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sabato 12 marzo 2022

Hedge fund, grandi banche, big oil: ecco chi specula sui prezzi record del gas. - Sissi Bellomo e Cheo Condina

 

Per alcuni fondi rendimenti a tre cifre grazie alla volatilità: tra speculazioni e stoccaggi al minimo, perso ogni contatto con i fondamentali di mercato.

Le grandi banche d'affari, gli hedge fund specializzati sulle commodity – guidati da specialisti ormai capaci di muoversi a occhi chiusi sull’ottovolante dei mercati – e le principali major mondiali, che stanno macinando miliardi di profitti anche grazie alle differenze di prezzo sull’approvvigionamento di materie prime. Se l’altissima volatilità del gas, con le quotazioni che lunedì scorso hanno toccato il massimo storico di 345 euro per MWh, rischia di avere impatti devastanti su industria e bollette di mezza Europa, c’è anche chi – ormai da mesi – realizza profitti record e rendimenti a tre cifre in un contesto di assoluta incertezza.

«Per vedere movimenti simili bisogna tornare alla crisi del 1973: durante la pandemia il gas valeva 6-7 euro per MWh, oggi si oscilla di oltre 100 euro in una giornata, domina il panico», sintetizza un trader di lungo corso, che aggiunge: «Si è perso ogni contatto con i fondamentali: a febbraio avevamo ipotizzato che i prezzi potessero salire massimo oltre 80 euro, con un “premio guerra” del 25%».

Tra mercato e speculazione.

Ma qual è il confine tra la capacità di sapere leggere in anticipo il mercato e la speculazione? Nel 2015, quando diversi hedge fund specializzati sulle commodity sono andati in crisi, un certo Ron Ozer, laureato in matematica al Mit con il massimo dei voti e al tempo già trader affermato, disse che si stava creando «un’occasione unica per il mercato del gas». Oggi, con la sua Statar Capital – hedge di Miami specializzato in materie prime – Ozer è considerato un guru visti i rendimenti: da ottobre 2018 +266% contro il 66% dell’indice S&P 500. Come lui, altri gestori di fondi hanno intuito le potenzialità del settore, specie in momenti di alta volatilità. Motivo in più per cercare una spiegazione ai movimenti delle ultime settimane, legati sia a fattori di carattere finanziario sia ai fondamentali del mercato energetico.

Derivati e coperture dietro il rally.                                            All’origine dell’estrema volatilità «ci sono margin call e mercati molto illiquidi e incerti», osserva Ole Hansen, head of commodity strategy di Saxo Bank: i margini di garanzia richiesti per operare hanno raggiunto livelli esorbitanti e spingono a liquidare posizioni, a volte in modo frettoloso, o ad acquistare future, vendendo gas anche in perdita sul mercato over-the-counter, per compensare le oscillazioni dei prezzi. In parole povere, ci sono soggetti commerciali – non certo speculatori – costretti a rincorrere la volatilità per evitare guai peggiori. La Commissione europea finora non ha puntato il dito contro nessuno e anche il regolatore dei mercati energetici (Acer) e l'Esma hanno effettuato indagini senza riscontrare irregolarità.

Non c’è dubbio comunque che oggi il mercato europeo del gas, come quello dell’elettricità e dei permessi per la CO2, è fortemente finanziarizzato. È successo con la nascita e l’enorme sviluppo degli scambi di futures e altri derivati che hanno come sottostante il gas “vero”, quello che bruciamo nelle nostre caldaie, comprato e venduto in forma fisica nei diversi hub. Il più grande e il più liquido in Europa è il TTF olandese, i cui prezzi vengono usati come riferimento nei contratti di fornitura e nelle bollette. Ormai ci sono operatori di tutto il mondo (e di tutti i generi, tra cui hedge fund ma anche grandi utilities o produttori Usa di Gnl) che intervengono sul mercato, di solito negoziando i futures quotati alla Borsa regolamentata Ice-Endex. Se hanno una view di mercato rialzista, perché si aspettano problemi di offerta fisica della commodity, comprano e fanno salire i prezzi o viceversa. Oppure, nel caso di soggetti commerciali, effettuano operazioni di copertura: ad esempio vendendo a termine la produzione di gas.

