La Procura vuole riannodare il filo dei 5,3 milioni di euro di eredità “scudati” nel 2015 dopo vent’anni alle Bahamas.
L’inchiesta milanese sui camici prima venduti alla Regione dal cognato del governatore Attilio Fontana poi trasformati, su indicazione dello stesso, in un tentativo di donazione mai formalizzata e che vede indagato anche il presidente della Regione, ora vira sui soldi. La caccia è iniziata dopo la scoperta di un conto svizzero aperto presso la Ubs riferibile al governatore e dal quale Fontana ha tentato un bonifico (poi fallito) da 250mila euro in favore del cognato Andrea Dini e della società Dama Spa protagonista della vicenda dei camici. Obiettivo del bonifico, secondo i pm: risarcire il parente della fornitura non pagata. La Procura di Milano ha già intrapreso colloqui informali con le autorità svizzere e sta valutando una rogatoria per capire meglio il giro del denaro. Il quadro non è semplice, per questo è stato acquisito agli atti il fascicolo dell’Agenzia delle entrate al quale è allegata anche la voluntary disclosure con cui nel 2015 Fontana ha fatto emergere 5,3 milioni di euro ereditati dalla madre. Denaro dichiarato e oggi gestito dalla società milanese Unione fiduciaria che opera su un conto svizzero. Il denaro per quanto ricostruito dai pm era gestito fino allo “scudo fiscale” da un doppio trust aperto alle Bahamas. Un sistema societario e di schermatura nato tra il 1997 e il 2005 e riferibile alla madre di Fontana, ex dentista allora ultraottantenne. Fin dal 1997, così, Fontana, secondo la Procura, risulta beneficiario di quel conto poi appoggiato su uno strumento finanziario aperto in un paradiso fiscale.
Insomma la storia dei 75mila camici che Dama doveva fornire ad Aria, la centrale acquisiti della Regione, per 513mila euro mai pagati, sta diventando un giallo finanziario con al centro il governatore Fontana al momento accusato di frode in pubbliche forniture. Reato legato, secondo la Procura, non al denaro svizzero, ma al mancato adempimento della fornitura che, stando a una mail di Andrea Dini inviata il 20 maggio all’ex dg di Aria Filippo Bongiovanni (entrambi indagati per turbata libertà del contraente e di frode come Fontana), si è fermata a 49mila camici facendo mancare all’appello gli altri 26mila che Dini ha poi provato a vendere a una società della provincia di Varese a 9 euro (tre in più rispetto all’offerta fatta ad Aria). A dare il la all’indagine è però sempre il denaro. L’inchiesta parte, infatti, dopo una segnalazione sospetta della Banca d’Italia il 22 maggio. Tre giorni prima, il 19, Fontana chiede al cognato di trasformare la fornitura in donazione e fa richiesta alla Unione fiduciaria di fare il bonifico da 250mila alla Dama con la causale generica sulla fornitura camici ad Aria.
L’8 luglio i magistrati hanno acquisito il materiale detenuto dall’Unione fiduciaria. Da qui ripartiranno per riannodare il filo. Che inizia nel 1997 e prosegue con la creazione di due trust appoggiati alle Bahamas di cui lo stesso presidente risulta beneficiario ed erede dopo la morte del genitore. Del resto l’uso dei trust sembra una abitudine nella famiglia allargata di Fontana. La stessa Diva Spa che detiene il 90% della Dama è a sua volta controllata dalla Credit Suisse Servizi Fiduciari che amministra il Trust Diva e che ha attirato l’attenzione della Procura. Sul fronte fornitura camici si delinea meglio il reato contestato a Fontana e legato, secondo i pm, alla richiesta del presidente di trasformare quella fornitura in donazione per evitare danni di immagine. Sappiamo che la donazione mai è stata formalmente accettata dalla Regione e che soprattutto all’appello mancano 26mila camici. Fontana, ieri, in Consiglio regionale ha confermato di aver chiesto al cognato di passare alla donazione. Inoltre ha spiegato di essere venuto a conoscenza del contratto di Dama il 12 maggio. Circostanza che invece Bongiovanni retrodata al 10 maggio, una domenica, quando la notizia atterra sul tavolo del capo della segreteria del presidente Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini.