mercoledì 3 giugno 2020

Conte, un piano Marshall per scacciare i fantasmi. - Luca De Carolis

Conte, un piano Marshall per scacciare i fantasmi

Oggi il premier parla della ricostruzione.
Innanzitutto chiederà responsabilità e cautela, a tutti. Perché oggi le Regioni riapriranno i confini, e potrebbe bastare poco per ridare forza e artigli al coronavirus, fiaccato da settimane di chiusura e dai provvedimenti che l’avvocato diventato premier rivendica come sacrifici indispensabili. Ma oggi pomeriggio, nel suo ennesimo discorso alla nazione, sotto forma di conferenza stampa, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, proverà soprattutto a declinare il futuro: del Paese e di fatto del suo governo.
Sarà il mercoledì del suo piano Marshall, parafrasando il Sergio Mattarella che due giorni fa aveva ricordato l’immediato dopoguerra, l’Italia del 1946, invocando “un nuovo inizio” per una nazione ferita. E la chiave di Conte sarà il Recovery Plan, il piano di rilancio che aveva già illustrato in una lettera al Fatto pochi giorni fa.
Sette punti, dalla riduzione della burocrazia “con una rivoluzione culturale nella Pubblica amministrazione” al rilancio degli investimenti pubblici e privati, per arrivare agli “incentivi alla digitalizzazione, ai pagamenti elettronici e all’innovazione” e alla “transizione verso un’economia sostenibile”. Fino a processi più veloci e a una riforma del Fisco, annunciata anche dal M5S tramite una dimaiana di ferro come il viceministro all’Economia, Laura Castelli.
Tante voci e promesse per ripartire, usando come leva i miliardi che dovranno arrivare con il Recovery Fund dell’Unione europea: la benzina indispensabile ”per impostare l’ avvenire da qui a dieci anni” come dicono da Palazzo Chigi. Perché vuole mostrare di pensare in grande, il premier. Svoltata la boa dei primi due anni a Palazzo Chigi, sa che deve puntare su se stesso e su un’agenda “forte” per sottrarsi ai venti contrari, fuori e dentro la sua maggioranza. Avverte e vede movimenti traversali, il presidente che non vuole avere casacche, ma che da terzo è anche più solo, più esposto. Per questo, raccontano, ha apprezzato l’intervista di ieri di Romano Prodi a Repubblica, in cui l’ex premier lo ha difeso. “Questo governo non può cadere, non esiste alternativa”, ha sostenuto il fondatore dell’Ulivo. Duro nei confronti del presidente di Confindustria Carlo Bonomi (“Dicendo che la politica rischia di fare più danni del Covid ha pronunciato un’affermazione distruttiva”): favorevole all’entrata dello Stato in alcune aziende “indispensabili per il nostro futuro”, così da “difenderle da mire straniere”, proprio come intende fare Conte. Ma per tutelarsi l’avvocato deve mettere in campo soluzioni concrete, garantire che ha una rotta che va oltre il crinale del Covid. E da qui si torna al suo piano, che guarnirà insistendo sulla necessità di uno spirito da unità nazionale. “Ma senza appelli particolari alle opposizioni o ai partiti in generale” spiegano fonti qualificate. Conte ha evitato di commentare la manifestazione di ieri del centrodestra a Roma.
Ma da Palazzo Chigi filtra la convinzione che il corteo “sia andato in direzione opposta a quanto auspicato dal presidente della Repubblica” appena poche ore prima. E il filo che Conte e i suoi vogliono tirare è sempre quello che porta al Quirinale, il punto di riferimento del presidente del Consiglio, l’unica certezza a cui non ha mai rinunciato in due anni in cui ha cambiato maggioranza, parola d’ordine e piani. Per non cadere.

Manifestare è un diritto. - Massimo Erbetti



Si manifestare è un diritto, lo dice l'articolo 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure".

