioni internazionali se si vuol credere all’ateniese Tucidide che descriveva i giochi olimpici del 428 a.C. come «un’occasione per favorire i contatti diplomatici in tempi di tregua sacra». I giochi olimpici di Barcellona nel 1992 hanno dato il via alla svolta commerciale. Diversi sono gli attori coinvolti: gli sportivi, gli spettatori-consumatori, i cittadini, i politici, le autorità internazionali dello sport, gli agenti economici e commerciali».

Il body shopping degli atleti
Generalmente nessun paese, se ne ha i mezzi, rinuncia a barare. Questo accade attraverso il depauperamento delle elite sportive dei paesi poveri in un processo noto come «body shopping» anche se quest’espressione veniva usata in partenza per indicare un’immigrazione voluta e non subita. In mancanza di un forte sentimento di appartenenza, questi paesi poveri non hanno mezzi per trattenere i propri atleti né per competere economicamente con i paesi ricchi che comprano i loro atleti offrendogli laudi compensi.
Come suona l’inno nazionale francese o inglese cantato da un cinese o da un ceceno arrivati come atleti off-shore che non conoscono la lingua del paese che li accoglie? Andiamo verso un nazionalismo al ribasso su cui è permesso chiudere un occhio. L’abbiamo riconosciuto nei presentatori che faticano a pronunciare il nome di quegli atleti che, in caso di fallimento, non rinunceranno a biasimare. Ricacciandoli così nelle stesse condizioni che hanno lasciato. Si parla con cattiveria del Qatar e della sua «legione straniera» di pallamano, si dimentica di dire che la squadra francese del 1998 – lo slogan dell’epoca era nero bianco blu – come quella del 2016 era composta principalmente da francesi d’origine straniera. Nero, nero, nero, avrebbe detto l’ineffabile Alain Finkielkraut denunciando il fatto e invitando a ritrovare lo spirito di Alesia anche se lui stesso è nato all’estero, e nessuno andrebbe a dirgli che è un francese nato all’estero.
È evidente che la maggior parte dei paesi occidentali sfrutti l’immigrazione anche in ambito sportivo. La proporzione può arrivare fino al 20%. Paradossalmente i paesi dell’Est e specialmente la Russia non si danno al body shopping. Altre sono le nazioni che se ne servono. Naturalizzata francese, la giocatrice di ping-pong Xue Li disputerà i suoi secondi giochi olimpici a Rio. Molto fiera di rappresentare il proprio paese d’adozione nel quale vive da undici anni. Nel 1994 la naturalizzazione danese di Wilson Kipketer, corridore keniota, aveva aperto la via. Nella squadra francese di Rio una quarantina di atleti non sono nati in Francia. «Dei 396 atleti che difenderanno i colori blu-bianco-rosso a Rio, scrive Cedric Callier, alcuni sono nati all’estero. Ciò che non impedisce al Qatar e alla sua imponente … legione straniera (ben tre quarti degli atleti del Qatar sono il frutto di una massiccia politica di naturalizzazione) di dichiararsi fieri e ben integrati. Operazione che ha provocato un’importante levata di scudi. Ultimo esempio? Al tempo dei recenti campionati europei di atletica, la Turchia ha conquistato 12 medaglie, 10 delle quali da parte di atleti nati fuori dal territorio turco! Giocatore-simbolo della pallamano francese, il campione olimpico Nikola Karabatic è nato a Nis, in Serbia. La judoka (medaglia di bronzo) Gévrise Émane, a Yaoundé, in Camerun. A Rio altri atleti naturalizzati hanno rappresentato fieramente la Francia. Come Zelimkhan Khadjiev, l’unico lottatore francese tra gli uomini. Amore per la maglia francese condiviso dalla ventenne Tamara Horacek, riserva della squadra francese di pallamano. Così Kseniya Moustafaeva, bielorussa d’origine, è la sola rappresentante francese nella ginnastica ritmica: «Ho iniziato a praticare ginnastica nel mio paese a 4 anni e sono arrivata qui che ne avevo 5».

