martedì 6 agosto 2013

Fassina e la sopravvivenza dei furbi. - Tito Boeri



Dal sommerso come ammortizzatore sociale teorizzato dal governo di Silvio Berlusconi, siamo passati al sommerso come regola di sopravvivenza del vice-ministro Stefano Fassina.
Per fortuna che questa volta, al posto di Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, ci sono Fabrizio Saccomanni ed Enrico Giovannini a gestire la politica economica e quella del lavoro. Altrimenti non ci stupiremmo di leggere nei prossimi giorni circolari come quelle del 2009, che chiedevano esplicitamente agli ispettori del lavoro di ridurre i controlli nelle aziende perché «la criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su di un’azione di vigilanza selettiva e qualitativa, diretta a limitare ostacoli al sistema produttivo». In altre parole, lo Stato che decide consapevolmente di abdicare dalla lotta all’evasione per garantire una sopravvivenza nell’ombra a molte piccole imprese che altrimenti sarebbero costrette a chiudere i battenti, gonfiando le file della disoccupazione.

È fin troppo ovvio che l’evasione fiscale garantisca in molti casi la sopravvivenza a imprese che non riescono a competere nella legalità e a lavoratori autonomi che, pagando le tasse, avrebbero redditi netti al di sotto di soglie di povertà, anche assoluta. Ma quel che Fassina non ha detto, ed è un’omissione grave da parte di un rappresentante del ministero delle Finanze, è che questa sopravvivenza è una forma di “mors tua vita mea”, è una scelta di politica economica che opera una selezione avversa nel nostro mondo delle imprese. La sopravvivenza mediante evasione rende, infatti, ancora più insostenibile la pressione fiscale per le imprese che potrebbero, se meno tartassate, creare posti di lavoro e reddito, portandoci fuori dalla recessione.

L’economia sommersa, l’insieme di attività svolte senza pagare tasse e contributi sociali, conta tra un sesto e un quarto del nostro prodotto interno lordo, a seconda della stime. Vi sono delle regioni, come la Calabria, dove secondo l’Agenzia delle Entrate fino al 94 per cento dell’imponibile Irap viene sottratto al fisco. È una piaga nazionale, un fardello che pesa sulla parte più avanzata del nostro tessuto produttivo, localizzata soprattutto nel Nord del paese, costringendola a pagare anche le tasse degli altri (potrebbero essere di un quinto più basse se tutti le pagassero). Allontana la soluzione dei problemi del Mezzogiorno. Perché l’illegalità alimenta altra illegalità ben più grave: è proprio sullo smercio delle produzioni del sommerso economico che spesso vive e vegeta la criminalità organizzata, come ci ha spiegato con rara efficacia Roberto Saviano.

Il sommerso viene storicamente tollerato in Italia. Altrimenti non si spiegherebbe perché sia sopravvissuto alle banche dati sempre più ricche su cui può contare l’attività ispettiva. Non si spiegherebbe neanche il sovradimensionamento del lavoro autonomo in Italia, una condizione da cui è più facile evadere le tasse. Si fanno relativamente pochi controlli sui posti di lavoro nonostante questi siano molto efficaci nell’identificare le aziende che non pagano tasse e contributi. Mediamente un controllo su due porta al riscontro di frodi fiscali o contributive e la base imponibile mediamente recuperata per ogni azienda ispezionata dagli Ispettorati del Lavoro, dall’Inps, dall’Inail e dall’Enpals è attorno ai 55.000 euro, ben di più di quanto costino unitariamente queste ispezioni. Se ne fanno relativamente poche perché sono molto impopolari fra i piccoli imprenditori e perché si teme che la regolarizzazione imponga ad alcune aziende, soprattutto al Sud, di chiudere i battenti, mettendo sulla strada non pochi lavoratori.

È comprensibile che non si voglia forzare alla chiusura imprese in un momento come questo. Ma perché dobbiamo farne pagare lo scotto alle aziende, anche queste piccole per lo più, che sono in regola? Non sarebbe meglio ridurre la pressione fiscale sul lavoro per tutte le imprese e, al tempo stesso, rafforzare i controlli? La verità non detta da Fassina e da chi ieri lo ha applaudito è che chi oggi vuole abolire le tasse sulla casa, anziché quelle sul lavoro, e vuole tollerare maggiormente l’evasione, ha scelto di far pagare di più le tasse a chi le ha sempre pagate. È una scelta di politica economica conseguente, che ha accomunato i governi di centro-destra, che hanno in gran parte gestito la politica economica in Italia negli ultimi 15 anni. Ieri abbiamo avuto da parte di un sottosegretario aspirante segretario del Pd, un sorprendente segnale di continuità con quelle politiche.

Se questo non è l’orientamento del governo nella sua collegialità, bene che dia un segnale ben diverso, con misure che rafforzino i controlli e, al tempo stesso, incoraggino l’emersione. Ad esempio, un incentivo condizionato all’impiego, sotto forma di sussidio all’occupazione (anziché alla disoccupazione) o credito di imposta per chi non è incapiente, avrebbe proprio questa funzione. Ridurrebbe il costo del lavoro e incentiverebbe l’emersione, condizione indispensabile per ricevere il contributo pubblico. I costi di questo intervento sarebbero relativamente limitati e potrebbero essere coperti attingendo al bacino, mal speso, di fondi per le politiche attive del lavoro, tra cui rientrano anche le tante fallite (e ipocrite) misure per l’emersione varate in anni in cui si è concesso deliberatamente maggiore respiro all’evasione.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/fassina-e-la-sopravvivenza-dei-furbi/

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