Per cui bene hanno fatto ieri a scendere in piazza tutti quelli che ritengono di avere qualcosa da dire.
Hanno fatto bene anche perché ci hanno dato la possibilità di vedere la loro inadeguatezza ad affrontare i problemi e a dare soluzioni adeguate. Fino a 24 ore prima la Meloni assicurava che non ci sarebbero stati assembramenti, che si sarebbero mantenute le distanze di sicurezza e che tutti avrebbero indossato le Mascherine, ma come abbiamo visto così non è stato, sono state violate le più basilari norme per evitare il contagio. 
Vogliamo poi parlare degli slogan contro il Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio? Mattarella vaffa... Conte vaffa... e non contenti di ciò, c'è stato perfino chi gridava "la mafia ha ucciso il fratello sbagliato"...complimenti, veramente complimenti...una vergogna assoluta, inneggiare all'assassinio di un uomo è quanto di più abominevole si possa fare...e per giunta un assassinio di mafia.

Al momento, non mi sembra che i leader della protesta, abbiano preso le distanze da certe dichiarazioni, nessuna parola di condanna e questo fa di loro dei complici.
Per cui è un bene che ieri queste persone siano scese in piazza, perché per l'ennesima volta hanno dato dimostrazione del fatto che predicano bene, ma razzolano veramente male. Non bastava la malagestione della sanita lombarda nell'affrontare la pandemia, non bastava non aver votato contro il Recovery Fund in Europa, non bastavano le fake news messe in circolazione, no a loro non bastava tutto questo, avevano la necessità di farci vedere ancora una volta che non sono in grado di gestire nulla, nemmeno una manifestazione con poche persone...e pensare che questa gente vorrebbe governare un paese intero.
P. S. e se non fosse per il fatto che ieri è stata messa a rischio la salute degli italiani, ci sarebbe anche da ridere...ma purtroppo non c'è niente da ridere...