Le statistiche della borsa evidenziano che al 4 marzo c’erano 218 soggetti finanziari esposti sul gas del TTF: tra loro fondi (in tutto 164), ma anche banche e altre entità. Il numero complessivo è invariato rispetto a inizio febbraio, prima dell'invasione dell'Ucraina, e quasi doppio rispetto a quello dei soggetti commerciali che erano invece 134. Sono però questi ultimi a “controllare” il mercato, con il 75,3% delle posizioni lunghe (all’acquisto) e il 61,9% di quelle corte (alla vendita). Gli “speculatori” (classificati come fondi di investimento) hanno invece in mano il 17,8% delle posizioni lunghe e il 12,1% di quelle corte. Molto più speculativo il mercato della CO2: «Il numero di fondi di investimenti attivi ha raggiunto un picco di 373 a inizio febbraio, con un aumento del 74% nel 2021», fa notare Massimiano Capobianchi, sales manager Italia di Vertis Environmental Finance.

Una cosa è certa: chi a inizio autunno è entrato “lungo” su questi mercati ha cavalcato con profitto la spirale rialzista dei prezzi, ulteriormente accelerata dalla guerra in Ucraina e dalla paura di un blocco delle forniture russe.

I vincitori: hedge fund e major. 

Chi ci ha guadagnato? Sicuramente anche i fondi: quanto meno quelli che hanno saputo districarsi in uno dei mercati più volatili di sempre, in cui anche tra i più esperti c’è chi si è fatto male. Statar Capital ad esempio nel 2021 con la sua “Natural Gas Strategy” ha registrato un +56%: solo a ottobre ha guadagnato 400 milioni (ma a settembre ne aveva persi 130). Anche Andurand Capital Management aveva puntato fin dal 2021 sul rialzo delle commodity, nel suo caso il petrolio: quest’hanno ha guadagnato il +109% dopo il +87% dell’anno scorso e il +154% del 2020 (quando invece aveva scommesso sul ribasso delle quotazioni). La texana E360 Power, focalizzata sull’elettricità, vanta una performance del 187% nel 2021 e del 32% a gennaio.

Anche le grandi banche d’affari – circolano i nomi di Goldman Sachs, BofA, Bnp Paribas e Morgan Stanley – si sono mosse sulle commodity. Tra chi ha senz’altro beneficiato dei prezzi record del petrolio e del gas ci sono poi le compagnie petrolifere: le grandi Major globali hanno registrato profitti in aumento tra le due e le sei volte rispetto al 2020. Oltre a produrre idrocarburi alcune hanno sfruttato il vantaggio offerto dai contratti di lungo termine per l’importazione di gas: i cosiddetti take-or-pay, che sono spesso diventati molto vantaggiosi rispetto al valore del gas sul mercato spot europeo, ovvero il TTF, usato come riferimento per i prezzi di vendita al consumatore finale. Secondo alcune stime, a dicembre la differenza tra il prezzo del TTF e quello delle importazioni contrattuali nella Ue era di 25 euro per MWh: forbice che saliva a 80 euro per quei take-or pay che sono rimasti indicizzati al petrolio.

https://24plus.ilsole24ore.com/art/hedge-grandi-banche-big-oil-ecco-chi-specula-prezzi-record-gas-AErPbdJB?s=hpl

lunedì 23 novembre 2020

Ingenuo. - Massimo Erbetti

 

