venerdì 10 luglio 2020

Il sospetto: “Ruolo attivo di Fontana per il cognato”. - Davide Milosa

Il sospetto: “Ruolo attivo di Fontana per il cognato”

Al vaglio dei pm le “mosse anomale del governatore nella fornitura dei dispositivi di protezione”.
L’inchiesta milanese sui camici prima venduti e poi donati dalla società del cognato del governatore Attilio Fontana alla centrale acquisiti della Regione (Aria) entra nel vivo. La Procura ha in mano due dati fondamentali per comprendere come si è svolta la vicenda e quale scopo aveva. Il primo elemento è la “prova” che Dama spa di Andrea Dini dopo aver chiuso la donazione con 25 mila camici in meno dell’accordo iniziale (50 mila invece che 75 mila) ha tentato di rivendere il rimanente a prezzo maggiorato e da un’altra parte. Il secondo elemento riguarda invece il ruolo del governatore Attilio Fontana che al momento non risulta indagato. Il tutto è ricondotto al 15 maggio quando il cronista di Report intervista il governatore. In quel momento il contratto (e non la donazione) di forniture è in essere da circa un mese.
Nel colloquio con il presidente non si parla dei camici, il tema è l’emergenza Covid e come è stata affrontata. La cosa però, si ragiona in Procura, pare aver insospettito Fontana che, secondo la ricostruzione dei pm, si è adoperato perché quella che fin dall’inizio doveva essere una fornitura commerciale per 513 mila euro di camici si trasformasse in una improbabile donazione. Un atteggiamento lodevole se non fosse legato, spiegano fonti qualificate, a una possibile anomalia precedente l’inizio del contratto tra Dama e Aria. Risultato: il 20 maggio Dini annuncia ad Aria lo storno delle fatture trasformando parte dell’offerta in donazione. Insomma pare di capire che Attilio Fontana, dopo essere stato archiviato dall’accusa di abuso d’ufficio in relazione all’incarico dato dalla Regione a un suo ex socio di studio, ora rischi di ricadere nel frullatore giudiziario. I pm stanno valutando un suo “ruolo attivo” in questa storia. I contorni, dunque, iniziano a chiarirsi dopo che la Procura ha iscritto Andrea Dini e il dg di Aria Filippo Bongiovanni con l’accusa di turbata libertà della scelta del contraente. Ieri, per sette ore, è stata interrogata come persone informata sui fatti, Carmen Schweigl, il responsabile della struttura gare e numero due di Aria. In realtà le vere novità emergono dalle carte acquisite in Regione. La Dama spa, tra i cui soci per il 10% c’è Roberta Dini moglie di Fontana, viene introdotta in Aria dall’assessore regionale all’Ambiente Raffaele Cattaneo. Cattaneo due giorni fa è stato interrogato dai pm e non risulta indagato. La sua posizione, pur nel suo ruolo di capo della task force per le forniture, è ritenuta marginale e comunque il fatto di aver introdotto, come da lui ammesso ai magistrati, la società del cognato di Fontana in Regione appare, al momento, un elemento accidentale. Ben più grave, come ricostruito dai pm, il fatto che fin da subito e fino a ieri la presunta donazione vantata da Dini non sia mai stata accettata da Aria, il che rende ancora valido il contratto del 16 aprile per 75 mila camici pagati 513 mila euro. Particolare reso ancora più evidente da una mail pre-pasquale, pubblicata dal Fatto, in cui Dini firma una proposta di contratto (e non di donazione) alla centrale acquisiti della Regione. È evidente, secondo la Procura, che molti sapessero quello che si stava consumando, e cioè un enorme conflitto d’interessi mai segnalato da Dama perché Aria ha deciso di derogare al patto di integrità della Regione.
La proposta commerciale di Dini elimina l’ipotesi che quella dovesse essere una donazione smentendo la ricostruzione dello stesso cognato, ovvero che fu solo un fraintendimento di comunicazione in azienda poi sanato dal suo intervento. Fin dall’inzio si è trattato di un’offerta commerciale il cui ok, secondo i pm, è avvenuto con “metodo fraudolento” e in modo illegale visto il conflitto d’interessi. La proposta, come detto, arriva prima di Pasqua, il contratto parte il 16 aprile. Tutto fila liscio fino al 15 maggio, data dell’intervista. Quel giorno ai piani alti del Pirellone le paure si fanno feroci. Cinque giorni dopo Dini invia a Bongiovanni un mail nella quale conferma lo storno di alcune fatture per un totale di 50mila camici. Nessuno però fa notare a Dama che ne mancano 25 mila per circa 130 mila euro. Cifra non da poco in giorni in cui la pandemia in Lombardia stava raggiungendo il picco. Che succede a quel punto? Andrea Dini, da bravo imprenditore, tenta di minimizzare il danno provando a rivendere i 25 mila camici a un prezzo superiore a 5,99 euro.