L’ideale olimpico, la politica e la sfortuna del mondo
In un contributo precedente «i giochi olimpici; la guerra con altri mezzi» avevo scritto in merito all’esclusione della Russia per sospetto doping considerandola l’occasione per l’Occidente di punire la Russia per la sua indipendenza e il suo rifiuto di obbedire all’Impero. Risultato: la delegazione russa è stata privata di 110 atleti e nonostante questo si è posizionata quarta nel medagliere. Fa venire alla mente i giochi di Mosca boicottati dai paesi occidentali e quelli di Sochi dove la pressione fu enorme. Lo stesso è accaduto per quelli di Los Angeles boicottati dall’Urss. Il CIO stesso si è immerso nella politica dando vita a un’equipe olimpica costituita da rifugiati registrati come apolidi per sottrarli al loro paese d’origine e a cui è stato dato uno statuto … Il che dimostra come si possa fare politica attraverso lo sport.

Il lato oscuro di Pierre de Coubertin medaglia d’oro di razzismo
Coloro che si interessano della storia recente dei giochi, non potranno fare a meno di evidenziare come il barone Pierre de Coubertin, inventore dei giochi, fosse un fiero sostenitore dell’ineguaglianza delle razze. Nato alla fine del secolo in Francia, ispirato dai Renan e dai Gobineau, cantori insieme a Jules Ferry delle razze superiori, «il barone aveva un culto per la forza fisica e credeva nella necessità di una selezione naturale atta a eliminare i più deboli. I suoi giochi olimpici dovevano permettere una colonizzazione sportiva e dimostrare la superiorità della razza bianca sulle altre». Per Daniel Salvatore Shiffer: «De Coubertin stesso, nelle sue memorie (1936), si vantava di essere un «fanatico colonialista» «Le razze hanno valori differenti e alla razza bianca, d’essenza superiore, tutte le altre devono obbedire» Tanto che Coubertin, per coronare il tutto, considera lo sport il mezzo migliore per preparare la gioventù alla guerra: «Il giovane sportivo sarà evidentemente più predisposto a partire (per la guerra) rispetto ai suoi avi. E quando si è preparati per qualcosa, si fa più volentieri».

I giochi olimpici e le buone cause
Oltre alle strumentalizzazioni politiche, i giochi sono stati usati anche per sostenere delle buone cause. Per l’emancipazione dei popoli. Per la cronaca, dei giochi di Città del Messico del 1968, ci si ricorda dei famosi pugni inguantati alzati verso il cielo dei duecentisti americani Tommy Smith e John Carlos. Nessuno ha prestato attenzione al terzo corridore e pertanto scrive Riccardo Gazzaniga … «Potrebbe essere lui il vero eroe della scena. (…) Bianco, immobile sul secondo gradino del podio. 

Non alza il pugno verso il cielo (…) Tant’è che pensavo che quest’uomo, nella sua rigidità, rappresentasse l’archetipo del conservatore bianco che così esprime la sua resistenza al cambiamento che Smith e Carlos invocano silenziosamente dietro di lui (…). In realtà l’uomo bianco della foto, quello che non alza il braccio, potrebbe essere il vero protagonista di quella serata estiva del 1968. Si chiamava Peter Norman, era australiano e quella sera aveva corso come un matto, tagliando il traguardo in un incredibile 20 secondi e 06». «Il razzismo e la segregazione, prosegue l’autore, erano estremamente violenti in Australia, non solo contro i Neri, ma anche contro le popolazioni aborigene. I due afroamericani hanno chiesto a Norman se credesse nei diritti umani. Lui rispose di sì. «Gli abbiamo riferito cosa avremmo fatto, racconterà più tardi John Carlos. Mi aspettavo di vedere della paura negli occhi di Norman … Al contrario abbiamo visto dell’amore». Norman ha semplicemente risposto: «Sarò con voi». Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio a piedi nudi per simboleggiare la povertà che colpisce la maggior parte delle persone di colore. Avrebbero sfoggiato il distintivo del Progetto olimpico per i diritti dell’uomo, un movimento di atleti impegnati nella lotta per l’uguaglianza. Appena prima di salire sul podio, Smith e Carlos si resero conto di avere solo un paio di guanti. Volevano rinunciare a questo simbolo, ma è Norman che ha insistito consigliando loro di portarne uno ciascuno. Se guardate bene la foto, vi accorgerete che anche Norman porta il distintivo del Progetto olimpico per i diritti dell’uomo, spillato sul cuore. I tre atleti sono saliti sul podio, il resto è Storia catturata dalla potenza di una foto ormai nota in tutto mondo». «Ciò che si sa meno è che Peter Norman ha subito pesanti conseguenze. Per aver dato il proprio sostegno ai due uomini, ha dovuto dire addio a una promettente carriera. Delle semplici scuse gli avrebbero consentito di continuare (…) Ma non l’ha fatto. Col tempo Smith e Carlos sono diventati dei veri e proprio eroi avendo difeso contro tutti la causa dell’uguaglianza razziale. In California è stata eretta una statua dedicata ai due uomini con il pugno alzato … Solo l’australiano non compare. Peter Norman muore nel 2006 a Melbourne in Australia. In occasione dei suoi funerali i due sprinter americani hanno voluto portare la bara. Non dimentichiamo Peter Norman, eroe senza guanto, cancellato dalla Storia, che non ha mai smesso di lottare per l’uguaglianza degli uomini».

