Visualizzazione post con etichetta Australia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Australia. Mostra tutti i post

venerdì 23 agosto 2024

Viaggio nel passato: esplorazione di fossili di crinoidi risalenti a 280 milioni di anni fa nell'Australia Occidentale. - Hasan Jasim

 

I fossili sono finestre sul lontano passato, che ci offrono scorci di creature antiche e degli ecosistemi in cui un tempo prosperavano. Un esempio affascinante è il fossile di crinoide Jimbacrinus, un esemplare ben conservato del periodo Permiano, risalente a 280 milioni di anni fa.

Trovato a Gascoyne Junction, nell'Australia Occidentale, questo fossile di crinoide Jimbacrinus è un ritrovamento raro e notevole. I crinoidi, noti anche come gigli di mare, sono animali marini che assomigliano alle piante, con lunghi steli e braccia piumate che usano per catturare il cibo dall'acqua. Il crinoide Jimbacrinus è una specie ormai estinta, ma i suoi resti fossilizzati ci forniscono preziose informazioni sulla sua morfologia e sul suo comportamento.

Questo particolare fossile è così ben conservato che i suoi delicati tratti sono ancora chiaramente visibili. Lo stelo, che un tempo era attaccato al fondale marino, è lungo circa 30 centimetri e ha un aspetto caratteristico e contorto. In cima allo stelo, le braccia del crinoide sono disposte in uno schema circolare, che gli conferisce l'aspetto di un fiore.

Gli scienziati ritengono che il crinoide Jimbacrinus vivesse in mari poco profondi e si nutrisse di plancton e piccole creature marine. La sua caratteristica forma a spirale, che si pensa lo abbia aiutato a catturare il cibo in modo più efficiente, è una testimonianza dei notevoli adattamenti che hanno permesso a queste creature di prosperare nel loro ambiente.

Oltre al suo valore scientifico, il fossile di crinoide Jimbacrinus è anche una cosa di bellezza. I suoi tratti delicati e i suoi intricati motivi offrono uno scorcio dell'arte naturale creata da milioni di anni di evoluzione. Per gli appassionati di fossili e per i naturalisti, questo esemplare è una vera meraviglia.

In conclusione, il fossile di crinoide Jimbacrinus è una scoperta affascinante e preziosa, che ci offre uno scorcio della ricca storia del nostro pianeta. Le sue caratteristiche ben conservate ci consentono di saperne di più sulla morfologia e sul comportamento di queste antiche creature e di apprezzare l'intricata bellezza del mondo naturale. Mentre continuiamo a esplorare e scoprire i segreti del passato, possiamo solo immaginare quali altre meraviglie aspettano di essere scoperte.

https://hasanjasim.online/journey-to-the-past-exploration-of-280-million-year-old-crinoid-fossils-in-western-australia/

lunedì 20 novembre 2023

Un’enorme struttura sepolta sotto l’Australia incuriosisce la comunità scientifica. - Angelo Petrone













Se le sue dimensioni saranno confermate, il cratere Deniliquin potrebbe superare Vredefort, in Sud Africa, il più grande finora identificato.

I ricercatori dell’Università del New South Wales (Australia) suggeriscono in un articolo pubblicato sulla rivista Tectonophysics che il più grande cratere da impatto di un asteroide al mondo potrebbe essere sepolto in profondità nel sud-est dell’Australia. Secondo Andrew Glikson, quando un asteroide colpisce la superficie terrestre si forma un cratere. La cavità risultante presenta una cupola centrale rialzata che, secondo Glikson, è caratteristica delle strutture ad alto impatto. Tuttavia, non è sempre facile, poiché tendono a erodersi nel tempo. Nel corso della storia, sia il continente australiano che il suo predecessore, noto come “Gondwana“, hanno subito numerosi impatti di asteroidi. Finora in Australia sono stati documentati 38 crateri da impatto, oltre ad altri 43 potenziali candidati di varie dimensioni.

In una recente ricerca, Glikson indica che la più grande struttura di impatto sul pianeta potrebbe essere Deniliquin, situata nel New South Wales meridionale, che misura circa 520 chilometri di diametro. Glikson precisa che il cratere Deniliquin sarebbe più grande di quello di Vredefort (Sudafrica), il più grande che sia stato finora individuato, il cui diametro è di 300 chilometri. L’esistenza della struttura Deniliquin è stata proposta per la prima volta alla fine degli anni ’90 dallo scienziato Tony Yeates, che si è basato su schemi magnetici sotto il bacino del fiume Murray nel New South Wales. Una successiva analisi, completata nel 2020, ha confermato l’esistenza di una grande struttura di impatto sotto questa regione del sud-est dell’Australia. Tuttavia, la maggior parte delle prove per il cratere Deniliquin proviene da dati geofisici di superficie, quindi è necessaria la perforazione profonda per la prova dell’impatto. Glikson ha stimato che l’impatto dell’asteroide sia avvenuto 445 milioni di anni fa, verso la fine del periodo del tardo Ordoviciano. Si ritiene che la collisione del corpo roccioso possa aver innescato un grande evento chiamato “glaciazione Hirnantiana“, che ha causato l’estinzione dell’85% delle specie del pianeta. Intanto, lo scienziato ha confermato che verranno raccolti nuovi campioni per determinare l’età esatta della struttura, che richiederà la perforazione del suo centro magnetico.