Il Coniglio superiore. - Marco Travaglio

Consiglio superiore della magistratura: rimossi due giudici di ...
Si pensava e sperava che leggendo le intercettazioni, penalmente irrilevanti ma moralmente rilevantissime, dell’inchiesta Palamara i nostri partiti avessero capito non solo che, ma anche come vanno riformati il Consiglio superiore della magistratura e l’Ordinamento giudiziario. Purtroppo non è così e infatti non solo il centrodestra, ma anche il Pd si oppongono a una delle proposte di maggior buonsenso avanzate dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: quella che, per rompere il circuito perverso delle porte girevoli fra politica e magistratura, impedisce ai magistrati che entrano in politica di tornare in toga con funzioni penali (sia inquirenti sia giudicanti???), ma vieta anche a chi ricopre cariche elettive (parlamentare, ministro, amministratore locale) di diventare subito dopo membro laico del Csm. Cioè dell’organo costituzionale che è il supremo garante dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere e dunque dev’essere esso stesso autonomo e indipendente da ogni altro potere. Anzitutto quello politico. Noi siamo per abolire i membri laici, cioè eletti dal Parlamento, affinché il Csm sia davvero un organo di autogoverno e non di eterogoverno dei magistrati, ma sappiamo bene che ciò richiederebbe una riforma costituzionale e che non esiste purtroppo una maggioranza (per giunta dei due terzi) disposta ad approvarla. Ma evitare che un ministro, un sottosegretario o un parlamentare vada direttamente a giudicare disciplinarmente i magistrati e a deciderne le carriere è proprio il minimo sindacale (poi, certo, va anche restituita la titolarità dell’azione penale ai singoli pm e non più soltanto ai procuratori capi, vanno aboliti i limiti di 8 anni per gli incarichi direttivi e semidirettivi delle Procure e va istituito un sistema misto, col sorteggio preliminare, per l’elezione dei membri togati del Csm).
E invece il Pd, per bocca del suo ineffabile sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, fa sapere che è cosa buona e giusta che un parlamentare cambi cappello e vada al Csm. Addirittura come vicepresidente, cioè come capo effettivo dell’insigne consesso, visto che raramente il presidente di diritto – il capo dello Stato – partecipa alle sedute. Del resto lo dobbiamo al Pd se i vicepresidenti degli ultimi due Csm, Giovanni Legnini di quello passato e David Ermini di quello in carica, erano fino al giorno prima parlamentari (Legnini addirittura sottosegretario all’Economia del governo Renzi). Alla faccia dell’autonomia e dell’indipendenza. Purtroppo i padri costituenti non avevano previsto le degenerazioni della partitocrazia. Dunque non avevano immaginato che il Csm si sarebbe trasformato in una casa di riposo per politici trombati o un plotone di esecuzione della peggiore politica contro la migliore magistratura. Ma ciò che sognavano, quando introdussero nel Csm la quota dei laici (pur minoritaria rispetto ai togati), era chiaro e lampante: e cioè che il Parlamento designasse figure di alto prestigio, professionalità e indipendenza nel mondo del diritto. Infatti prescrissero di sceglierli “tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Non tra parlamentari o sottosegretari in carica. Ci volle la spudoratezza prima di B., poi della Lega, poi del centrosinistra e infine dell’Innominabile per mandarci gli avvocati di stretta fiducia dei leader che, per comodità, se li erano già portati in Parlamento e al governo. Infatti, quando la politica era una cosa seria, anche i partiti più malfamati della Prima Repubblica mandarono a vicepresiedere il Csm giuristi cristallini come Vittorio Bachelet, Giovanni Conso, Vittorio Bachelet e Cesare Mirabelli, insieme a ex politici molto autorevoli e defilati come Alfredo Amatucci, Giacinto Bosco, Giancarlo De Carolis e Giovanni Galloni (con l’eccezione di Ugo Zilletti, beccato nelle liste della P2). Poi, con l’arrivo di B., lo sbraco: nel Csm entrarono i pasdaran antigiudici forzisti Viviani, Buccico, Casellati, Anedda, Di Federico, Spangher e Leone, uno degli avvocati di B. (Saponara), l’avvocato di Bossi (Brigandì, poi decaduto perché indagato e incompatibile, mentre raccoglieva dossier sulla Boccassini), l’avvocato di Etruria e di papà Boschi (Fanfani), due avvocati dalemiani (Di Cagno e Calvi), per finire in bellezza con i vicepresidenti Mancino (napolitanista), Vietti (piercasinista) ed Ermini (turborenziano e lottiano, poi convertito sulla via di Perugia).
Una galleria degli orrori che s’è aggiunta ai traffici di corrente dei membri togati, giocando di sponda con loro e col Quirinale (specie ai tempi di Re Giorgio) in conto terzi (i partiti di provenienza) per punire i magistrati migliori e promuovere i peggiori ben prima che il trojan nel cellulare di Palamara squarciasse il velo dell’ipocrisia. I casi De Magistris, Apicella, Nuzzi, Verasani, Woodcock, Iannuzzi, Robledo, Forleo, Di Matteo, Ingroia, Lo Forte, Scarpinato e tanti altri sono ancora lì, impuniti e graveolenti, a imperitura memoria (per chi ne possiede una). E ora che finalmente il re è nudo, tocca pure sentire qualcuno che non vuole cambiare le cose. O vuole fingere di cambiare tutto per non cambiare nulla. La verità è che i vecchi partiti non rimproverano a Palamara di aver fatto ciò che facevano tutti da 25 anni. Ma di essersi fatto beccare.