Promemoria/1 - Marco Travaglio


In Edicola sul Fatto Quotidiano del 10 Luglio: Spingitori di B. ora Prodi vuole al governo il caimano  che comprò senatori per farlo cadere

Romano Prodi, alla festa del quotidiano che in tempi ormai remoti fu la palestra dell’antiberlusconismo, in piena sindrome di Stoccolma, assicura che non avrebbe nulla in contrario a un governo con Silvio Berlusconi e tutta Forza Italia, perché “la vecchiaia porta saggezza”. Non specifica se la porti a lui o a B.. Ma, a parte l’età (che non è sinonimo di amnistia o prescrizione) e la saggezza (che non ci pare caratterizzare né lui né B.), restano alcune faccenduole stampate su libri di storia e sentenze definitive che parrebbero vagamente ostative all’ingresso di B. al governo.
1973. Silvio B. soffia Villa San Martino ad Arcore a un’orfana minorenne, Annamaria Casati Stampa, pagandola una miseria (per giunta in azioni di sue società non quotate: valore zero) grazie ai buoni uffici del protutore della ragazza, l’avvocato Cesare Previti, figlio di uno dei suoi amministratori-prestanomi.
1974-1976. B. ospita nella villa Vittorio Mangano, un mafioso palermitano della famiglia di Porta Nuova con vari precedenti penali, Vittorio Mangano, poi definito da Paolo Borsellino “testa di ponte della mafia al Nord”, travestito da “stalliere”: glielo aveva presentato l’amico siciliano Marcello Dell’Utri, poi condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa, durante un incontro a Milano alla presenza di Stefano Bontate, capo di Cosa Nostra, e di altri boss del calibro di Francesco Di Carlo e Mimmo Teresi e del mafioso Gaetano Cinà. Mangano restò nella villa nonostante vi avesse organizzato un sequestro di persona, un paio di attentati dinamitardi contro un’altra residenza berlusconiana e vi fosse stato arrestato ben due volte.
1975-1983. Nelle società finanziarie che controllano la Fininvest (denominate “Holding Italiana” e numerate dalla 1 alla 37) confluiscono 113 miliardi di lire (pari a 300 milioni di euro) di provenienza misteriosa, in parte in contanti. Negli stessi anni – secondo il finanziare Filippo Alberto Rapisarda, vari pentiti e il boss Giuseppe Graviano – Cosa Nostra entra in società con la Fininvest per le attività edilizie e televisive.
1978. Sivio B., presentato al maestro venerabile Licio Gelli dal giornalista Roberto Gervaso, si iscrive alla loggia P2 (poi sciolta dal governo Spadolini in quanto illegale ed eversiva) con la tessera numero 1816 e il grado di “apprendista muratore”. E inizia a ricevere, per i cantieri di Milano2, crediti oltre ogni normalità da Montepaschi e Bnl, controllate entrambe da dirigenti piduisti; oltre a collaborare con commenti di economia e finanza al Corriere della sera, controllato dalla P2.
1980. Una soffiata lo avverte di un’imminente visita della Guardia di Finanza in casa Fininvest.
Così B. scrive una lettera all’amico segretario del Psi Bettino Craxi: “Caro Bettino, come ti ho accennato verbalmente, Radio Fante ha annunciato che dopo la visita a Torno, Guffanti e Cabassi, la polizia tributaria si interesserà a me… Ti ringrazio per quello che crederai giusto fare…”.