https://www.scienzenotizie.it/2023/11/18/unenorme-struttura-sepolta-sotto-laustralia-incuriosisce-la-comunita-scientifica-0072134

martedì 15 agosto 2023

Un’enorme struttura sepolta sotto l’Australia incuriosisce la comunità scientifica. - Angelo Petrone

 Se le sue dimensioni saranno confermate, il cratere Deniliquin potrebbe superare Vredefort, in Sud Africa, il più grande finora identificato.

I ricercatori dell’Università del New South Wales (Australia) suggeriscono in un articolo pubblicato sulla rivista Tectonophysics che il più grande cratere da impatto di un asteroide al mondo potrebbe essere sepolto in profondità nel sud-est dell’Australia. Secondo Andrew Glikson, quando un asteroide colpisce la superficie terrestre si forma un cratere. La cavità risultante presenta una cupola centrale rialzata che, secondo Glikson, è caratteristica delle strutture ad alto impatto. Tuttavia, non è sempre facile, poiché tendono a erodersi nel tempo. Nel corso della storia, sia il continente australiano che il suo predecessore, noto come “Gondwana“, hanno subito numerosi impatti di asteroidi. Finora in Australia sono stati documentati 38 crateri da impatto, oltre ad altri 43 potenziali candidati di varie dimensioni.


In una recente ricerca, Glikson indica che la più grande struttura di impatto sul pianeta potrebbe essere Deniliquin, situata nel New South Wales meridionale, che misura circa 520 chilometri di diametro. Glikson precisa che il cratere Deniliquin sarebbe più grande di quello di Vredefort (Sudafrica), il più grande che sia stato finora individuato, il cui diametro è di 300 chilometri. L’esistenza della struttura Deniliquin è stata proposta per la prima volta alla fine degli anni ’90 dallo scienziato Tony Yeates, che si è basato su schemi magnetici sotto il bacino del fiume Murray nel New South Wales. Una successiva analisi, completata nel 2020, ha confermato l’esistenza di una grande struttura di impatto sotto questa regione del sud-est dell’Australia. Tuttavia, la maggior parte delle prove per il cratere Deniliquin proviene da dati geofisici di superficie, quindi è necessaria la perforazione profonda per la prova dell’impatto. Glikson ha stimato che l’impatto dell’asteroide sia avvenuto 445 milioni di anni fa, verso la fine del periodo del tardo Ordoviciano. Si ritiene che la collisione del corpo roccioso possa aver innescato un grande evento chiamato “glaciazione Hirnantiana“, che ha causato l’estinzione dell’85% delle specie del pianeta. Intanto, lo scienziato ha confermato che verranno raccolti nuovi campioni per determinare l’età esatta della struttura, che richiederà la perforazione del suo centro magnetico.

https://www.scienzenotizie.it/2023/08/13/unenorme-struttura-sepolta-sotto-laustralia-incuriosisce-la-comunita-scientifica-3872134?fbclid=IwAR0BFhWolf8UA1zmFO8siG1R0Wx2p218wri5pjPZYfn30pDwCjnV-vQGBrc

venerdì 5 marzo 2021

Australia: 'l'Ue riveda il bando all'export', la richiesta dopo lo stop all'esportazione dei vaccini Astrazeneca.

 

BRUXELLES - L'Italia è il primo Paese dell'Unione europea a rifiutare l'export delle dosi di vaccini anti Covid -19 di AstraZeneca. È stata notificata ieri la decisione di bloccare l'export di 250 mila dosi della casa farmaceutica in Australia. Canberra minimizza l'impatto della decisione dell'Italia di bloccare l'esportazione. "Si tratta di un lotto da un un Paese", ha detto un portavoce del ministero della salute australiano all'Afp e la spedizione del vaccino AstraZeneca dall'Italia "non è stata presa in considerazione nel nostro piano di distribuzione per le prossime settimane". L'Australia ha già ricevuto 300.000 dosi AstraZeneca e la prima di esse dovrebbe essere somministrata oggi. Il lotto, insieme alle forniture Pfizer, dovrebbe durare fino a quando la produzione interna di AstraZeneca non sarà aumentata.

