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venerdì 20 dicembre 2024

Progetto Selene: l’Italia vuole costruire piccole centrali nucleari sulla Luna.

 

I progetti atomici del Governo Meloni non trovano territori favorevoli lungo lo Stivale, potrebbe andare meglio nello spazio?

Il ritorno dell’energia nucleare su suolo italiano, che il Governo Meloni continua a propagandare come chiave di volta per la transizione energetica – nonostante costi e tempi maggiorati rispetto alle fonti rinnovabili, per tacere delle preoccupazioni sul fronte sicurezza – non trova spazio sui territori: da ultimo è stato il Consiglio regionale del Veneto, governato dalla destra, a dire no a nuove centrali. Non va meglio col Deposito nazionale per i rifiuti radioattivi, l’unica infrastruttura davvero utile per il Paese, che il ministro Pichetto immagina però possa entrare in funzione non prima del 2039. Perché allora non ampliare gli orizzonti localizzativi al cosmo?

In un certo senso, è l’idea che davvero sta nascendo in seno al progetto tutto italiano denominato Selene (Sistema energetico lunare con l’energia nucleare), finanziato dall’Agenzia spaziale italiana (Asi) e condotto dall’Enea come capofila, in collaborazione con il dipartimento di Energia del Politecnico di Milano e Thales Alenia Space Italia.

«L’Italia è fortemente impegnata nell’esplorazione della Luna e nella realizzazione di una base lunare permanente. Per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico, le soluzioni attualmente disponibili, basate sull’utilizzo dell’energia solare, non consentono – dichiara Angelo Olivieri, responsabile Missioni scientifiche dell’Asi – di raggiungere gli obiettivi energetici sfidanti per le future attività sulla superficie lunare, a causa dell’alternanza di 14 giorni di luce e 14 di buio. La ricerca di una soluzione tecnologica adeguata rappresenta un campo di ricerca di notevole interesse per l’Asi».

L’obiettivo dell’infrastruttura denominata Moon energy hub (Menh) sarà di fornire una base energetica stabile ai futuri insediamenti lunari attraverso l'impiego di piccoli reattori nucleari a fissione, i Surface nuclear reactors (Snr).

«In prospettiva, queste innovazioni potrebbero consentire di superare i limiti dei pannelli solari che hanno mostrato bassa densità di potenza, scarsa scalabilità, breve vita operativa e vulnerabilità da irraggiamento cosmico – aggiunge il coordinatore del progetto Francesco Lodi, ricercatore Enea – In questo senso, il Menh segna un passo rivoluzionario nell'esplorazione lunare, ponendosi al centro della strategia per espandere le capacità umane sulla Luna».

Oltre alla progettazione dei sistemi di conversione, distribuzione dell'energia e degli Snr, i ricercatori dell’Enea lavoreranno all’analisi degli aspetti di decommissioning e della supply chain e alla creazione di una roadmap per l'industrializzazione dell’infrastruttura.

https://www.greenreport.it/news/nuove-energie/4345-progetto-selene-litalia-vuole-costruire-piccole-centrali-nucleari-sulla-luna

venerdì 12 febbraio 2016

Rischio nucleare nel cuore dell’Europa. - Alessandro Codegoni



I vessel, cioè i contenitori di acciaio che ospitano gli elementi di combustibile nucleare e l’acqua di raffreddamento ad alta pressione, di due reattori in due diverse centrali atomiche in Belgio registrano migliaia di difetti nel metallo che potrebbero indebolire pericolosamente la struttura. Ma le autorità nazionali hanno deciso di non fermare gli impianti.