1984. A maggio B. è indagato a Roma con altri cento dirigenti di tv private per antenne abusive e interruzione di pubblico servizio (interferenze con le frequenze dell’aeroporto di Fiumicino) e viene interrogato dal vicecapo dell’Ufficio Istruzione Renato Squillante. Lo accompagna il suo legale, Cesare Previti. Viene subito archiviato, mentre per molti altri imputati l’inchiesta si chiuderà solo nel 1992. Si scoprirà poi che B., Previti e Squillante hanno conti in Svizzera comunicanti. A ottobre i pretori di Torino, Pescara e Roma sequestrano gli impianti che consentono alle tre reti Fininvest di trasmettere illegalmente in “interconnessione”, cioè in contemporanea con l’effetto-diretta in tutta Italia e dispongono che rientrino nella legalità irradiando i programmi in orari sfasati da regione a regione. B. auto-oscura Canale5, Rete4 e Italia1 fingendo che i giudici gliele abbiano spente e lanciando la campagna “Vietato vietare” a cura del confratello piduista Maurizio Costanzo. Craxi vara un decreto per neutralizzare le ordinanze dei pretori e legalizzare l’illegalità dell’amico. Il decreto però non viene convertito in legge perché la Dc lo ritiene incostituzionale. Craxi ne vara subito un secondo, minacciando la crisi di governo in caso di nuova bocciatura.
1988. B. denuncia per diffamazione i pochi giornalisti che hanno osato recensire la sua biografia non autorizzata Inchiesta sul Signor Tv di Giovanni Ruggeri e Mario Guarino (Editori Riuniti). E, sentito come parte lesa dal Tribunale di Verona, racconta un sacco di frottole sulla sua adesione alla P2, datandola al 1981 (quando esplose lo scandalo) e negando di aver mai pagato la quota di iscrizione. Invece si iscrisse nel 1978 e pagò regolarmente a Gelli la quota di 100mila lire. Così, da parte offesa, diventa imputato di falsa testimonianza dinanzi alla Corte d’appello di Venezia. Che sentenzierà: “Il Berlusconi ha dichiarato il falso” e “compiutamente realizzato gli estremi obiettivi del delitto di falsa testimonianza”, ma “il reato va dichiarato estinto per intervenuta amnistia” (appena varata nel ’90). Spergiuro e impunito.
1989-’91. Socio di minoranza della Mondadori controllato dalle famiglie De Benedetti e Formenton (oltre al ramo libri, possiede il quotidiano Repubblica, una catena di testate locali, i settimanali l’Espresso, Panorama ed Epoca), B. convince i Formenton a violare i patti con l’Ingegnere e a cedere a lui le loro quote, diventando l’azionista n.1 e il presidente del gruppo. Un lodo arbitrale dà ragione a De Benedetti, ma B. lo impugna dinanzi alla Corte d’appello di Roma. E lì il giudice Vittorio Metta lo ribalta, regalando la Mondadori a B. Una sentenza definitiva accerterà che Metta è stato corrotto da Previti con 400 milioni di lire in contanti provenienti dai conti esteri della Fininvest (comparto occulto All Iberian). Previti e Metta saranno condannati, mentre B. “privato corruttore” se la caverà con la prescrizione. Tangentista e impunito.
1990. Craxi e Andreotti impongono alla maggioranza di pentapartito la legge Mammì, cioè la tanto attesa riforma antitrust del sistema radiotelevisivo. Peccato che non riformi un bel nulla, anzi fotografi il monopolio illegale di B. Infatti verrà chiamata “legge Polaroid”. Per protesta, si dimettono dal governo Andreotti i cinque ministri della sinistra Dc, fra cui Sergio Mattarella. Il divo Giulio li rimpiazza in una notte. Qualche mese più tardi, Craxi inizia a ricevere sui suoi conti svizzeri una cascata di soldi da quelli della Fininvest (comparto occulto All Iberian): per un totale di 23 miliardi in pochi mesi. Dagli stessi conti All Iberian, fuoriescono in quei mesi centinaia di miliardi di cui la magistratura non riuscirà a individuare i destinatari. Così, oltreché della carta stampata e dell’editoria libraria, B. si consacra padrone assoluto della tv commerciale.
E questo è solo l’antipasto.
(1 – continua)