Eh sì…sono un ingenuo, un sempliciotto, un inesperto, uno sprovveduto, un allocco…mi sono fatto fregare…ci sono cascato anche io, un po' come tutti del resto…sono due giorni che non facciamo altro che cercare di andare in soccorso di Morra, quando invece dovevamo parlare di altro.
La difesa di Morra è sacrosanta, è dovuta, è d'obbligo, Morra non ha detto altro che la pura verità, ma noi abbiamo, anzi io ho sbagliato, sono stato inconsapevole mezzo della distrazione di massa…
“Con i farmaci faremo 100 milioni l'anno”. “Giovà…, gli antitumorali che costano 2 mila euro, gli ospedali li comprano a mille, e nell’Inghilterra li vendono a 5 mila. Quindi tu compri a mille e vendi a 5 mila. Allora se noi entriamo con due ospedali, che ti danno 10 farmacie…”
Queste sono alcune frasi tratte dalle intercettazioni emerse nelle indagini calabresi e noi di questo dovevamo parlare…solo di questo…quanta gente non avrà potuto curarsi a causa della sottrazione dei farmaci? Quanta sofferenza? Quanto dolore, quanta disperazione può creare una cosa del genere? Qualcuno sarà morto a causa dei farmaci dirottati altrove? Qualcuno avrà dovuto provvedere in altro modo? E se si come?
Le parole di Morra sono gravi? Sì forse per qualcuno lo sono state, la famiglia della Santelli si sente offesa? Sì, sicuramente. È stato forse incauto? Sì, forse…
Ma qui il problema è un altro: questi si fregavano i farmaci antitumorali…capito? Gli antitumorali!! Mica le aspirine…100 milioni di euro l'anno…sulla pelle della gente…sui malati di cancro!!
"Cento milioni"...e io mi sono fatto fregare, distrarre, sono caduto nella trappola di questi maledetti…io parlo di Morra e questi mostri speculano sulla vita delle persone.
Che siate maledetti, che siate stramaledetti voi e la vostra avidità, voi e la vostra ingordigia, voi e la vostra schifosa fame di soldi. Spero che i calabresi insorgano contro tutto questo, spero abbiano un sussulto d'orgoglio e d'amor proprio, che chiedano giustizia, che pretendano giustizia per loro stessi e per tutti quei poveri cristi che non possono usufruire di una sanità degna di un popolo civile. È arrivato veramente il momento di dire basta…vi prego alzate la testa e ribellatevi a tanto schifo, a tanta ingiustizia…la vita è una…la salute è la prima cosa…e tutelarla è un diritto, non permettete a degli schifosi delinquenti di privarvene. 

https://www.facebook.com/photo?fbid=10218775354080586&set=a.2888902147289

martedì 10 dicembre 2019

Vaticano, come sono investiti i 700 milioni di euro di offerte e donazioni. - Mario Gerevini e Fabrizio Massaro

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Gli affari più o meno loschi della Santa Sede con la carità dei fedeli.

Da circa sei anni il Vaticano ha un capitale enorme congelato in un prestigioso palazzo a Chelsea, nel cuore di Londra. Si tratta di un investimento da 200 milioni di dollari, ed è una delle più grandi, ma anche controverse, operazioni finanziarie mai realizzate dalla Santa Sede. Tornando dal Giappone Papa Francesco ha dichiarato che «È la prima volta che in Vaticano la pentola viene scoperchiata da dentro e non da fuori».


L’Obolo di San Pietro.
I soldi provengono dalla cassa della Segreteria di Stato che gestisce anche l’Obolo di San Pietro, cioè le offerte che ogni 29 giugno dal profondo della comunità cattolica salgono fino al Papa. Anche se sempre meno. Dai 70-80 milioni del 2013 si è scesi a circa 50 milioni. Non esiste una rendicontazione, ma la stima del patrimonio complessivo della Segreteria è intorno ai 700 milioni di euro. È una parte rilevante del tesoro (mobiliare e immobiliare) attribuibile alla Santa Sede e alla Città del Vaticano: 11 miliardi, secondo le stime più recenti, di cui circa 5 in titoli e 6 in immobili «non funzionali» all’attività istituzionale. Il patrimonio della Chiesa nel mondo è invece valutato oltre 2 mila miliardi, scuole, ospedali e università compresi.

Il potere del Sostituto.
A gestire cassa e Obolo, dentro la Segreteria di Stato guidata dal 2013 da Pietro Parolin, è la sezione Affari Generali, affidata dal 2011 al 2018 a Monsignor Giovanni Angelo Becciu (oggi cardinale). Da ottobre dello scorso anno poteri e portafoglio sono passati nelle mani del nuovo responsabile, il venezuelano Edgar Peña Parra. La Segreteria è il dicastero più importante della Santa Sede e più vicino al Papa. Ed è centrale nelle decisioni di investimento, come quella di puntare al palazzo di Londra.