"In Italia, le persone muoiono al ritmo di 300 al giorno. E quindi posso certamente capire l'alto livello di ansia in Italia e in molti Paesi in tutta Europa. Sono in una situazione di crisi senza freni. Questa non è la situazione in Australia": lo ha detto il primo ministro australiano Scott Morrison, in merito alla decisione dell'Italia di bloccare l'esportazione di 250.000 dosi di vaccino Covid-19. "Questa particolare spedizione non era quella su cui avevamo fatto affidamento per il lancio della campagna vaccinale, e quindi continueremo senza sosta", ha ribadito Morrison come già sottolineato dal suo ministero della Salute.

L'Australia ha chiesto alla Commissione Europea di riesaminare la decisione dell'Italia di bloccare una spedizione del vaccino Covid-19 di AstraZeneca, pur sottolineando che le dosi mancanti non influenzerebbero il programma di inoculazione australiano. "L'Australia ha sollevato la questione con la Commissione europea attraverso più canali, e in particolare abbiamo chiesto alla Commissione europea di rivedere questa decisione", ha detto ai giornalisti a Melbourne il ministro della Salute australiano Greg Hunt, secondo quanto riporta l'agenzia Reuters sul proprio sito web.

La decisione sul blocco dell'export di 250mila dosi di AstraZeneca all'Australia è stata presa e in Ue non c'è intenzione di tornarci sopra. La compagnia farmaceutica può comunque avanzare una nuova richiesta per la fornitura a Canberra, che verrà analizzata sulla base del meccanismo sul controllo e la trasparenza dell'export. Lo si apprende a Bruxelles.

https://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/altrenews/2021/03/05/laustralia-minimizza-perso-solo-un-lotto-da-un-paese-_4ac4c9e7-24f0-4f7c-aaed-6707b392f619.html

mercoledì 2 settembre 2020

L'Australia è entrata in recessione.


Sydney - ANSA/EPA

Prima volta in 30 anni. Pesa la crisi coronavirus.


L'Australia è entrata nella sua prima recessione dal 1991, con una riduzione del 7% della sua economia nel secondo trimestre a causa dell'epidemia di coronavirus. Lo mostrano i dati ufficiali diffusi oggi.
Secondo l'Ufficio di statistiche australiano è la contrazione trimestrale più rapida mai registrata nel Paese, dopo aver vissuto 30 anni di crescita continua fermata nemmeno dalla crisi finanziaria del 2008.
Un Paese entra in recessione quando allinea due trimestri negativi: l'economia australiana si è ridotta dello 0,3% nel primo trimestre.

lunedì 31 luglio 2017

I primi uomini arrivarono in Australia già 65.000 anni fa. - Dario Iori



Alcuni scavi nel Kakadu National Park in Australia hanno portato alla luce un gran numero di manufatti la cui datazione permette di anticipare di almeno 15.000 la prima colonizzazione del paese, mettendo ancora una volta in discussione le nostre conoscenze sulle migrazioni umane.

Molti aspetti legati alle migrazioni di Homo sapiens dall’Africa risultano ancora oscuri e ampiamente da chiarire; fino ad oggi i modelli proposti non riescono a rimanere al passo con i ritrovamenti e le scoperte che quasi quotidianamente mettono in discussione le ipotesi degli scienziati. Se lo scenario si presenta enormemente complesso per quanto riguarda le migrazioni in Europa e nelle Americhe, la matassa sembrava più facile da districare in relazione all’arrivo dell’uomo moderno in Australia: i primi uomini sarebbero giunti in Australia attraversando l’Asia meridionale circa 45-50.000 anni fa, come confermato anche da analisi del DNA mitocondriale (Pikaia ne ha parlato qui) e avrebbero contribuito, tra le altre cose, all’estinzione dei marsupiali giganti della Tasmania e della megafauna dell’Australia (Pikaia ne ha parlato qui).

Un team di ricercatori guidati da Chris Clarkson della School of Social Science dell’Università del Queensland, però, ha rinvenuto, nella grotta di Madjedbebe all’interno del Kakadu National Park, a nord dell’Australia, alcuni reperti la cui datazione suggerisce la presenza dell’uomo già intorno a 65.000 anni fa, ovvero più di 15.000 anni prima di quanto si pensasse in precedenza. A partire dal 1973, il sito archeologico di Madjedbebe ha restituito più di 11.000 manufatti, ma sono stati gli ultimi scavi del 2012 e del 2015 i più fruttuosi, che hanno visto la cooperazione degli aborigeni locali della Terra di Mirrar. L’analisi dei manufatti rinvenuti e le tecniche di datazione utilizzate sono stati descritti su Nature.

Tra i ritrovamenti all’interno del sito, degna di nota vi è la presenza di rudimentali pastelli (ocra e altri colori) probabilmente importanti per il simbolismo e le manifestazioni artistiche (portata alla luce anche la mascella di una tigre della Tasmania, Thylacinus cynocephalus, ricoperta di rosso) e di mortai per la macinazione e la lavorazione di semi. Sono state rinvenute anche le asce più antiche mai ritrovate (risalgono a 20.000 anni prima delle altre trovate in precedenza) e altri strumenti.