La debacle dello sport in Algeria
In Algeria lo sport è ancora un’utopia. I rari successi conseguiti sono indipendenti delle politiche del potere. È per proprie capacità che Boulmerka, Morcelli, Benida Merah hanno conquistato l’oro olimpico; non lo devono alle politiche dello Stato. Per la cronaca Boughera El-Ouafi, algerino di Ouled Djellal, vicino a Biskra, era un atleta fuori norma. Conquistò la medaglia d’oro alla maratona dei giochi olimpici del 1928, organizzati ad Amsterdam, nei Paesi bassi. Come al solito gli algerini dovranno pregare per avere visibilità a Rio. Non ci sarà il miracolo perché una rondine non fa primavera. Perché? Perché abbiamo sempre lavorato nell’effimero. Perché? Con solo dieci milioni di giovani del sistema scolastico avremmo potuto costruire un sistema sportivo. Ma ci affidiamo ancora all’uomo della provvidenza perché il sentimento nazionale è scomparso. Tutto si paga. Abbiamo l’impressione che il ministero della gioventù e dello sport coincida con una squadra nazionale praticamente off-shore. Lo sport dovrebbe essere praticato in maniera intensiva nelle scuole. Ricordiamo che la maggior parte degli atleti americani proviene dalle università. Dovremmo fare un serio esame di coscienza. È l’unico mezzo per riconquistare la gioventù e affrontare le competizioni restituendo visibilità dell’Algeria.

Come possiamo concludere?
Ritroviamo la stessa influenza dei ricchi in un evento sportivo che pretende di essere ecumenico. Il medagliere non significa niente, e il trionfalismo costante reca con sé qualcosa di immorale e meschino. Siamo in diritto di dubitare della rilevanza di questi giochi, destinati al fallimento. Più veloce più alto più lontano è uno slogan a cui nessuno ormai crede dato che dall’inizio i giochi sono falsificati dal doping e dalla mediatizzazione che si regge su un merchandising mischiato a un nazionalismo perverso che avvantaggia solo le oligarchie finanziarie che tirano i fili. Quando le luci si spengono i cittadini lusingati dal nazionalismo perverso, ritornano a una quotidianità amara. Pitagora aveva sicuramente ragione: «Lo spettacolo del mondo assomiglia a quello dei giochi olimpici: alcuni ci commerciano, alcuni pagano in prima persona, altri si accontentano di guardare». È chiaro che coloro che commerciano non sono interessati al valore dell’avvenimento. Così va il mondo.

Risultati immagini per peter norman
Peter Norman, Tommy Smith e John Carlos

Professor Chems Eddine Chitour
Fonte: www.legrandsoir.info
Link: http://www.legrandsoir.info/les-jeux-olympiques-du-xxeme-siecle-la-guerre-par-d-autres-moyens.html
28.07.2016

Traduizione per www.comedonchisciotte.org a cura di VOLLMOND

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16843