Dei tre scenari che avevamo delineato la scorsa settimana, stiamo purtroppo avanzando a passo di corsa verso quello peggiore (30.000 casi al giorno entro fine agosto): il tempo di raddoppio delle nuove infezioni, con una brusca accelerazione, è crollato da 11 a 6-7 giorni. Contro la velocissima variante Delta ci affidiamo ai soli vaccini e alla loro capacità di abbattere ricoveri e decessi: ma “quanto” sia davvero reale questa capacità lo ricaviamo da una lettura errata, anche se molto rassicurante per la popolazione, dei dati inglesi (come vedremo più avanti).
Restiamo ancora ottimisti su un futuro con un impatto sanitario molto inferiore a quello delle prime ondate, quando non avevamo a disposizione il vaccino, ma al tempo stesso stupiti di fronte alla pervicace ripetizione degli stessi errori commessi nel passato nell’affrontare l’epidemia: diminuzione dei test quando andavano aumentati; attesa di un’elevata circolazione virale prima di provare a frenare il contagio; utilizzo di dati vecchi e inaffidabili per decidere gli interventi di contrasto all’epidemia; regole troppo complesse, legate alla sensibilità personale del singolo individuo e, soprattutto, completamente slegate dalla realtà quotidiana.
Approccio sbagliato.
Difficile stupirsi di una simile situazione in un Paese dove l’approccio più comune risulta essere quello del «con questi numeri non servono interventi, se la situazione dovesse peggiorare le scelte potrebbero essere diverse». Senza capire che, una volta peggiorata, la situazione non è più recuperabile se non con interventi ben più pesanti di quelli necessari oggi.
Tutti i Paesi che hanno controllato il virus entro limiti accettabili, pur con crescenti difficoltà dopo l’arrivo della variante Delta (per esempio l’Australia) hanno agito in modo tempestivo prima che il numero dei casi raggiungesse da loro valori molto più bassi (poche decine) rispetto a quelli che noi consideriamo gestibili (qualche migliaio).
In questa fase estremamente delicata sembra in molti prevalere il desiderio di imitare la ingiustificabile (per la scienza) scelta inglese: rimozione di tutte le restrizioni, con la raccomandazione del premier Johnson di essere “cauti”. Se non fosse vero, e non fossero in gioco vite umane, verrebbe da pensare a una sceneggiatura comica.
Prima regola: per affrontarlo con successo, conoscere il nemico.
Può sembrare incredibile, ma dopo un anno e mezzo di epidemia a livello mondiale la scienza trova ancora difficoltà a far capire che la situazione evolve in continuazione e che, di conseguenza, deve evolvere anche il modo di affrontarla. Un esempio pratico? Parlare oggi di Sars-CoV-2 e di Covid-19 significa affrontare due aspetti (virus e malattia) che sono lontani parenti di quelli vissuti nel 2020.
La variante Delta ha completamente stravolto i parametri precedenti, e solo l’avvento dei vaccini (nei Paesi dove sono disponibili in quantità importante) ha permesso di evitare quella che, solo 12 mesi fa, sarebbe stata una catastrofe imparabile. Vediamo perché.
Il virus in circolazione all’inizio della prima ondata (variante DG614) esprimeva un valore di R0 di circa 2,0: escludiamo i picchi anomali di zone geograficamente limitate dove si è arrivati intorno a quota 4,0 (per esempio alcune aree della Lombardia) e per semplicità usiamo il dato medio globale. In termini pratici quel valore di R0 si traduceva, a partire da un singolo contagiato e dopo 5 passaggi, in 63 infezioni.
La variante Alfa, allora nota come inglese, a fine 2020 segnava un primo cambio di passo con un R0 di 3,0: ovvero, sempre a partire da un contagiato e dopo 5 passaggi, 364 infezioni. Un incremento importante, che infatti ha generato un impatto sulla popolazione maggiore rispetto a quello della prima ondata.
Ora discutiamo tranquillamente di variante Delta come se fosse il nostro “caro e vecchio” Sars-CoV-2, dimenticando che nella migliore delle ipotesi esprime un R0 di 8,0: lasciato libero di correre, il virus attuale, a partire da un singolo contagiato e dopo 5 passaggi arriva a quota 42.129 infezioni. Ne parliamo come se fosse un bradipo mentre è diventato un ghepardo.
I rischi della variante Delta.