giovedì 9 luglio 2020

Mafia, perchè Messina Denaro è libero? “Custodisce i segreti di Riina”. - Giuseppe Lo Bianco

Mafia, perchè Messina Denaro è libero? “Custodisce i segreti di Riina”

La caccia al boss di Cosa nostra dura da 27 anni. Come ha potuto sfuggire alla cattura così a lungo? Secondo un magistrato avrebbe goduto delle coperture delle logge segrete e - particolare importante - potrebbe nascondere i documenti che si trovavano nel covo di Totò Riina.
Le ultime tracce “pubbliche” di una “caccia” che dura da 27 anni si fermano alla sera dell’11 gennaio 2017, quando a palazzo San Macuto, in commissione Antimafia, il procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato anticipò alla commissione, in quel momento presieduta da Claudio Fava, “un fatto molto particolare, che ci ha dato dei segnali di lettura, a mio avviso di grande interesse”. E cioè che poco dopo l’emissione di due ordinanze di custodia cautelare, “una a carico di Firenze Rosario + 9″, Firenze Rosario era considerato una specie di figlioccio di Matteo Messina Denaro, e un’altra a carico di “Loretta Carlo + 13” per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, con i conseguenti sequestri, “tra il 4 e il 6 gennaio dei ladri sono penetrati all’interno della casa di Francesco Guttadauro, nipote di Matteo. L’hanno messa a soqquadro, hanno rubato delle televisioni, dei frigoriferi”. Erano le 20.30 circa, e subito dopo il magistrato ha chiesto di passare in seduta segreta, terminata alle 22.30. Sono chiuse in quelle due ore gli sviluppi pubblici (naturalmente solo per i commissari dell’Antimafia) più aggiornati delle indagini sulla cattura dell’ultimo corleonese stragista, Matteo Messina Denaro, un “carnefice sanguinario, che ha ucciso persone innocenti e bambini” e che in Sicilia hanno chiamato Diabolik, con quel misto di ammirazione e simpatia che ha circondato come un’aura il suo mito di imprendibile “primula rossa”, ultimo sopravvissuto “eccellente” di una catena di protezioni e complicità che in Sicilia ha radici antiche negli apparati dello Stato. Complicità cementate nel trapanese sullo sfondo di logge segrete in cui accanto agli uomini in grembiule e cappuccio sedevano gli uomini di Cosa Nostra. E che gli hanno consentito di costruire, con relazioni e consenso, una rete affaristico clientelare senza uguali e precedenti, incistata nel tessuto sociale, ma anche istituzionale: negli ultimi decenni è stato un fantasma evocato ad ogni retata che in Sicilia ha interrotto brillanti carriere politiche e manageriali, spedito in carcere imprenditori di successo con agganci nei palazzi romani, colpito burocrati massoni appesi alla spesa pubblica.
Ha resistito per 27 anni alla macchia, superando il poco invidiabile primato di Totò Riina (26 anni). Ed è riuscito a resistere anche ai processi delle stragi contro i giudici Falcone e Borsellino, dimenticato da magistrati e investigatori, sfuggendo all’etichetta di stragista del ’92; per quelle del ’93, inchiodato dai pentiti che ne hanno descritto il ruolo operativo, è condannato all’ergastolo dai giudici di Firenze. Per 22 anni le tracce giudiziarie di Matteo Messina Denaro si erano fermate alla fine di febbraio 1992, quando con Giuseppe Graviano guidò a Roma il commando di killer (trapanesi e di Brancaccio) che doveva uccidere Giovanni Falcone, richiamato poi in Sicilia da Totò Riina che aveva cambiato idea: doveva essere una strage.