Il politico Toti e la dissimulazione. - Antonio Padellaro

Toti fra due sedie: le mosse sbagliate, Liguria allo sbando, e ...
Mettiamo che nel corso della campagna elettorale del prossimo autunno, quella per essere rieletto alla presidenza della Regione Liguria, Giovanni Toti se ne esca pubblicamente con queste parole: “Cari elettori, sappiate che non mi comporterò mai come un ipocrita a proposito di ciò che io intendo debba essere la politica. Infatti per fare le rivoluzioni bisogna saper fare compromessi, e per fare il bene talvolta saper coltivare anche il male. È la politica. Sennò è testimonianza, uno fa il prete o il volontario!”.
Tendiamo a escludere che Toti possa pronunciare mai questa frase in un comizio o in tv. Eppure il concetto sul rapporto tra rivoluzioni e i compromessi, e sul male che genera il bene gli appartiene tutto. È contenuto negli sms che Elisa Serafini ha trascritto nel libro Fuori dal Comune, dopo che si è dimessa nel luglio 2018 da assessore alla Cultura e al marketing del Comune di Genova in seguito alle pressioni ricevute per finanziare una mostra raccomandata dal centrodestra. Del caso (di cui si è scritto sul FQ di sabato scorso e attualmente oggetto di un’indagine della Procura di Genova) a noi interessano un aspetto e un interrogativo. Se cioè la politica possa convivere con la verità (e viceversa); e se l’uso della finzione, e dunque dell’ipocrisia e della dissimulazione, sia uno strumento irrinunciabile nella comunicazione di potere.
È nelle cose che la politica sia l’arte dei buoni compromessi (sulla rivoluzione ci andrei più cauto). Tutt’altro discorso, ovviamente, chiedere a un assessore di compromettersi a prezzo di una “marchetta per la Lega” (Serafini). Sarei cauto inoltre sul concetto di “saper coltivare il male per fare il bene”: poiché non è un caso frequentissimo e comunque succede soprattutto al cinema. Altra cosa, tuttavia è innaffiare e concimare “marchette” aspettandosi di raccogliere rose profumate. Se (per pura ipotesi) Toti volesse trarsi d’impaccio per quegli sms imbarazzanti potrebbe ricorrere al solito Machiavelli del fine giustifica i mezzi. Ci sta ma perché non dichiararlo apertamente invece di continuare a prendere per il naso la gente straparlando di un mondo che non c’è?
Lo spunto, ovviamente, è il caso denunciato da Elisa Serafini ma il problema riguarda la credibilità complessiva di chi fa politica che, come sappiamo, è vicina allo zero e certo non da oggi (il solito Voltaire: “La politica è il mezzo con cui uomini senza principi dirigono uomini senza memoria”). Un crollo accentuato dalla perdita di senso delle parole. E dalla concatenazione di complicità con cui si cerca di tappare la bocca a chi non vuole più stare al gioco. Racconta Serafini che il sindaco di Genova, Marco Bucci gli disse “che era consapevole che l’erogazione del fondo non fosse legittima, che era una porcata”; e “che se non facciamo questa cosa saltiamo tutti, Elisa”. E se una la porcata proprio non vuole farla si può fare leva sul sentimento di gratitudine tradita: “Ti sembra etico morale e coscienzioso fare quel gesto senza una telefonata dopo che ti abbiamo imposto in giunta?”, scrive Toti in un affranto messaggino. Delusione che può essere anche comprensibile per chi ragiona secondo lo spirito di uno di quei potenti clan che fanno e disfano carriere (ok ma per favore non si parli più di valori della politica o balle simili).
Quanto ai “preti” e ai “volontari”, astenersi perditempo. Ieri, La Verità ha pubblicato una lunga intervista al presidente della Liguria. Titolo: “Stiamo attenti alle spinte neo centraliste”. Zeppa sicuramente di elevati principi, ma ho capito che non parlava di Elisa Serafini.

martedì 2 giugno 2020

Giuseppe Conte.

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Non c’è tempesta che possa piegare questa bandiera, simbolo della nostra comune appartenenza, dei nostri valori fondativi. Uniamo e concentriamo tutte le nostre energie nello sforzo condiviso di rialzarci e ripartire con la massima determinazione. Scacciamo via la tentazione delle inutili rincorse a dividerci e dello spreco di energie nel rimarcare i contrasti in questo momento di grande difficoltà.