Immaginate di avere una bicicletta con cui correte in mezzo al traffico per andare al lavoro. Un giorno scoprite nel suo telaio tante piccole crepe: continuereste a usarla, con il rischio che, alla prima buca, si spezzi e vi faccia cadere proprio davanti a un autobus? Probabilmente no.
Sembra invece che scoprire che il vessel di un reattore, il contenitore di acciaio che ospita gli elementi di combustibile nucleare e l’acqua di raffreddamento ad alta pressione, sia indebolito da migliaia di difetti nel metallo, non sia motivo sufficiente per fermare l’impianto.
È quanto accaduto nell’area più densamente abitata del continente che ospiti centrali nucleari, il Belgio, dove, in un raggio di 70 km intorno alle sue due centrali, abitano 9 milioni di persone. Ma andiamo con ordine.
Il Belgio produce il 60% della propria elettricità con il nucleare, grazie a 5,7 GW di potenza, suddivisa fra i 4 reattori della centrale di Doel e i tre di quella di Tihange. I reattori più vecchi di queste centrali avrebbero dovuto essere chiusi già nel 2015, ma, per “mancanza di alternative”, i belgi hanno deciso di prolungarne la vita almeno fino al 2025.
Durante un controllo di routine nel 2012, però si scoprì che il reattore 3 di Doel (entrato in funzione nel 1982, foto a lato) e quello 2 di Tihange (1983, foto in alto), mostravano all’esame ultrasonico dei loro vessel, realizzati dalla Rotterdam Drydocks,8.000 discontinuità nell’acciaio a Doel e 2.100 a Tihange, con difetti simili a una sfogliatura del metallo, il più esteso dei quali misurava 7 centimetri.
Una cosa preoccupante per un elemento che deve contenere acqua a 350 °C di temperatura e 150 atmosfere di pressione, e dalla cui assoluta integrità dipende sia il corretto raffreddamento del nocciolo nucleare, sia l’assenza di fuoriuscita di radiazioni. Nonostante questa scoperta l’ente di controllo nucleare belga, la Fanc, diede il via libera nel 2013 alla ripartenza dei due reattori.
La ragione che l’ha convinta è il tipo di difetti riscontrati. Secondo Electrabel, che possiede le due centrali, si tratta di “hydrogen flakes”: discontinuità indotte nell’acciaio dalla presenza di idrogeno, che si infiltra nel suo reticolo cristallino e lo altera. Se l’idrogeno continua a penetrare nelle sottilissime crepe prodotte, queste si ampliano e si uniscono fra loro, finendo per “infragilire” l’acciaio, portandolo cioè dall’essere elastico al diventare rigido come vetro, mettendolo a rischio di spezzarsi.
Ma per Electrabel gli hydrogen flakes individuati a Doel e Tihange si sono formati nell’acciaio durante la fabbricazione del vessel, alla fine degli anni ‘70, e sono stati scoperti solo nel 2012 grazie ai moderni sistemi di indagine. E se quei difetti non hanno causato guai per 30 anni, se ne resteranno certo tranquilli anche per i prossimi 10.
La rassicurante spiegazione della Electrobel ha convinto la Fanc, ma non due professori di metallurgia, Wim Bogaerts dell’Università di Leuven, e Digby Macdonald dell’Università della California a Berkeley, che hanno fatto notare come durante il funzionamento un reattore sottoponga il metallo a bombardamento di neutroni, che alterano a loro volta l’acciaio, e a una ulteriore produzione di idrogeno, a causa della scissione dell’acqua causata dalla radioattività. Questo vuol dire che gli hydrogen flakes potrebbero essersi moltiplicati ed estesi nel tempo, ponendo prima o poi una minaccia all’integrità dei vessel.
Per verificarlo la Fanc decise allora di far compiere test di irradiamento di campioni di acciaio simili a quelli del vessel, in parte integri e in arte contenenti hydrogen flakes, per vedere se i neutroni potessero far progredire i difetti, rendendo l’acciaio fragile.
La misura del potenziale infragilimento è avvenuta su un frammento di generatore di vapore francese, scartato nei primi anni ‘80 perché vi si erano trovati degli hydrogen flakes, e su un pezzo non utilizzato dello stesso vessel di Tihange, ma privo di difetti.