Per 22 anni giudici e investigatori che indagavano sugli episodi del ’92 lo avevano dimenticato, nonostante le accuse di Giovanni Brusca e di Balduccio Di Maggio, e quelle di Vincenzo Sinacori e Ferro, mosse negli anni ’90, che lo indicavano come uno dei leader della strategia terroristico eversiva di attacco allo Stato. Perché questo ritardo di 22 anni nel processare MMD per strage? “Perché – è la risposta del pm Gabriele Paci nella requisitoria del processo di Caltanissetta in cui MMD è l’unico imputato – l’attenzione si focalizza su Mariano Agate che viene indicato erroneamente da Leonardo Messina e Vincenzo Calcara (come il capo della Provincia di Trapani, ndr): un errore marchiano. Un errore cui si rimedia in corso d’opera’’. Catturato nel 1982 dai carabinieri dell’allora capitano Nicolò Gebbia due anni dopo essere stato sorpreso in auto con il boss Nitto Santapaola e altri tre uomini d’onore catanesi a poca distanza dal luogo dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano – iscritto alla loggia segreta Iside 2, punto d’incontro di boss e colletti bianchi e frequentata da vescovi, commissari di polizia, prefetti, ufficiali dell’esercito – e poi condannato per le stragi come componente della cupola regionale, Agate, si scoprirà dopo, nelle formali gerarchie mafiose era “solo” il capo del mandamento di Mazara.
Distrazioni, superficialità ed errori sono una costante nella lotta alla mafia in terra trapanese: tranne pochi, brillanti e motivati, investigatori – da quelli della Polizia Rino Germanà (“che aveva il difetto di chiamare spesso in ufficio il giovane Matteo ed è vivo per miracolo”) e Francesco Misiti (“che doveva fare la stessa fine), ai sottufficiali dei carabinieri Santomauro, Di Pietro, Sciarratta, che hanno deposto nel processo – chi indagava, ha detto Paci, ha preferito voltarsi dall’altra parte, anche dopo le stragi del ‘92: “Quando arrivò Bonanno, nel 1994, alla guida del commissariato di Castelvetrano – ha detto il pm – il fratello e il cognato di Francesco Messina Denaro avevano ancora il porto d’armi, il padre di Matteo era un ‘signor nessuno’ e tutti cercavano Totò Minore, morto nel 1982″. Coperture iniziate negli anni ’60, quando Francesco Messina Denaro , “era campiere dei feudi D’Alì (famiglia di proprietari terrieri, banchieri, imprenditori, uno di loro, senatore, è stato sottosegretario all’Interno, ndr) e come tutti i campieri si conoscevano i soprusi: ‘ma nessuno l’ha scritto’’’. Erano anni di soffiate mirate a protezione del boss: “Il maresciallo Santomauro che nell’86 compie una perquisizione non lo trova, e non lo trova tutte le volte che va a casa a trovarlo”, e di intimidazioni, più o meno velate: il figlio Matteo, che allora aveva 26 anni, “scrive al comandante dei carabinieri di Castelvetrano: ‘mio padre è uscito, va a lavorare non scocciate, non venite a cercarlo perchè ci da fastidio’. La lettera è agli atti”.
Nel trapanese paura, distrazioni e complicità, divisi da una linea sempre più sottile, bendano gli occhi agli apparati, con esiti amaramente grotteschi: “Nessuno – ha detto il pm Paci – aveva il coraggio di dire che Peppe Ferro (boss poi pentito, ndr), che ancora oggi gode di vitalità, si presentava in aula in barella, catatonico, e quando la polizia andava via si rimetteva i pantaloni e andava a sparare”.
Bastano queste distrazioni a spiegare ritardi e latitanza, in un contesto di sostanziale impunità che ha consentito a MMD di muoversi liberamente per il mondo seguendo i suoi affari? Dove nasce, in buona sostanza, il potere che lo protegge e lo rafforza? Nella requisitoria il pm Paci ha fornito due spunti: la massoneria e le carte di Riina. “A Trapani – ha detto – nelle logge massoniche gli iscritti stavano insieme ai mafiosi. Non appartenevano alle tradizionali obbedienze, erano coperte, dunque segrete. A Trapani c’è stato l’unico processo in Italia per associazione segreta, l’unica applicazione della legge Spadolini”. E il pentito Giuffrè “dice che Provenzano gli fa capire che allo svuotamento del covo di Riina partecipa MMD”. E ha aggiunto: “Dire che Matteo Messina Denaro è in possesso di quelle carte recuperate nel covo mai perquisito di via Bernini è attribuirgli un potere non indifferente di ricatto da utilizzare alla bisogna, ma è un problema che non possiamo porci in questa sede”. L’unica certezza, per il pm nisseno, è che “i Messina Denaro sono i custodi dei segreti e dei forzieri di Totò Riina”.
1) continua