Per quanto riguarda la datazione dei manufatti, i ricercatori hanno utilizzato il metodo del Carbonio-14 (tecnica che può arrivare ad analizzare materiale organico di 45-50.000 anni) per i reperti più superficiali, mentre per quelli più antichi, rinvenuti a circa 2,5 metri di profondità, si sono serviti della luminescenza stimolata otticamente (OSL) che si basa sull’ultima volta che del terreno è stato esposto alla luce del sole. Alcuni studenti coinvolti nell’indagine hanno poi esaminato al microscopio ottico la composizione dei vari strati di sedimento rinvenuti nello scavo, e tali analisi, insieme ad altre prove (ad esempio la cottura di campioni di suolo a differenti temperature) hanno permesso una ricostruzione del clima nord- australiano al momento dell’arrivo dei primi colonizzatori, che doveva essere più umido e freddo rispetto ad oggi.

Come già affermato, la datazione dei sedimenti suggerisce che i primi insediamenti nel luogo siano avvenuti circa 65.000 anni fa, anche se alcuni reperti potrebbero risalire addirittura a 80.000 anni fa. Questa retrodatazione, che trova conferma in un’analisi condotta sul materiale genetico ottenuto dalla ciocca di capelli di un aborigeno dell’Australia sud occidentale risalente a circa 100 anni fa (Pikaia ne ha parlato qui) ha numerose implicazioni.

Prima di tutto, il fatto che gli antenati degli aborigeni fossero presenti in Australia già 65.000 anni fa, permette di affermare che essi convissero per quasi 20.000 anni con la megafauna locale (canguri, vombati e tartarughe giganti) e probabilmente non è dunque attribuibile a loro l’estinzione di queste specie animali. In secondo luogo, la presenza di Homo sapiens nel continente australiano 10.000 anni prima rispetto alle nostre conoscenze precedenti, consente di ipotizzare un loro contatto con Homo floresiensis (l’hobbit dell’isola di Flores, in Indonesia, di cui Pikaia ha parlato ad esempio qui) andando ad aggiungere altre possibili interazioni tra le specie del genere Homo (Neanderthal, Denisoviani) in uno scenario già di per sé estremamente complesso.

Riferimento:
hris Clarkson, Zenobia Jacobs, Ben Marwick, Richard Fullagar, Lynley Wallis, Mike Smith, Richard G. Roberts, Elspeth Hayes, Kelsey Lowe, Xavier Carah, S. Anna Florin, Jessica McNeil, Delyth Cox, Lee J. Arnold, Quan Hua, Jillian Huntley, Helen E. A. Brand, Tiina Manne, Andrew Fairbairn, James Shulmeister, Lindsey Lyle, Makiah Salinas, Mara Page, Kate Connell, Gayoung Park, Kasih Norman, Tessa Murphy, Colin Pardoe. Human occupation of northern Australia by 65,000 years agoNature, 2017; 547 (7663): 306 DOI: 10.1038/nature22968

Immagine da Wikimedia Commons

lunedì 6 luglio 2015

Energia: arriva l'energia pulita ricavata dalle onde del mare.


Energia: arriva «Anaconda», il serpente che sfrutta le onde. - Luca Salvioli



Il segreto per catturare più energia dalle onde del mare è un serpente di gomma lungo 200 metri e largo 7 chiamato «Anaconda». Il sistema è stato ideato e realizzato in fase prototipale in Inghilterra. L'innovazione sta nel design (semplicissimo) e il materiale plastico, che rendono molto più economica rispetto a oggi la realizzazione e il mantenimento della struttura. La potenza teorica è di 1Mw, ovvero il consumo di energia elettrica di 2000 case.

Come funziona? «Anaconda» è chiuso su entrambe le estremità e riempito d'acqua. Viene situato tra i 40 e i 100 metri sott'acqua, parallelo all'arrivo delle onde. Il loro arrivo crea un rigonfiamento all'interno del tubo. Questo percorre tutta la sua lunghezza, spinto dall'incedere dell'onda sull'esterno. Alla fine del suo percorso, il rigonfiamento trova una turbina in grado di produrre energia eletttrica. Il vantaggio sta nel materiale: i dispositivi attualmente utilizzati sono fatti soprattutto di metallo. Nel caso dell'Anaconda, invece, fatta di gomma, il capitale iniziale e i costi di manutenzione scendono. Il progetto è stato testato su piccola scala in laboratorio. L'Engineering and physical sciences research council (Epsrc), in collaborazione con gli inventori di «Anaconda» e lo sviluppatore(Checkmate SeaEnergy), finanzia l'università di Southampton, che ora sta programmando una sperimentazione su larga scala. 