Le prove di resistenza sui due pezzi prima dell’irraggiamento sono stati soddisfacenti: l’acciaio era ancora duttile. Ma dopo l’esposizione per alcuni mesi ai neutroni di un reattore di ricerca tedesco, il pezzo di generatore di vapore, quello con gli hydrogen flakes, è diventato decisamente più fragile.
Così nel 2014 la Fanc ha fermato di nuovo di due reattori, ha ordinato nuovi esami ad ultrasuoni e chiesto la consulenza a nove dei maggiori esperti mondiali.
Il nuovo e più sensibile esame a ultrasuoni ha prodotto pessime notizie: i difetti scoperti sono diventati 13.000 a Doel e 3.100 a Tihange, mentre il “fiocco” più esteso è risultato essere di 18 centimetri di larghezza.
Vita finita per i due reattori? Macché, la Fanc ha concesso a novembre del 2015 la luce alla Electrabel, perché i nove esperti hanno concluso che è improbabile che i neutroni e il poco idrogeno che si forma nei reattori possano far crescere gli hydrogen flakes e indebolire pericolosamente il vessel.
Ma allora perché questo è avvenuto sul frammento di acciaio con hydrogen flakes irradiato? Secondo la Fanc quel campione non è rappresentativo dell’acciaio dei vessel; per quello fa fede il  frammento privo di difetti, che è uscito inalterato dall’irraggiamento. Viene allora da chiedersi che l’abbiano fatta a fare la prova con il pezzo di generatore di vapore. E il fatto che le crepe siano aumentate in numero e dimensioni fra 2012 e 2014?
Per la Fanc è solo una illusione, creata dalla maggiore sensibilità degli apparecchi di rilevamento del 2014, ma, di nuovo, non si capisce perché allora non abbiano ripetuto la prova anche con l’apparecchiatura del 2012, per avere un risultato confrontabile.
Insomma, riassumendo, per la Fanc:
  1. I difetti sono nati come li vediamo oggi per la presenza di idrogeno durante la costruzione del vessel.
  2. Non sono stati visti durante i controlli in fabbrica perché non c’erano apparecchi abbastanza sensibili per rilevarli.
  3. Non si sono più evoluti da allora, e quindi resteranno innocui anche per i prossimi anni. Doel 2 e Tihange 3, sono quindi da considerarsi sicuri in tutte le condizioni di funzionamento.
Vi sentite rassicurati? Certo non si sono sentiti così né gli olandesi, Doel è vicina a Maastricht, né i tedeschi, che hanno Aquisgrana ad appena 60 km da Tihange.
Questi ultimi hanno mandato il loro ministro dell’ambiente a Bruxelles a chiedere un riesame congiunto della situazione, ma senza alcun risultato: mentre la UE decide sulle dimensioni delle banane, la sicurezza nucleare in Europa resta un affare esclusivamente nazionale.
E gli olandesi? Loro hanno rapidamente abbozzato: a Borssele hanno un reattore in funzione dal 1973, la cui vita è stata prolungata fino al 2023, e non gli conviene fare troppo i pignoli sulla sicurezza nucleare.
A non rassegnarsi sono invece stati i Verdi europei, che hanno chiesto a una esperta indipendente in materiali, Ilse Tweer (sulle cui qualifiche e ricerche svolte, a dire il vero, su internet non si trova nulla, se non che è coinvolta da tempo nell’attivismo antinucleare) di commentare il rapporto della Fanc.
E la Tweer ne ha tratto alcune conclusioni.
  1. La Fanc dà per scontato che si tratti di hydrogen flakes, ma questa è solo una ipotesi, che non si accorda con il fatto che questi difetti compaiano solo in due vessel, e solo in alcune loro parti, fra i vari costruiti dalla fabbrica olandese. Una spiegazione alternativa è che errori nella fase di  “cladding”, rivestimento, di alcune parti, abbiano provocato difetti nel metallo, meno benigni degli hydrogen flakes.