Appalti e mazzette nelle forze armate col tariffario al 10 per cento. Coinvolti anche generali. - Maria Elena Vincenzi

Appalti e mazzette nelle forze armate col tariffario al 10 per cento. Coinvolti anche generali

La polizia di Stato, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Antonio Clemente, ha eseguito un'ordinanza nei confronti di 31 persone: 7 agli arresti domiciliari tra imprenditori e ufficiali, 19 divieti di contrattare con la pubblica amministrazione, cinque sospensione di servizio per appartenenti alle forze dell'ordine. Ma l'indagine è molto più ampia e conta 64 indagati.

Bond, affari, ’ndrangheta: i mediatori sono italiani. - Stefano Vergine

Bond, affari, ’ndrangheta: i mediatori sono italiani

Si chiama Ottima Mediazione. È controllata da una società anonima lussemburghese, la 2404 SA. Ed è amministrata da Pietro Greco, 41 anni, promotore finanziario di Lamezia Terme, candidato alla Camera nel 2013 per “Fare per fermare il declino”, il partito di cui è stato leader Oscar Giannino. È questo il profilo pubblico dell’azienda alla radice dell’inchiesta del Financial Times: obbligazioni garantite dalla ’ndrangheta e vendute a investitori internazionali. Con pagatore ultimo il sistema sanitario nazionale.
Per capire qualcosa di più di questo intrigo finanziario bisogna partire proprio dalla Ottima Mediazione, otto dipendenti e un fatturato di 9,6 milioni di euro (nel 2018), sempre in crescita finora. Specialità? “Smobilizzo di crediti commerciali nei confronti della pubblica amministrazione, con la cessione di crediti pro soluto tramite operazioni di cartolarizzazione”, per dirla con le parole dell’azienda. Più semplicemente, una società che compra crediti dai fornitori delle Asl italiane, soprattutto al Sud, e punta a rivenderli sul mercato sotto forma di obbligazioni.
Il business ha già dato parecchie soddisfazioni a Pietro Greco e compagni. “Nel triennio 2016-2018 abbiamo intermediato operazioni per circa un miliardo di euro”, si legge sul sito della società, che ha sedi a Bologna, Napoli, Milano e Lamezia Terme. Il motivo del successo è che le aziende sanitarie pagano a rilento i propri fornitori, e questi sono ben contenti di trovare qualcuno disposto a comprarli in cambio di liquidità immediata. Di più. I crediti ospedalieri negli ultimi anni sono diventati un vero affare, soprattutto per banche e finanziarie capaci di trasformarli in bond e venderli sui mercati. Perché più i tempi di pagamento della pubblica amministrazione si allungano – l’Italia impiega in media il doppio della media dei Paesi Ue – e più crescono i guadagni. Spiega Angelo Drusiani, gestore obbligazionario di Banca Albertini Syz: “È una nicchia di mercato cresciuta molto negli ultimi 5-6 anni. I titoli legati a questi crediti sono considerati sicuri, perché alla fine sul pagamento garantiscono le Asl italiane, cioè in ultima istanza lo Stato. Al contempo però garantiscono rendimenti relativamente alti, visto che i tempi di pagamento della pubblica amministrazione italiana sono lunghi. Dopo il Covid la situazione è un po’ cambiata, ma fino a poco tempo fa – per dare una proporzione – un titolo del genere poteva rendere tra il 4 e il 4,5%, contro un titolo di Stato italiano che garantiva il 3%”. Ci sono buttati dentro un po’ tutti, anche grandi banche e fondi pensione internazionali. E infatti i crediti comprati dalla Ottima Mediazione sono arrivati fino a Banca Generali, l’istituto di private banking del gruppo Generali, oltre che a fondi pensione ed hedge fund internazionali. Secondo il Financial Times, però, alcune di questi crediti erano legati ad aziende sospettate dalla magistratura italiana di essere controllate dalla ’ndrangheta. Il quotidiano londinese non ha per ora pubblicato i nomi delle imprese, né quelli delle aziende sanitarie italiane indebitate con queste ultime. Ha citato solo genericamente un grande centro per rifugiati in Calabria finito nelle mani del crimine organizzato. Di certo i crediti messi sotto la lente dall’inchiesta giornalistica hanno fatto un lungo giro prima di essere venduti sotto forma di bond. Sono saliti fino in Lussemburgo, patria europea delle obbligazioni a tassazione leggerissima. A creare il veicolo necessario per vendere i bond (cioè crediti cartolarizzati) a investitori come Banca Generali è stata infatti la finanziaria Cfe, sede principale in Lussemburgo, filiali a Ginevra, Londra e Principato di Monaco. Presente nei Panama Papers come intermediaria di sette scatole offshore sparpagliate tra Panama e le Isole Vergini Britanniche, la società finanziaria batte in realtà bandiera italiana. È stata fondata nel 2001 nel Granducato da due finanzieri nostrani – Mario Cordoni ed Enrico Brignone – e dalla Banca Lombarda e Piemontese, oggi parte del gruppo Ubi Banca. La lussemburghese è amministrata ancora oggi dal fondatore Mario Cordoni e dal manager Massimiliano Piunti: due uomini di finanza che lavorano da anni tra l’Italia, la Svizzera e Londra. Sono stati loro a creare il veicolo Chiron Spv, quello attraverso il quale i crediti delle Asl italiane sono stati trasformati in titoli finanziari, impacchettati fra loro e sottoscritti da Banca Generali, con la consulenza di Ernst & Young, per poi essere venduti ai clienti finali. In totale sono 47,4 milioni di euro, dovuti da quasi tutta la Sanità del Mezzogiorno: Asp Cosenza, Asp Vibo Valentia, Asp Reggio Calabria, Asp Catanzaro, Asp Crotone, Asl Avellino, Asl Benevento, Asl Caserta, Asl Salerno, Asl Bari, Asl Foggia, Asl Napoli 1 Centro, Asl Napoli 2 Nord, Asl Napoli 3 Sud, Azienda Ospedaliera Mater Domini. Possibile che nessuno si sia accorto di niente? L’operazione finanziaria è iniziata nella primavera del 2017 ed è stata chiusa nell’estate del 2019. Tutto è filato liscio: aziende rientrare in anticipo dei propri crediti, investitori rimborsati e contenti. Solo che dei quasi 50 milioni di euro di crediti della sanità italiana, circa 800 mila euro facevano capo ad aziende sospettate di essere sotto controllo mafioso. I responsabili di Cfe hanno dichiarato al Financial Times di non aver mai acquistato consapevolmente crediti legati ad attività criminali, e di aver fatto la necessaria due diligence prima di comprarli. Anche Ottima Mediazione, interpellata dal Fatto, ha fatto sapere che tutti i controlli necessari sono stati fatti. Possibile davvero che nessuno se ne sia accorto? Secondo un portavoce di Banca Generali la spiegazione è semplice: “Le notizie delle indagini giudiziarie sulle aziende sono emerse nell’autunno del 2019, quando ormai gli investitori erano già stati rimborsati e l’operazione era finita”. Come dire: quando abbiamo comprato quei crediti sottoforma di bond, nessuno poteva immaginare dei legami con la ’ndrangheta.