2012: Angola e petrolio.
Tutto comincia nel 2012 dall’Angola, cioè il paese africano in cui Becciu per molti anni è stato nunzio apostolico. Un imprenditore locale suo amico, Antonio Mosquito, gli propone di investire 200 milioni di dollari nella sua compagnia petrolifera Falcon Oil. Una scelta estremamente rischiosa, in uno dei Paesi più corrotti al mondo, e sconcertante per le modalità del progetto, rimaste finora riservate: si trattava di diventare di fatto soci di minoranza (5%) nello sviluppo di una piattaforma petrolifera offshore in consorzio con l’Eni e la compagnia nazionale Sonangol. Il Vaticano avrebbe dovuto coprire il debito di Mosquito verso il consorzio. Dalle carte consultate dal Corriere della Sera, di quei 200 milioni 35 sarebbero andati direttamente a Mosquito per rimborsare un suo precedente prestito a Falcon Oil. Inoltre l’investimento era a lungo termine: per guadagnarci qualcosa sarebbero serviti almeno 8 anni. Sempre che il prezzo del petrolio non fosse nel frattempo precipitato, come poi avvenuto. «In un primo momento sembrava attraente, ma dopo uno studio approfondito la proposta non fu accolta». Parole di Becciu.

Troppo speculativo.
A spiegare alla Segreteria che l’operazione non gira è il finanziere italiano, con base a Londra, Raffaele Mincione, allora semisconosciuto, che entra nella partita grazie al Credit Suisse, nei cui conti svizzeri confluisce l’Obolo. Il custode della cassa vaticana è un dirigente dell’istituto, Enrico Crasso, banchiere di riferimento della Santa Sede. «Gli ho detto – racconta Mincione – volete raddoppiare i soldi? Vi propongo un mio palazzo al centro di Londra». L’immobile è ubicato al numero 60 di Sloane Avenue, già sede di Harrods. E gli uomini di chiesa affidano i 200 milioni al Fondo Athena, gestito da Mincione. Il fondo ha un solo cliente-sottoscrittore: il Vaticano.

L’immobile e le azioni.
A giugno 2014 il Fondo Athena usa la maggior parte di quei soldi del Vaticano per comprare il 45% della società che possiede il palazzo, che è anche gravato da un mutuo di circa 120 milioni con Deutsche Bank. Mincione investe il resto dei soldi in speculazioni di Borsa su Carige, Retelit e Tas. Il piano del finanziere – che è rimasto proprietario del 55% – è di trasformare il palazzo da uffici a residenze, aumentarne la cubatura, creare 44 appartamenti e rivendere tutto per incassare 600-700 milioni di sterline. Gli affitti nel frattempo sono stati tutti scontati in cambio di uno sfratto rapido in vista dell’avvio dei lavori. Solo che i permessi arrivano solo a dicembre 2016, sei mesi dopo la Brexit. E la sterlina è crollata. Insomma, il Vaticano comincia a perdere tanti soldi.

Spunta il broker molisano.
Settembre 2018: il Fondo Athena in 5 anni ha perso oltre 20%. Nel frattempo a Roma monsignor Becciu è stato promosso cardinale. Al suo posto alla Sezione Affari Generali arriva Peña Parra e la strategia cambia. L’ordine è: «Smontare l’investimento dal fondo per prendere tutto il palazzo». Dopo lunghe trattative, e 44 milioni di conguaglio a Mincione, l’accordo si trova. Ma a chi si affidano in Vaticano per una manovra finanziaria di questo calibro? Non a una banca d’affari o a intermediari di primo piano. La scelta cade su Gianluigi Torzi, sconosciuto broker molisano trapiantato a Londra, che ha condiviso già altri affari con Mincione, svelto e capace nel suo lavoro di trader ma con qualche piccola pendenza penale e la scia di un paio di fallimenti societari in Italia.

Da Londra a Lussemburgo e ritorno.
Il 23 novembre 2018 si firma l’accordo quadro. Il palazzo passa da Mincione alla Gutt, una società lussemburghese costituita e amministrata da Torzi. Un minuto dopo la firma del contratto in Segreteria però si rendono conto di aver affidato tutti i poteri gestionali al broker che detiene solo lo 0,1% di Gutt. Inizia dunque la trattativa per smontare l’accordo e convincere Torzi a farsi da parte. A maggio 2019 il 100% del palazzo di Londra finisce in una nuova società, la London 60, questa volta controllata al 100% dalla Segreteria di Stato vaticana.