Il 2 giugno del 1946 è nata la nostra Repubblica, che per la Costituzione è una e indivisibile. È stato il giorno di un nuovo inizio. Una intera generazione di donne e uomini, pur severamente provata dalla guerra, prese la ferma decisione di volgersi alle spalle sofferenze e distruzioni e, coraggiosamente, intraprese l’opera di ricostruzione del Paese, puntando con forza nella rinascita della intera comunità nazionale.


La ricorrenza di oggi ci restituisce alla memoria una grande testimonianza storica, una prova collettiva di grande coraggio e fiducia, come ci ha ricordato il Presidente Mattarella, che assume ancor più rilievo nel momento attuale, in cui avvertiamo forte la sofferenza per le persone care che abbiamo perso, ed è quantomai viva l’angoscia per i sacrifici personali, sociali ed economici che siamo chiamati ad affrontare. Non dimentichiamo quel senso di condivisione che ci ha guidato quando sembrava impossibile contenere la pandemia e intravvedere una uscita dalla fase più acuta dell’emergenza. Dobbiamo tutti raccogliere l’invito del Capo dello Stato a collaborare, pur nella distinzione dei ruoli e delle posizioni politiche. Servirà ancor di più adesso, mentre sosteniamo i nostri territori che vogliono ripartire, mentre siamo chiamati a ridisegnare il Paese dei nostri figli con scelte decise, difficili e coraggiose. È necessario che ognuno faccia la propria parte, come è sempre stato nei momenti più difficili della nostra storia.
L’Italia, la nostra comunità, è la nostra forza.


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I due anni di Conte: il premier-avvocato diventato politico. - Luca De Carolis

I due anni di Conte: il premier-avvocato diventato politico
Palazzo Chigi - Il primo giuramento nel 2018.
Da presunto uomo di paglia a presunto autocrate il passo è breve. Misura due anni, il tempo esatto (finora) di permanenza a Palazzo Chigi di Giuseppe Conte, l’avvocato che doveva ballare a comando di Luigi Di Maio e Matteo Salvini e invece proprio no, la musica la detta lui, e da parecchio. Con il leghista che si è sfilato dal governo in agosto rimettendoci 10 punti nei sondaggi, e Di Maio che ora è ministro degli Esteri ma non più vicepremier, di quel Conte “che abbiamo portato lì con i nostri voti” come ricorda ogni volta che può.
Ma tanto il premier se ne sta lassù, anche se da settimane è tutto un vociferare di rimpasti, governi di unità nazionale e urne di settembre. “Conte sa che attorno a lui si muovono strane cose” sussurra un 5Stelle di governo. Nei sondaggi resta alto: convesso quindi politico. Ricuce e riparte. Lascia urlare e poi decide, specialmente in tempi di emergenza, perché Covid fa rima con Dpcm, quei pezzi di carta per regolare la vita del Paese firmati dal presidente del Consiglio. Così, giuristi e politici vari hanno urlato al dittatore, anche se i Dpcm nascono sulla base di un decreto legge. E viene un sorriso a rileggere commenti e agenzie di quel 1° giugno 2018 in cui venne nominato premier, e tutti a descriverlo come un vaso di coccio. Sei giorni dopo era alla Camera per il voto di fiducia al governo gialloverde, stravolto (“aveva dormito solo un’ora” racconterà poi un ministro). Tanto da aggrapparsi ai consigli di Di Maio, seduto lì accanto. “Posso dire che…?” si scorge in un video dell’epoca. E l’allora capo M5S replica secco: “No”. Un dazio in apparenza normale per l’avvocato che nell’ipotetico governo Di Maio, annunciato alla vigilia delle Politiche, venne presentato come il futuro ministro della Pubblica amministrazione. Invece era la carta coperta per Chigi. Vicino ai grillini ma grillino mai, e lo disse lui, alla festa del Fatto, il 2 settembre scorso: “Definirmi dei 5Stelle mi sembra inappropriato, non sono iscritto al M5S”. Eppure è popolarissimo tra la gente grillina, che in ottobre lo accolse come una rockstar alla festa per i 10 anni del M5S a Napoli. Anche se era intimo di tanto Pd già prima del governo, da ex docente a Firenze che il renzismo lo conosce. La sua forza risiede nei rapporti con il potere che non passa, con la Chiesa. “Non c’è un esponente Pd che abbia i legami che ha lui in Vaticano”, raccontava un notabile dem. Non gli impedì di deglutire in un amen il Salvini del “chiudiamo i porti”, ai tempi del governo gialloverde.
Anzi, fu lui il primo a scandire che l’allora ministro dell’Interno non andava processato per il caso della nave Diciotti “perché ha deciso tutto il governo”. Poi arrivò lo strappo di agosto, e il discorso di Conte in Senato che fu requisitoria contro Salvini. Giorni dopo, il governo giallorosa col Pd, Matteo Renzi e la benedizione essenziale di Beppe Grillo, rumorosamente contiano (si sentono spesso). Oggi come allora con l’Europa tratta lui. Di solito trova il punto di caduta, anche su rogne come la regolarizzazione dei lavoratori migranti. Però ha sbandato sul via libera alle messe, e la Cei gliel’ha fatto notare, per ricordargli da dove viene. E i ritardi sulla Cig sono una ferita. “Deve essere meno solo” dicono dai due lati di governo: e Renzi è un nemico. Conte sa che il tranello potrebbe essere in un rimpasto. Anche per questo ha subito “ingabbiato” il capo della task force Vittorio Colao. Se supera l’autunno, di anni da premier ne potrebbe festeggiare cinque. Farà meglio a riguardarsi.