Ponte di Genova, il cda di Atlantia studia le contromosse. Tomasi (Aspi): «Revoca sarebbe devastante». Vertice al ministero. - Laura Galvani



Sul tavolo del board la pronuncia della Suprema Corte. Ora la compagnia ha un’arma in meno nella trattativa con il governo. Nel pomeriggio previsto un incontro al Mit.

Una tegola, inaspettata. La decisione della Consulta irrompe nella trattativa tra Atlantia e il governo e arriva come un boomerang sul tavolo del consiglio di amministrazione della compagnia convocato per oggi, giovedì 9 luglio. Board che aveva già all’ordine del giorno tra le altre cose un aggiornamento sulla situazione di Autostrade per l’Italia e che a questo punto concentrerà buona parte del dibattito consiliare su quanto stabilito dalla Corte. Il giudice supremo ha sostanzialmente dichiarato che non è illegittimo il decreto Genova nella parte in cui esclude Aspi dalla ricostruzione del Ponte Morandi. Lo ha stabilito sostenendo che la decisione del legislatore «è stata determinata dalla eccezionale gravità della situazione». In sostanza ha basato la propria decisione sul principio di precauzionalità.
«Le conseguenze della revoca della concessione ad Autostrade sarebbero devastanti», dice l’ad di Aspi Roberto Tomasi. «Si disperderebbe - spiega - un enorme patrimonio professionale e umano. La società è totalmente cambiata: abbiamo fortemente potenziato il piano di manutenzione e investimenti e continuato a gestire e ammodernare la rete. Nell’interesse del paese credo sia prioritario oggi definire l’accordo col governo e trasformare subito in cantieri 7 miliardi di euro dei 14,5 già pianificati».
Quali che siano le ragioni, a questo punto la compagnia ha decisamente un’arma in meno da impiegare nel confronto con l’esecutivo. Confronto che, peraltro, oggi registrerà una nuova tappa. Nel pomeriggio una delegazione di Autostrade è attesa al Mit per discutere delle proposte avanzate dalla società per definire in maniera consensuale un nuovo accordo sulla concessione. Proposte che, come sottolineato ieri dall’azienda, «ad oggi, non hanno mai ricevuto alcun riscontro formale».
Un summit importante dunque che tuttavia ora assume una ben diversa connotazione. Se la Consulta avesse condiviso i dubbi di incostituzionalità del Decreto Genova sollevati dal Tar della Liguria indirettamente avrebbe messo nel mirino anche il decreto Milleproroghe che tanti danni ha causato alla compagnia. Ora questa leva non solo non esiste più ma paradossalmente si è rafforzata la posizione dell’esecutivo. Proprio nei giorni in cui, peraltro, come ha dichiarato ieri il premier Giuseppe Conte, il governo intende stringere sulla questione della revoca della concessione.
Ora gli avvocati di Atlantia, la cui presenza è attesa al cda della holding, dovranno aiutare il gruppo a definire la linea. Una linea che allo stato attuale continua a contemplare due opzioni cardine: il proseguimento della trattativa o la battaglia legale, confidando nell’appoggio di Bruxelles. Riguardo alla prima opzione, i nodi da sciogliere sono sempre gli stessi: trovare un equilibrio tra tariffe e investimenti e definire il nuovo assetto azionario di Aspi. E stante il nuovo contesto proprio il potenziale futuro azionariato di Autostrade potrebbe diventare il grimaldello attorno a cui il governo potrebbe far girare l’intesa con la compagnia. Un forte ridimensionamento di Atlantia, che oggi ha l’88%, e di conseguenza dei Benetton, potrebbe essere una carta gradita a Roma. Le prossime ore saranno certamente cruciali per capire se ci sarà ancora spazio per un’intesa o se si aprirà la procedura di revoca e dunque una dura, e per tanti aspetti controproducente, battaglia legale.
Nel mentre, Autostrade, in risposta alle numerose critiche e polemiche sollevate sul tema della concessione del Ponte Morandi, che deve restare in capo ad Aspi almeno fin tanto che non ci sarà la revoca della concessione, l’azienda ha spiegato che «la tragedia del 14 agosto 2018 ha segnato in modo indelebile la storia della società». In risposta proprio a quel drammatico evento, «è stato completato un radicale cambiamento di management e di tutti i processi aziendali» e sono stati «realizzati in due anni investimenti per oltre 1 miliardo, aumentate le spese di manutenzione di oltre il 50% e tutti i controlli sulla rete sono stati effettuati da società esterne»
Autostrade per l’Italia ha poi aggiunto che «nel corso di questi due anni, ha supportato in ogni modo la realizzazione del nuovo viadotto sul Polcevera facendosi carico della totalità delle spese di demolizione e costruzione. Le risorse complessivamente erogate per Genova, sotto forme di indennizzi e sostegno a cittadini e imprese, sono pari a circa 600 milioni di euro». Inoltre, ha concluso la compagnia, «entro il 2023 la società investirà 2 miliardi di euro in spese di manutenzione e cura della rete, di cui 550 milioni di euro nel solo 2020. Ad oggi sono attivi oltre 300 cantieri di manutenzione sulla rete nazionale. Attività possibili grazie al finanziamento di 900 milioni di euro messo a disposizione dalla capo gruppo Atlantia, poiché lo scorso gennaio Aspi, a causa del Dl Milleproroghe, ha subito un downgrade del proprio rating a livello spazzatura che ha bloccato di fatto l'accesso al credito della società».