Quanto ha perso il Vaticano.
Alla fine di tutta la vicenda il Vaticano ha dovuto sborsare a Torzi 10 milioni, 16 milioni a Mincione per la gestione degli investimenti e altri 44 per liquidare il fondo e infine almeno 2 per consulenze. Nelle casse del Papa invece, dopo sette anni, non è entrato un euro di guadagno. Il Pontefice ha parlato di «Corruzione, e si vede!» nella gestione del patrimonio della Segreteria. E su questo sta indagando la magistratura vaticana. Cinque persone sono finite sotto inchiesta: un ex potente della Segreteria come monsignor Mauro Carlino, il direttore dell’Aif (l’antiriciclaggio) Tommaso di Ruzza e tre dipendenti della Segreteria: Vincenzo Mauriello, Fabrizio Tirabassi e Caterina Sansone. Intanto a Londra è in corso un progetto di ristrutturazione del palazzo, affidato all’ingegnere Luciano Capaldo, per creare nuovi uffici. Insomma si vogliono far fruttare tutti quei milioni fermi da troppi anni. Come? L’ha spiegato lo stesso Papa Francesco, giorni fa: «Affittare e poi vendere». Perché i soldi dell’Obolo, ha sottolineato, vanno investiti ma poi anche spesi. Senza imbrogliare.

500milioni affidati ad Azimut.
Il palazzo di Sloane Avenue è il singolo maggiore investimento effettuato con le disponibilità della Segreteria: tecnicamente si è trattato di un prestito di 200 milioni del Credit Suisse con a garanzia asset della stessa Segreteria. Un contratto più tipico da private banking che da fondo sovrano. Ma dove sono gli altri fondi (centinaia di milioni)? Depositati sempre presso il Credit Suisse. A occuparsene è il consulente di riferimento Enrico Crasso che nel 2014, lasciata la banca svizzera, si mette in proprio e si fa carico di investire i 500 milioni della Segreteria, naturalmente con adeguate provvigioni. Lo fa per un paio d’anni attraverso la sua Sogenel Holding di Lugano ma nel 2016 vende il «cliente» Vaticano – circostanza mai emersa prima – ad Az Swiss del gruppo Azimut, colosso della gestione di fondi quotato in Borsa. Crasso però diventa contestualmente dirigente di Az Swiss ed entra in consiglio di amministrazione continuando a gestire, sotto l’ombrello Azimut, il mezzo miliardo del Papa. Quest’anno ha lasciato entrambe le cariche e sulle provvigioni sarebbe in corso una revisione da parte della stessa Segreteria.

Soldi a Malta.
Tuttavia nel 2016, dopo aver venduto ad Azimut, Crasso ha creato un fondo tutto suo a Malta per gestire in proprio circa 50 milioni della Segreteria. È il fondo Centurion e ha investito quei soldi del Vaticano in varie direzioni: 6 milioni nella società di occhiali di Lapo Elkann, Italia Independent; circa 10 milioni nella galassia Giochi Preziosi dell’imprenditore patron del Genoa Calcio, Enrico Preziosi; altri 4,7 milioni per entrare nelle acque minerali (Acqua Pejo e Goccia di Carnia); 1,2 milioni per una quota di minoranza del sito Abbassalebollette; oltre 16 milioni per rilevare un immobile in una sede italiana della multinazionale ABB; 4,3 milioni in bond per finanziare i film «Rocketman», biografia di Elton John, e l’ultimo «Men In Black» infine 4,5 milioni prestati a una piccola società di costruttori romani, la Bdm Costruzioni e Appalti. Affari oculati? Non proprio. Nel 2018 il fondo Centurion ha perso il 4,61%. Ai manager però sono andati quasi 2 milioni di commissioni.

https://laici.forumcommunity.net/?t=61484881&fbclid=IwAR1nPueCY8RXonDkJdkCMSM12OiXQh30n4xCPgfE-vMHypXN_WDMLukSzmI

mercoledì 5 settembre 2018

Il polacco, la suora e lo sceicco Ecco chi compra i nostri debiti. - Mario Gerevini

Da sinistra Krzysztof Borusowski, suor Annamaria Gasser e Michel Lowy
Da sinistra Krzysztof Borusowski, suor Annamaria Gasser e Michel Lowy

Oggi migliaia di piccoli debitori italiani, quelli che hanno preso a rate l’auto o la tv, ricevono comunicazione che devono restituire i soldi non più alla loro banca o finanziaria ma a loro.

