Gli imputati sono 12: rischiano di finire a giudizio i vertici dello Stato insieme a quelli di Cosa Nostra. L'accusa è per tutti minaccia a un corpo dello Stato, tranne che per Mancino, che deve rispondere di falsa testimonianza al processo all'ex comandante del Ros e che replica: "Dimostrerò la mia estraneità". Secondo i pm la trattativa sarebbe stata avviata da Mannino, poi dai carabinieri infine da Dell'Utri, tramite per arrivare al capo del governo Berlusconi.
L’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia è al giro di boa. La procura di Palermo ha infatti depositato la richiesta di rinvio a giudizio per le 12 persone iscritte nel registro degli indagati per il patto sotterraneo che portò pezzi delle istituzioni a sedere allo stesso tavolo della mafia nel periodo 1992-94. Lo stesso potrebbe accadere se finissero tutti a processo da coimputati.
Tra questi i mafiosi Salvatore Riina, Nino Cinà, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, gli alti ufficiali del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni e gli esponenti politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino. Per tutti l’accusa è di attentato a corpo politico dello Stato, tranne che per Mancino, accusato di falsa testimonianza dopo la sua audizione al processo Mori-Obinu del 24 febbraio scorso. ”Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato” si legge nel provvedimento dei magistrati palermitani. Secondo la stessa richiesta di rinvio a giudizio tutti coloro che parteciparono alla trattativa agirono “in concorso con l’allora capo della polizia Parisi e il vice direttore del Dap Di Maggio, deceduti”: loro avrebbero ammorbidito la linea dello Stato contro la mafia, revocando centinaia di 41 bis.
Mancino: “Estraneo, lo dimostrerò”. Mancino ha parlato a stretto giro di posta: “Preferisco farmi giudicare da un giudice terzo – ha dichiarato – Dimostrerò la mia estraneità ai fatti addebitatimi ritenuti falsa testimonianza, e la mia fedeltà allo Stato”. ”Dopo la comunicazione della conclusione delle indagini sulla cosiddetta trattativa fra uomini dello Stato ed esponenti della mafia – spiega l’ex titolare del Viminale – ho chiesto inutilmente al pubblico ministero di Palermo di ascoltare i responsabili nazionale dell’ordine e della sicurezza pubblica (capi di gabinetto, direttori della Dia, capi della mia segreteria, prof. Arlacchi, ad esempio), i soli in grado di dichiarare se erano mai stati a conoscenza o se mi avessero parlato di contatti fra gli ufficiali dei carabinieri e Vito Ciancimino e, tramite questi, con esponenti di Cosa Nostra”. A questo punto, continua l’ex ministro, “ho rinunciato al proposito di farmi di nuovo interrogare e di esibire documenti. Preferisco farmi giudicare da un giudice terzo”.
Mannino: “E’ un capriccio di Ingroia”. Non ci sta invece l’ex ministro e ora senatore Calogero Mannino. “Questa richiesta di rinvio a giudizio è un capriccio di Ingroia – afferma intervistato dall’Agi – Capovolge la mia posizione: da minacciato prolungatamente dall’incombenza di un’attentato mafioso, ad accusato. Insomma, da vittima vengo trasformato da Ingroia in ben altro”. “Il vero problema della giustizia a Palermo – insiste – è proprio Ingroia”. “Da 21 anni vado e vengo dal Palazzo di giustizia di Palermo, risultando alla fine innocente – conclude – Ma affronterò anche questa storia e affronterò Ingroia che, invece di cercare la verità, l’affossa con questo processo”.
La ricostruzione dei pm. La richiesta di rinvio a giudizio è stata vistata anche dal procuratore capo Francesco Messineo, che invece non aveva firmato l’avviso di conclusione delle indagini. Secondo la ricostruzione del procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dei sostituti Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, il primo contatto con Cosa Nostra sarebbe stato cercato da Mannino, che dopo l’omicidio di Salvo Lima era impaurito dall’offensiva mafiosa nei confronti dei politici, rei di non aver saputo bloccare le sentenze del maxi processo.
La trattativa sarebbe stata poi avviata da Mori e De Donno che incontrarono più volte don Vito Ciancimino per arrivare a Riina. Il dialogo tra mafia e Stato sarebbe poi proseguito fino al novembre del 1993 quando l’allora guardasigilli Giovanni Conso non rinnovó oltre 300 provvedimenti di 41 bis per detenuti mafiosi. L’apice dei contatti tra Stato e anti Stato sarebbe invece stato raggiunto nel 1994 quando Bagarella e Brusca, luogotenenti di Riina (arrestato un anno prima) manifestarono al nuovo premier Silvio Berlusconi “per il tramite di Vittorio Mangano e Dell’Utri” una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura.
Secondo i magistrati sarebbero stati reticenti anche Conso e l’ex capo del Dap Adalberto Capriotti, accusati di false informazioni al pm. Per loro peró il codice prevede che il reato contestato rimanga “congelato” fino al primo grado di giudizio dell’indagine principale.
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