È arrivato l’arrotino. - Marco Travaglio

Civitanova Marche, apre il mega ospedale di Bertolaso: tanti ...

Dopo tante tragedie, un po’ di buonumore ci voleva. Ma qui si esagera. Avete presente il pianto greco di Salvini che, passato dal citofono al telefono, chiama Mattarella perché Palamara sparlava di lui col procuratore di Viterbo? A parte il fatto che non si capisce dov’è il problema se due pm che mai si sono occupati né si occuperanno di Salvini sparlano di Salvini (fra l’altro sui suoi attacchi alla Procura di Agrigento, non sui suoi processi), l’aspetto comico è che Salvini fino all’altroieri voleva vietare per legge la pubblicazione di intercettazioni penalmente irrilevanti. E, come lui, tutti i partiti e i giornali di destra e sinistra che ora commentano le intercettazioni penalmente irrilevanti di Palamara (quelle rilevanti non riguardano il Csm, l’Anm e le correnti, ma le accuse di corruzione). Cioè: se fosse dipeso da Salvini, le chiacchiere sul suo conto di Palamara non sarebbero mai uscite e lui non avrebbe mai potuto piagnucolare. Per fortuna di Salvini, Bonafede non diede retta a Salvini e non vietò di pubblicarle. Il fatto poi che, a pubblicarle, oltre a noi che abbiamo sempre combattuto le leggi-bavaglio, siano Verità, Libero, Giornale, Messaggero, Corriere e Stampa, che han sempre sostenuto tutti i bavagli, e Repubblica che combatteva quelli di B. e plaudiva quelli del Pd, aggiunge un tocco di surrealismo al paradosso.
Ma, dicevamo, qui con le risate si esagera. L’altroieri tutti i giornali tranne il nostro anticipavano (in esclusiva) succulenti stralci di un nuovo capolavoro letterario che sta per abbattersi sulle librerie. L’autore non è Bruno Vespa, il cui annuale bestseller in forma di anticipazioni inizia a molestare le agenzie di stampa e le redazioni verso fine novembre: è l’Innominabile. Che del prezioso incunabolo, come nota Luca Bottura, ha recapitato a ciascuna testata un brano “personalizzato” per i rispettivi lettori. Impresa agevolata dalla natura “componibile” del Cazzaro Transformer, buono per tutte le stagioni, i palati e gli stomaci (un po’ meno per gli elettori): un attacco ai magistrati per La Verità, un allarme su Conte dittatore per il Giornale, una critica al giustizialismo del Pd per Libero, una stoccata alle banche per Il Tempo, un farfugliamento sugli aiuti alle imprese per Repubblica, un delirio su inchieste parlamentari sulla gestione del Covid per il Corriere, un appello suicida al “ritorno della competenza” per La Stampa, un inno alle scuole private per Avvenire e l’ideona (davvero inedita) di un Ponte sullo Stretto di Messina per il Giornale di Sicilia. Mancavano soltanto un elogio del Ficus benjamina per Cose di Casa e un progetto di legge di Iv contro le ragadi per Riza Psicosomatica. Ma, dicevamo, con le risate si esagera.