L'energia delle onde. L'energia del mare per il momento ha cifre decisamente inferiori rispetto alle fonti rinnovabili più note, come il vento. Ma alcuni Paesi, prevalentemente quelli affacciati sull'oceano, iniziano ad investire. E' il caso del Portogallo, dove da qualche mese, vicino a Porto, galleggiano tre serpenti marini rossi. Pesano 700 tonnellate ciascuno, per 142 metri di lunghezza e 3,5 metri di diametro. Il meccanismo è quindi simile a quello di «Anaconda», ma fatto di metallo: ci sono voluti mesi di lavoro e due anni per assemblarlo. La tecnologia è scozzese, del gruppo Ocean Power Delivery. L'investimento iniziale è stato di 8,2 milioni di euro, finanziato da Enersis, società portoghese controllata dalla spagnola Endesa, che a sua volta fa capo all'italiana Enel. Enersis investirà oltre un miliardo di euro in una serie di impianti, capaci di fornire elettricità a 450mila abitazioni. 

E l'Italia? Il nostro Paese ha mari meno mossi. Eppure nello specchio d'acqua tra Scilla e Cariddi dal 2001 lavora Kobold, la turbina che produce energia sfruttando le correnti marine dello Stretto nata da un'idea dell'armatore Elio Matacena. Kobold ha l'aspetto di una piattaforma galleggiante di circa 10 metri di diametro ed è dotata di una turbina ad asse verticale con tre grandi pale immerse in acqua, che ruotano grazie alla forza generata dalle correnti e che producono energia da trasferire sulla terraferma. La stessa tecnologia italiana verrà installata anche in Indonesia entro fine luglio, nell'isola di Lombok.


http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2008/07/anaconda-energia-onde.shtml?uuid=bdee2cd2-4c29-11dd-9dcf-303698a95a0e&DocRulesView=Libero&refresh_ce=1




In Australia la prima centrale elettrica sott'acqua che sfrutta il moto ondoso. - Antonio Polizzi
L’idea è piuttosto semplice: possiamo ottenere elettricità dalla forza cinetica delle onde marine; in altre parole il moto ondoso del mare è in grado di produrre energia pulita e inesauribile. Nel mondo esistono già dei progetti che realizzano questo principio, pensiamo alle centrali posizionate lungo le coste della Norvegia, della Gran Bretagna e del Brasile solo per citarne alcune. Certamente, ognuna di queste realtà ha una propria maniera di sfruttare le onde, con delle turbine ad asse orizzontale in mare aperto come in Norvegia e in Gran Bretagna, oppure con dei bracci meccanici sui quali è installata una turbina a forma di coppa come nel caso del Brasile.
say-hello-to-wave-energy
Adesso però, dopo dieci anni di lavoro e un costo complessivo di 70 milioni di euro, dall’Australia arriva la notizia di un impianto che sembra ancor più rivoluzionario: la prima centrale elettrica che produce energia dal moto ondoso e che contemporaneamente genera acqua potabile desalinizzando quella del mare. Il tutto in una struttura che è interamente sommersa. L’idea di ancorare tutto sott’acqua nasce ovviamente sia per la tutela del paesaggio, rendendola invisibile dalla riva, sfruttando oltretutto al meglio l’energia delle onde sotto la superficie, e sia per preservare tutte le parti che compongono la centrale da ogni eventuale corrosione, mareggiate o da qualsiasi altro fenomeno marino ritenuto pericoloso.
A finanziare la sua realizzazione ci ha pensato la ARENA – l’Agenzia australiana per le energie rinnovabili, insieme al Governo Federale e ad alcuni investitori privati. Il progetto invece è frutto degli ingegneri della Carnegie Wave Energy, l’azienda australiana con sede a Perth che per prima ha brevettato questo sistema davvero unico nel suo genere, e che lo ha ribattezzato “Sistema CETO”, in riferimento alla divinità marina della mitologia greca, raffigurata spesso come una creatura metà balena e metà serpente.
Le caratteristiche principali che lo rendono un progetto unico al mondo non riguardano solamente il fatto che al momento questa è la più grande centrale “a moto ondoso” di tutto il pianeta (anche se la Carnegie si dice in grado di realizzarne ancora più grandi), ma piuttosto è rivoluzionario il sistema con il quale viene prodotta energia elettrica e insieme acqua potabile.
Carnegie-Receives-First-CETO-Desalination-Grant-Payment-Australia
Si tratta infatti di boe sottomarine in grado di alimentare delle pompe, fissate sui fondali a circa 50 metri di profondità, che consentono di azionare a loro volta delle turbine elettriche poste sulla terraferma, e così mentre da una parte viene generata energia elettrica a emissione zero, dall’altra l’acqua pompata viene impiegata per alimentare una centrale a osmosi inversa, per la desalinizzazione dell’acqua marina insomma.
Superate con successo le prime fasi di collaudo all’inizio dell’anno, la centrale è stata finalmente inaugurata a Febbraio, anche se ancora non sta lavorando al massimo delle sue possibilità. Solo due delle tre boe al momento sono state attivate, nell’attesa di mettere in funzione l’ultima boa con i dispositivi di desalinizzazione dell’acqua, che aumenteranno sensibilmente la sua produzione energetica nei prossimi mesi e che ovviamente forniranno acqua potabile come promesso dalla Carnegie e dalla ARENA.
Senza-nome-1
Nonostante ciò, con solamente due terzi della proprie capacità in azione, l’impianto è già in grado di fornire elettricità all’intera base navale di HMAS Stirling a Garden Island, che con i suoi 3500 uomini e 26 unità navali rappresenta di fatto la più grande base della Marina Militare dislocata sul territorio australiano. I servizi di questa centrale infatti sono stati presi in affitto da subito dal Dipartimento della Difesa australiano e questo, in un certo senso, può dirsi il banco di prova definitivo per la completa riuscita del progetto.
Non appena anche l’ultima boa e l’impianto di desalinizzazione saranno a pieno regime infatti, il governo potrà avere quella prova tangibile del funzionamento di questo progetto su larga scala, e sarà in grado di attivare la realizzazione di altre centrali simili. Se tutto questo andrà secondo le stime della Carnegie perciò, l’Australia potrebbe diventare la prima nazione al mondo ad alimentare persino delle piccole città lungo la costa con la tecnologia del Wave Power, un sistema che fino ad ora purtroppo è stato ingiustamente sottovalutato.