A un certo punto entra in campo Krzysztof Borusowski, faccia da bravo ragazzo, occhialoni rettangolari da secchione. Non rincorre un pallone ma debiti. Gioca (pulito) sul portafoglio degli altri: compra crediti problematici e ha un’azienda che li recupera. Lo fa anche il nostro connazionale Celestino Amore da Londra, 46 anni, con una società che è tutto un programma, la IlliquidX, di cui è cofondatore insieme a Galina Alabatchka. Se oggi migliaia di piccoli debitori italiani del credito al consumo, quelli che hanno preso a rate l’auto o la tv, ricevono comunicazione che devono restituire i soldi non più alla loro banca o finanziaria ma a una certa Best Capital, ecco quello è Krzysztof il polacco, uno che è entrato nella classifica ufficiale di Forbes e che ha già scalato quella ufficiosa dei «furbes».

Se oggi una piccola parte del debito originario da 800 milioni della gloriosa acciaieria Lucchini di Piombino passa anche da Fleet Street a Londra, ecco vuol dire che l’ha comprata (e poi rivenduta) la coppia Celestino-Galina, l’ingegnere e la finanziera dal super curriculum. Storie minori di cartolarizzazioni, all’ombra dei grandi numeri, ma fanno capire che in questo mercato (transazioni stimate per 80 miliardi nel 2018) c’è posto per tutti: chi tratta grossi stock e chi fa acquisti mirati contando sulla capacità di recupero. In questo Borusowski pare essere un mago, tant’è che il valore del suo Best Group è esploso alla Borsa di Varsavia.

A proposito di rinascite... C’era una volta una piccola banca privata in mezzo alla Romagna, cresciuta impetuosamente e poi commissariata dalla Banca d’Italia che qui per la prima volta ha applicato il potere di «removal», ovvero spedire a casa i vertici. Sembrava spacciata ma per fortuna era stata tirata su con fondamenta solide. Così in primavera a Forlì si è presentato Michel Lowy, capello lungo, faccia da surfista, solida esperienza finanziaria, ex Deutsche Bank. Il suo «credo» è: «Noi creiamo valore dal rischio, là dove altri non riescono». In scioltezza ha tirato fuori 50 milioni e acquisito il Credito di Romagna che ora fa parte del gruppo finanziario SC Lowy di Hong Kong. Holding e controllata si sono poi presentate in Piazza Salimbeni 3 a Siena e hanno acquisito un portafoglio di crediti ipotecari e chirografi vantati da Mps nei confronti di società degli armatori D’Amato (Peppino D’Amato e figli). Importo rilevante, circa 160 milioni nominali per crediti classificati come «unlikely to pay» ovvero incagliati. Espressione efficace trattandosi di navi. Punto di forza di SC Lowy, che ha un ufficio a Milano, è proprio lo shipping. Mps si è trovata così bene che il 10 agosto ha venduto a Lowy un altro portafoglio di crediti «misti».

Poche settimane prima sempre a Siena, terra ricchissima di npl doc, era passata di mano una partita di sofferenze di orgine immobiliar-romana: indiscrezioni dicono che si trattasse delle posizioni della famiglia Haggiag il cui pezzo pregiato era Villa Balestra, nel cuore dei Parioli, valutata tra i 20 e i 25 milioni. Perfino uno sceicco saudita appartenente alla ricca famiglia Al Rajhi ha innescato una serie di cartolarizzazioni sui 400 milioni presi in prestito, anni fa, per acquistare 300 immobili ex Enel. Un buco colossale. Dopo anni quei crediti passano ancora di mano.

È un mercato alimentato anche da enti pubblici che non pagano (compresi esercito e ministeri) e da onesti fornitori che non possono aspettare anni. Prendiamo Suor Annamaria Gasser, occhialino tondo e trasparente, faccia severa ma rassicurante, direttore generale della «Casa Regina Apostolorum della Pia società delle Figlie di San Paolo», a capo di un ospedale ad Albano Laziale. Ha deciso di sbarazzarsi dei crediti che la Regione Lazio, in imbarazzante ritardo, non paga da anni: «Fatture - si legge nelle carte dell’ospedale - per prestazioni e/o forniture sanitarie rese negli anni 2004, 2007, 2008, 2009 e 2010». Tra ospedale, rapporti con la Regione e crediti è tutta una sofferenza. Ma poi alla fine a chi ha venduto Suor Gasser? A una società veicolo che fa capo a un trust di Guernsey con beneficiaria la onlus Fondazione Avsi.