Ci sono pure le avventure di Guido Bertolaso che, da quando fu richiamato dal Sudafrica per salvare l’Italia e poi più modestamente la Lombardia, dal Coronavirus e appena arrivato si beccò il Coronavirus, non cessano di appassionare. Il pover’uomo, di cui si erano perse le tracce dopo i trionfi dell’ospedale alla Fiera di Milano costato 50 milioni (12 posti letto, in gran parte vuoti) e di quello gemello a Civitanova Marche costato appena 8 milioni (dunque totalmente deserto), è stato segnalato l’altro giorno in quel di Trapani e poi a Palermo. Problema: la Sicilia è inaccessibile in base ad apposita ordinanza del camerata presidente Musumeci. Soluzione: inventarsi una missione istituzionale qualsiasi per il globetrotter delle disgrazie. Infatti l’assessore all’Economia s’inventa che San Guido è il nuovo responsabile dell’emergenza Covid nell’isola, visto che quello vecchio è stato arrestato. Ma si scorda di coordinare la balla col presidente Musumeci, che lo sbugiarda a stretto giro: “Bertolaso è a Trapani per ormeggiare la sua barca”. Insomma fa il turista, anche se non potrebbe farlo, salvo finire in quarantena (e allora perché Musumeci ha pranzato con lui al ristorante?). Polemiche a non finire all’Ars, spente dall’assessore alla Salute con un’altra panzana, che però sbugiarda quella del presidente: “Bertolaso poteva entrare perché è qui per ragioni di lavoro”. Quale? Boh.
Alla fine, a mettere ordine fra le cazzate della Regione, provvede Bertolaso: “Sono stato invitato ufficialmente dal presidente della Regione per dare una mano”. A far che? “A studiare il modo migliore per consentire ai turisti di venire qui tranquilli e sicuri e ai siciliani di evitare di essere contaminati”. Un po’ come in Lombardia e nelle Marche, dove a furia di stringere mani e parlare vis à vis a questo e quello senza distanziamento, né mascherina, né guanti, contagiò se stesso e mandò tutti in quarantena. Ora darà “una mano”, si spera coi guanti, in qualsiasi cosa. Perché ha questo di bello: non avendo competenze su quasi nulla (è un chirurgo specializzato in malattie tropicali africane, piuttosto rare in Italia), può fare tutto con la stessa enciclopedica incompetenza. E spaziare dal Covid al turismo, ma anche volendo dall’astrofisica alla prestidigitazione. Quando finirà in Sicilia, già ce lo vediamo in giro per l’Italia sull’Ape Piaggio col megafono a tutto volume: “Donne, è arrivato Bertolaso! Arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto! Donne, è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio! Aggiustiamo gli ombrelli! E ripariamo cucine a gas: se fanno fumo, noi togliamo il fumo! E se non avete il Covid, ve lo regaliamo noi!”.