Energia dal mare: moto ondoso, correnti e maree per un futuro sostenibile.

Molte tecnologie e impianti sono ancora a livello sperimentale ma dal mare si possono ricavare quantità enormi di elettricità. I migliori esempi in Europa.

L’idea di produrre energia dal movimento dell’acqua del mare non è recente. Diverse civiltà, in tempi antichi, cercarono di sfruttare il grande potenziale energetico del mare. I risultati erano modesti ma tecnologie come i cosiddetti "mulini a marea" permettevano di raccogliere l’acqua marina, durante il flusso delle maree, in un piccolo bacino che veniva poi chiuso con una paratia. Quando l’acqua poi defluiva, passava attraverso un canale che la conduceva forzatamente verso una ruota che muoveva una macina. Lo stesso principio, insomma, utilizzato per far funzionare i mulini con l’acqua dei torrenti.
In tempi molto più recenti l’obiettivo è stato quello di sfruttare il moto generato dalle maree per produrre energia elettrica pulita. Come è noto, le maree derivano dal moto periodico di salita e discesa di grandi masse di acqua che sono attratte dall’azione gravitazionale della luna e del sole. In condizioni particolarmente favorevoli, presenti però in pochi luoghi del pianeta, l'alta marea sulla costa può superare i 5 metri e anche più. L'energia cinetica delle masse d'acqua soggette alla marea si trasforma per attrito in energia interna all'acqua.
centrale larance

In Francia una barriera per sfruttare la marea

Il primo e storico esempio di impianto per sfruttare l’energia delle maree è quello costruito a La Rance, nei pressi di Saint Malò, sulla costa atlantica francese, già negli anni ’60. La portata dell’impianto raggiunge 18.000 metri cubi di acqua al secondo e la potenza erogabile raggiunge i 240 MW. La produzione di energia è abbastanza notevole, pari al 3% del fabbisogno elettrico della Bretagna. Si tratta però di una centrale a barriera, cioè composta da una diga in pietrame, 6 chiuse di entrata e uscita per vuotare e riempire rapidamente la foce del fiume e 24 turbine a bulbo. Le turbine idrauliche funzionano in entrambe le direzioni, sia con l’acqua in ingresso che con l’acqua in uscita.
La presenza di una barriera che deve essere scavalcata dalle acque, quando si verifica l’alta marea, è però piuttosto impattante per l’ambiente, poiché provoca considerevoli modifiche all’ecosistema e modifiche al fondale marino.  Tuttavia la struttura di La Rance richiama ogni anno, per la sua unicità, decine di miglia di visitatori. Questo tipo di impianti a barriera ha comunque diversi limiti. Oltre al fatto che può essere installato solo in poche località del mondo va anche considerato il costo molto elevato iniziale e la discontinuità di produzione di energia; c’è poi il tema dell’erosione delle coste, provocata dalla modifica dei flussi di marea e quello delle sedimentazioni all’interno del bacino.

SeaGen in Irlanda del Nord

Meno impattante (ma tuttora sono monitoraggio ambientale) è l’unica altra centrale di sfruttamento dell’energia delle correnti di marea esistente in Europa: si trova in Irlanda del Nord, a Strangford Lough. Si chiama SeaGen e la sua costruzione risale al 2008. Dopo una prima fase sperimentale durata alcuni mesi, ora la centrale, con una potenza installata di 1,2 MW, può soddisfare il fabbisogno di energia di circa 1.000 abitazioni. seagenNon si tratta di un impianto a barriera ma di idrogeneratori a pale che vengono messi in movimento dove le correnti di marea sono più forti.  Oltre a questi due impianti europei, nel mondo ci sono altri 5 impianti per ricavare energia dalle maree: in Cina, Canada, Russia, Corea del Sud (2 centrali e una è in costruzione).