  2. Se questi numerosi e macroscopici difetti sono lì dal 1985, com’è possibile che non siano stati notati allora? Che fosse possibile rilevarli lo dimostra il generatore di vapore coevo, scartato per le stesse imperfezioni. Questo fa temere che i difetti nel vessel, se presenti fin dall’inizio, fossero pochi e piccoli, e siano cresciuti nel tempo in numero e dimensioni.
  3. Le prove di duttilità eseguite sui campioni dicono poco, perché fatte su acciai diversi da quelli dei vessel o privi di difetti, e che non sono stati comunque per 30 anni a contatto con acqua a 350 °C, idrogeno e radiazioni.
  4. L’aumento di numero di difetti rilevati fra 2012 e 2014 si dice essere dovuto alla strumentazione migliore: ma se è ovvio che una maggiore risoluzione individui più difetti, è strano non si sia vista la loro reale grandezza fin dal 2012. Questo non permette di escludere che già in quel breve periodo ci sia stata una loro crescita. 
  5. In ogni caso un pezzo così critico per la sicurezza, con così tante imperfezioni, sarebbe oggi (ma anche nel 1985) immediatamente scartato: non si capisce in base a cosa, invece, questi vessel possano continuare ad essere usati.
Bisogna dire che in realtà neanche la Fanc sembra essere poi così sicura che tutto sia ok a Doel e Tihange: conclude infatti dicendo che una crescita dei difetti è “improbabile”, quindi non esclusa, e che ogni tre anni bisognerà comunque ripetere le analisi ad ultrasuoni dei vessel.
«E speriamo - dice l’ingegnere nucleare Alex Sorokin, della società di consulenza InterEnergy - che questa volta usino metodi di rilevamento perfettamente comparabili con i precedenti, così da avere un quadro chiaro dell’evoluzione del problema. Quanto alla decisione di far ripartire i reattori, siamo all’interno di una “zona grigia” in cui si devono fare valutazioni probabilistiche sulla sicurezza di un impianto, in assenza di dati certi. In questi casi si può essere più o meno rigidi, a seconda di come si interpretano gli indizi a disposizione. Certo, nel caso del nucleare, vista l’entità dei danni in caso di incidente, si dovrebbe sempre propendere per la massima prudenza, ed è sconcertante che si permetta di continuare a usare un elemento del reattore così pieno di difetti».
Ammesso che il vessel sia veramente indebolito, cosa potrebbe farlo cedere?
«La situazione più rischiosa sarebbe un’improvvisa discesa della temperatura nel reattore da 350 a meno di 100 °C. Lo shock termico renderebbe fragile l’acciaio difettoso, che potrebbe fessurarsi sotto la pressione presente nel reattore. Questo si può verificare in caso di incidente con perdita di acqua di raffreddamento: in questi casi si deve procedere all’immissione nel reattore di acqua fredda», ci dice Sorokin.
E che succederebbe se un vessel si dovesse rompere? Sulla piattaforma di petizioni online  Avaaz.org è circolata una richiesta, firmata da 880mila persone, per il blocco dei due reattori, per, dicono, ”evitare una nuova Chernobyl”.
«No, non esageriamo - spiega l’ingegnere - il reattore di Chernobyl era intrinsecamente insicuro, circondato da tonnellate di infiammabile grafite e privo di guscio di contenimento in cemento intorno al reattore. Anche uno scenario tipo Fukushima è improbabile: lì il raffreddamento è venuto a mancare per decine di ore, portando alla fusione del nocciolo. Probabilmente se il vessel di uno di questi reattori belgi cedesse, comincerebbe a perdere vapore radioattivo, che finirebbe però nel contenitore esterno in cemento, dove verrebbe fatto condensare. Probabilmente si eviterebbero fuoriuscite radioattive, ma la situazione sarebbe certamente molto grave, anche per la difficoltà di avvicinarsi al reattore lesionato e metterlo in sicurezza, svuotandolo dal combustibile».
E il fatto che siamo qui a discutere che questo possa, anche se improbabilmente, avvenire nel cuore più popoloso d’Europa, è francamente un’ipotesi che non credevamo di dover mai contemplare.
Alcuni documenti (pdf):