Per alcuni fondi rendimenti a tre cifre grazie alla volatilità: tra speculazioni e stoccaggi al minimo, perso ogni contatto con i fondamentali di mercato.
Le grandi banche d'affari, gli hedge fund specializzati sulle commodity – guidati da specialisti ormai capaci di muoversi a occhi chiusi sull’ottovolante dei mercati – e le principali major mondiali, che stanno macinando miliardi di profitti anche grazie alle differenze di prezzo sull’approvvigionamento di materie prime. Se l’altissima volatilità del gas, con le quotazioni che lunedì scorso hanno toccato il massimo storico di 345 euro per MWh, rischia di avere impatti devastanti su industria e bollette di mezza Europa, c’è anche chi – ormai da mesi – realizza profitti record e rendimenti a tre cifre in un contesto di assoluta incertezza.
«Per vedere movimenti simili bisogna tornare alla crisi del 1973: durante la pandemia il gas valeva 6-7 euro per MWh, oggi si oscilla di oltre 100 euro in una giornata, domina il panico», sintetizza un trader di lungo corso, che aggiunge: «Si è perso ogni contatto con i fondamentali: a febbraio avevamo ipotizzato che i prezzi potessero salire massimo oltre 80 euro, con un “premio guerra” del 25%».
Tra mercato e speculazione.
Ma qual è il confine tra la capacità di sapere leggere in anticipo il mercato e la speculazione? Nel 2015, quando diversi hedge fund specializzati sulle commodity sono andati in crisi, un certo Ron Ozer, laureato in matematica al Mit con il massimo dei voti e al tempo già trader affermato, disse che si stava creando «un’occasione unica per il mercato del gas». Oggi, con la sua Statar Capital – hedge di Miami specializzato in materie prime – Ozer è considerato un guru visti i rendimenti: da ottobre 2018 +266% contro il 66% dell’indice S&P 500. Come lui, altri gestori di fondi hanno intuito le potenzialità del settore, specie in momenti di alta volatilità. Motivo in più per cercare una spiegazione ai movimenti delle ultime settimane, legati sia a fattori di carattere finanziario sia ai fondamentali del mercato energetico.
Derivati e coperture dietro il rally. All’origine dell’estrema volatilità «ci sono margin call e mercati molto illiquidi e incerti», osserva Ole Hansen, head of commodity strategy di Saxo Bank: i margini di garanzia richiesti per operare hanno raggiunto livelli esorbitanti e spingono a liquidare posizioni, a volte in modo frettoloso, o ad acquistare future, vendendo gas anche in perdita sul mercato over-the-counter, per compensare le oscillazioni dei prezzi. In parole povere, ci sono soggetti commerciali – non certo speculatori – costretti a rincorrere la volatilità per evitare guai peggiori. La Commissione europea finora non ha puntato il dito contro nessuno e anche il regolatore dei mercati energetici (Acer) e l'Esma hanno effettuato indagini senza riscontrare irregolarità.
Non c’è dubbio comunque che oggi il mercato europeo del gas, come quello dell’elettricità e dei permessi per la CO2, è fortemente finanziarizzato. È successo con la nascita e l’enorme sviluppo degli scambi di futures e altri derivati che hanno come sottostante il gas “vero”, quello che bruciamo nelle nostre caldaie, comprato e venduto in forma fisica nei diversi hub. Il più grande e il più liquido in Europa è il TTF olandese, i cui prezzi vengono usati come riferimento nei contratti di fornitura e nelle bollette. Ormai ci sono operatori di tutto il mondo (e di tutti i generi, tra cui hedge fund ma anche grandi utilities o produttori Usa di Gnl) che intervengono sul mercato, di solito negoziando i futures quotati alla Borsa regolamentata Ice-Endex. Se hanno una view di mercato rialzista, perché si aspettano problemi di offerta fisica della commodity, comprano e fanno salire i prezzi o viceversa. Oppure, nel caso di soggetti commerciali, effettuano operazioni di copertura: ad esempio vendendo a termine la produzione di gas.
Le statistiche della borsa evidenziano che al 4 marzo c’erano 218 soggetti finanziari esposti sul gas del TTF: tra loro fondi (in tutto 164), ma anche banche e altre entità. Il numero complessivo è invariato rispetto a inizio febbraio, prima dell'invasione dell'Ucraina, e quasi doppio rispetto a quello dei soggetti commerciali che erano invece 134. Sono però questi ultimi a “controllare” il mercato, con il 75,3% delle posizioni lunghe (all’acquisto) e il 61,9% di quelle corte (alla vendita). Gli “speculatori” (classificati come fondi di investimento) hanno invece in mano il 17,8% delle posizioni lunghe e il 12,1% di quelle corte. Molto più speculativo il mercato della CO2: «Il numero di fondi di investimenti attivi ha raggiunto un picco di 373 a inizio febbraio, con un aumento del 74% nel 2021», fa notare Massimiano Capobianchi, sales manager Italia di Vertis Environmental Finance.
Una cosa è certa: chi a inizio autunno è entrato “lungo” su questi mercati ha cavalcato con profitto la spirale rialzista dei prezzi, ulteriormente accelerata dalla guerra in Ucraina e dalla paura di un blocco delle forniture russe.
I vincitori: hedge fund e major.
Chi ci ha guadagnato? Sicuramente anche i fondi: quanto meno quelli che hanno saputo districarsi in uno dei mercati più volatili di sempre, in cui anche tra i più esperti c’è chi si è fatto male. Statar Capital ad esempio nel 2021 con la sua “Natural Gas Strategy” ha registrato un +56%: solo a ottobre ha guadagnato 400 milioni (ma a settembre ne aveva persi 130). Anche Andurand Capital Management aveva puntato fin dal 2021 sul rialzo delle commodity, nel suo caso il petrolio: quest’hanno ha guadagnato il +109% dopo il +87% dell’anno scorso e il +154% del 2020 (quando invece aveva scommesso sul ribasso delle quotazioni). La texana E360 Power, focalizzata sull’elettricità, vanta una performance del 187% nel 2021 e del 32% a gennaio.
Anche le grandi banche d’affari – circolano i nomi di Goldman Sachs, BofA, Bnp Paribas e Morgan Stanley – si sono mosse sulle commodity. Tra chi ha senz’altro beneficiato dei prezzi record del petrolio e del gas ci sono poi le compagnie petrolifere: le grandi Major globali hanno registrato profitti in aumento tra le due e le sei volte rispetto al 2020. Oltre a produrre idrocarburi alcune hanno sfruttato il vantaggio offerto dai contratti di lungo termine per l’importazione di gas: i cosiddetti take-or-pay, che sono spesso diventati molto vantaggiosi rispetto al valore del gas sul mercato spot europeo, ovvero il TTF, usato come riferimento per i prezzi di vendita al consumatore finale. Secondo alcune stime, a dicembre la differenza tra il prezzo del TTF e quello delle importazioni contrattuali nella Ue era di 25 euro per MWh: forbice che saliva a 80 euro per quei take-or pay che sono rimasti indicizzati al petrolio.
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