Energia dalle correnti marine

Applicazioni ancora più interessanti (e soprattutto meno impattanti per l’ambiente)  per ricavare energia dal mare sono invece quelle che sfruttano le correnti sottomarine e di marea. Sono, di fatto, simili all’impianto SeaGen dell’Irlanda del Nord ma non necessariamente devono essere installati solo in luoghi in cui il livello di marea è elevato. L'Unione Europea ha infatti di recente concluso uno studio che identifica circa 100 siti suscettibili di essere utilizzati per la produzione di energia elettrica dalle correnti marine e si calcola nel continente la disponibilità di questo tipo di energia sia pari a circa 75 GigaWatts. In Italia lo stretto di Messina è considerato uno dei siti più promettenti: le correnti marine presenti tra Calabria e Sicilia  hanno una potenzialità energetica di circa 15.000 MegaWatt.

Tanti prototipi e una fiorente sperimentazione

Esistono diverse tipologie di impianti e si tratta per in gran parte di prototipi e strutture sperimentali ma alcune forniscono comunque energia alla rete elettrica.  Le correnti marine, come le maree, sono perfettamente predicibili e quindi è possibile una stima precisa dell’energia che si può produrre ogni anno. La tecnologia sviluppata per le correnti marine, inoltre, può anche essere impiegata per le correnti fluviali o, più in generale, in tutte le situazioni dove c’è acqua in moto. La tecnologia impiegata è quasi sempre una turbina che può essere (come per le tecnologie eoliche) ad asse orizzontale o ad asse verticale. Le turbine ad asse orizzontale sono più adatte alle correnti marine costanti, come quelle presenti nel Mediterraneo, le turbine ad asse verticale sono più adatte alle correnti di marea per il fatto che queste cambiano direzione di circa 180° più volte nell'arco della giornata.
Impianti con turbine ad asse orizzontale sono installate nella centrale di Hammerfest in Norvegia e a Lynmouth in Inghilterra (in questo caso in mare aperto).
koboldUn impianto innovativo a turbina esiste anche in Italia. Si chiama Kobold - dal nome di un folletto benevolo della mitologia nordeuropea – ed è stato allacciato alla rete elettrica nazionale dell'Enel nel marzo 2006. Si trova al largo di Ganzirri, a nord di Messina. La potenza generata è esigua, soli 40 Kwatt (13 abitazioni a pieno carico) ma bisogna tener conto che si tratta di un prototipo che presto dovrebbe raggiungere i 150 Kwatt (le correnti nella zona hanno una velocità di 2 metri al secondo). Ha l'aspetto di una piattaforma galleggiante di circa 10 metri di diametro, dotata di una turbina ad asse verticale con tre grandi pale immerse in acqua, è ancorata ad una boa che a sua volta è ancorata al fondale marino (che in quel punto si trova a 20 metri). L’ha ideata Elio Matacena, con l’intuizione di sfruttare al contrario un moderno propulsore navale montato sui traghetti Caronte. Kobold è stato poi sviluppato e realizzato dall’azienda Ponte di Archimede che è pronta a venderla in molti esemplari in Indonesia, dove il governo la ritiene una soluzione praticabile per dare energia alle sue tante piccole isole.
Importanti sperimentazioni su turbine funzionanti con la corrente marina sono in corso anche da parte dell’Università gallese di Swansea. Insieme a diversi partner stanno progettando le “Swanturbines”. Una particolarità di questo impianto è l'uso di "gravity base", un pesante blocco di cemento che tiene la turbina in piedi anziché ancorata con una trivellazione al fondo marino.
limpetEnergia dal mare può essere ricavata anche dal moto ondoso, sia al largo che sulla costa. Un impianto notevole è LIMPET (Land Installed Marine Powered Energy Transformer), realizzato sull’isola di Islay nella Scozia occidentale dall’azienda Wavegen.  È stato installato nel 2000 sulla linea costiera e l’energia che produce (500 KW) grazie al moto delle onde viene ceduta alla rete elettrica nazionale. SI tratta quindi di una sorta di protezione litoranea in cemento che usa il principio della colona d’acqua per produrre energia.