Salvini e Toti sotto a un ponte. - Gaetano Pedullà

Toti Salvini

Quelli che ieri hanno usato il nuovo ponte di Genova per dimostrare che la revoca della concessione ai Benetton è stata una presa in giro da parte del premier Conte e dei 5 Stelle (ad esempio Salvini e Toti) sono più falsi di una moneta da tre euro. In realtà, l’affidamento temporaneo alla società Autostrade, la stessa che per contratto doveva garantire la manutenzione del viadotto Morandi, crollato due anni fa con 43 vittime, è un atto puramente formale, inevitabile per restituire al capoluogo ligure un collegamento oltremodo necessario senza perdere tempo. Tale provvedimento, che la ministra De Micheli non poteva non firmare, non sposta però di un millimetro la sostanza delle cose: la mangiatoia delle autostrade sta per finire.
Un destino ormai talmente chiaro che ieri in Borsa, dove non si investono chiacchiere ma soldi veri, il titolo della società Autostrade è stato tra i peggiori nonostante quello che veniva fatto passare come un punto decisivo a suo favore. Poi in serata è arrivata la decisione della Corte costituzionale, che ha giudicato legittima l’esclusione proprio di Autostrade dalla costruzione del ponte ormai realizzato da Fincantieri e Salini Impregilo, cioè da chi non ha alcuna continuità con le attività dei Benetton, come avevano promesso Di Maio e l’allora ministro dei Trasporti, Toninelli.
Adesso il Governo si assumerà la responsabilità di revocare la concessione autostradale, ben sapendo che questo innescherà una lunga battaglia legale, con richieste di risarcimenti miliardari da parte di chi dovrebbe invece andare a nascondersi per i miliardi che ha incassato dai pedaggi in oltre trent’anni, e per tenersi la gallina dalle uova d’oro si è inventato di tutto, compresa un’inutile trattativa che ha fatto perdere tempo prezioso e milioni all’Alitalia.
Un muro di cavilli giuridici di fatto sostenuto da chi fino a ieri non ha mai fatto una pressione sui Benetton. E ora dal leader della Lega, Salvini, al governatore ligure Toti, riversano accuse ipocrite contro chi si è sempre battuto per mandare a casa il concessionario, dai 5S al sottoscritto. A loro dedico col cuore una citazione di Albert Einstein: “È difficile sapere cosa sia la verità, ma a volte è molto facile riconoscere una falsità”.