Sempre in Scozia è in corso di realizzazione la più grande centrale al mondo per la generazione di elettricità dalle onde marine, con una capacità prevista di 200 MW. È stata battezzata Costa Head Wave Project e sarà installato al largo della costa di Orkney, sull'isola di Mainland, da Sse Renewables, la principale azienda scozzese del settore, e Alstom, multinazionale francese che opera nel campo delle costruzioni meccaniche.  La centrale, spiegano i progettisti, sarà equipaggiata con una serie di convertitori di energia del moto ondoso basata su un sistema di 12 celle di assorbitori a membrana flessibile che convertono l’energia delle onde mobile in energia pneumatica.
L’impianto offshore scozzese ha un precedente importante in Portogallo. Nelle acque al largo di Agucadoura nel 2007 è stato installato Pelamis, il primo impianto commerciale per la produzione di energia elettrica con un sistema basato su una struttura semisommersa che, grazie al movimento delle onde agisce su dei pistoni idraulici accoppiati a dei generatori in grado di trasformare l'energia meccanica in energia elettrica. La struttura galleggia sull’oceano ed utilizza l’ampiezza dell’onda per funzionare. Qui un video che mostra l’impianto.
seasnakeUna nuova versione di Pelamis (ribattezzata SeaSnake), elaborata in Scozia, è lunga 180 metri circa e pesa 130 tonnellate, è in grado di produrre 750 kW ed è considerato molto più efficiente rispetto alla precedente versione portoghese.
Se Pelamis e Cost Head Wave Project sono impianti che galleggiano sull’acqua è ampia anche la sperimentazione di sistemi con impianti sommersi, in grado di sfruttare il moto ondoso e delle correnti sottomarine. Uno di questi sistemi, che si basa sul principio idrostatico di Archimede, si chiama AWS(Archimedes Wave Swing), installato dalla AWS Ocean Energy al largo delle coste portoghesi. Consiste in una struttura ancorata al fondo marino nella quale una camera d'aria è compressa al momento del passaggio dell'onda sopra il sistema e risale quando l'onda è passata, nel sistema commerciale si dovrebbe avere una potenza di 2 MW, con una struttura (completamente sommersa) alta 30 metri e 10 metri di diametro.

sabato 4 aprile 2015

Australia, per l’orchidea orientale che vive sottoterra al via il test sul DNA. - Gabriele Vallarino


Il mondo delle orchidee, lo sanno bene i botanici, è un mondo a sè. L’orchidea evoca, agli studiosi e appassionati, bellezza, specializzazioni, coevouzione coi più disparati insetti e animali. Ma l’orchidea in questione è un esemplare raro, forse unico. Vive nel continente grande come la luna, l’Australia, che, tuttavia, è come un’isola dispersa nel mondo: qui l’evoluzione ha lavorato con un ritmo tutto diverso regalando agli uomini non pochi gioielli.
In un angolo sud-orientale vive questa rara orchidea, senza foglie e radici, e con una preferenza per il sottosuolo.
Davvero criptica e insolita, per questo è stato deciso di sottoporla a test genetici accurati in Olanda, i quali ci diranno una volta per tutte se si tratta di una nuova specie da aggiungere all’album della biodiversità. L’orchidea sotterranea orientale (Rhizanthella slateri), così l’ha battezzata il mondo, se ne infischia del sole e perciò della fotosintesi. Sono i miceti, in simbiosi con essa, a garantirle il nutrimento necessario.
È una specie saprofita che spazia dal sud est del Queensland alla costa sud del New South Wales. Nel NSW attualmente sono note 10 localizzazioni, nelle quali si contano soltanto pochi individui. Tra le aree d’interesse spiccano: Watagan Mountains, Blue Mountains, Wisemans Ferry area, Agnes Banks e Nowra.
Rhizanthella slateri è difficile da rintracciare, per questo chissà quante altre localizzazioni devono essere scoperte. Le piante crescono nelle foreste di eucalipto, ma i botanici sono incerti anche sul tipo di habitat specifico che predilige quest’orchidea sotterranea. Se non fosse per i fiori che escono oltre il suolo, l’intera pianta non si scoverebbe per l’intero anno. I fiori devono uscire allo scoperto per permettere l’impollinazione che avviene grazie agli insetti.
È il professore Greg Steenbeeke, funzionario per le specie minacciate del Dipartimento dell’Ambiente, a studiare questa incredibile specie dai fiori violacei.
Il botanico attende fiducioso i risultati genetici per poter “leggere” nel DNA più informazioni possibili.
La sequenza genetica di questa orchidea orientale verrà inclusa in una banca dati globale chiamata Genbank, dove sarà messa a confronto con altre orchidee sotterranee. Tutto questo permetterà di evidenziare le particolari variazioni tra le singole specie, servirà per capire se si tratta di una specie nuova e aiuterà a individuare quali tracce genetiche siano da collegare al comportamento sotto il suolo.
Come si sono evolute nel mondo le orchidee sotterranee? Quali differenze strategiche ci sono tra le specie non fotosintetiche? Sono tutte domande che assillano i botanici e più si arricchisce la piattaforma Genbank più si potrà ottenere informazioni per provare a rispondere.
Per adesso sappiamo che l’orchidea sotterranea orientale fiorisce nella primavera australe da settembre a novembre, per poi nascondersi sotto il suolo assieme ai suoi misteri. Un piccolo miracolo di luce viola regalato all’umanità per qualche istante, d’altronde le cose belle durano sempre troppo poco.