La variante Delta non solo è più veloce, ma anche clinicamente più pericolosa: come riportava il Bollettino epidemiologico dell'Oms, già in data 8 giugno, a confronto con la variante Alfa si registra un incremento importante del rischio di ricovero in terapia intensiva (hazard ratio: 1.67; IC 95% 1.25-2.23) e ancora maggiore del rischio di ricovero in area medica (hazard ratio: 2.61; IC 95% 1.56-4.36). Tradotto in termini più comprensibili: ogni 100 persone ricoverate in area critica a causa della variante Alfa, la variante Delta ne genera 167; ogni 100 persone ricoverate in area medica a causa della variante Alfa, quella Delta ne genera 261.
Non ci rendiamo conto di questa differenza, almeno finora, e confidiamo che sia così anche in futuro solo perché i vaccini hanno avuto 2 effetti concomitanti:
1) La riduzione progressiva e importante dei soggetti suscettibili all’infezione, in particolare nelle fasce di età più avanzata che sono anche quelle più a rischio.
2) La riduzione degli effetti clinici della malattia nelle persone che vengono infettate nonostante il completamento del ciclo vaccinale.
Anche in questo caso semplifichiamo: i vaccini hanno addomesticato il “ghepardo” variante Delta, riconducendone gli effetti e conseguenze cliniche a livelli lontanissimi rispetto a quelli sperimentati in passato.
L’errata (ma rassicurante) lettura dei dati Uk.
Qui veniamo a un altro capitolo importante: che, come il precedente, lascia stupiti per l'incapacità dopo oltre un anno e mezzo di “digerire” le corrette modalità di interpretazione dei numeri della pandemia.
Sappiamo con certezza che le curve dei singoli parametri che ci permettono il monitoraggio del contagio si collocano a distanza tra loro sulla linea del tempo:
1) Le infezioni individuate oggi sono state contratte circa una settimana fa (range stimato 5-7 giorni per passare dall'infezione alla rilevazione della stessa con test tampone);
2) I ricoverati comunicati oggi hanno ricevuto la diagnosi con test tampone circa una settimana fa (di nuovo abbiamo un range di 5-7 giorni per passare dalla fase di comparsa dei sintomi all'eventuale necessità di ricovero ospedaliero) ma sono stati infettati quasi due settimane prima;
3) I deceduti di oggi sono la conseguenza dei contagi avvenuti all'incirca un mese fa.
Confrontare i ricoveri e decessi quotidiani con i casi dello stesso giorno, come viene regolarmente fatto con i dati Uk, oltre che un errore è un falso scientifico. Un vano tentativo di costringere i numeri a raccontare una storia diversa da quella reale.
Se eseguiamo il calcolo della letalità in Uk seguendo gli errati criteri appena esposti (invece di quelli elencati per punti poco prima) arriviamo a un valore di 0,1%: senza dubbio rassicurante, perché sovrapponibile al tasso di letalità dell'influenza stagionale. Che causa ogni anno 8-12.000 morti in Italia (dati Iss) e 290-690.000 nel mondo (dati Oms).
Un prezzo elevato, in termini di vite umane, con il quale abbiamo tuttavia imparato a convivere ritenendolo accettabile: in realtà basterebbe vaccinare più persone per abbattere questi numeri, ma l’influenza stagionale non è oggi l’argomento dell'analisi.
Se eseguiamo correttamente il calcolo del tasso di letalità in Uk (usiamo i dati ufficiali consolidati disponibili mentre scriviamo, per gli aggiornamenti successivi consigliamo di cliccare qui) arriviamo a un risultato diverso. Non sui livelli delle ondate precedente, ma molto maggiore dallo 0,1% più volte (erroneamente o volontariamente?) sbandierato anche dal premier Boris Johnson.
I decessi in Uk nella settimana mobile1-7 luglio (ultimo dato ufficiale consolidato) hanno registrato una media giornaliera di 32,4. Le infezioni nel periodo 1-7 giugno (a cui dobbiamo far risalire i decessi) una media giornaliera di 6.714. Il tasso di letalità reale è quindi 0,48%, quasi 5 volte superiore a quello rassicurante ma non veritiero. Con un tasso di letalità di questa portata l'influenza stagionale causerebbe, in Italia, da 38.400 a 57.600 decessi (e non 8-12.000).
Questo, al momento, è il tasso di letalità che dobbiamo correttamente applicare alla Covid-19, confidando che il procedere della campagna vaccinale possa ulteriormente abbattere questo valore. Cosa sulla quale, in prospettiva futura e in assenza di nuove varianti con caratteristiche di maggiore pericolosità, siamo ottimisti. Ma per ora dobbiamo “i fare i conti” considerando, senza inutili e futili sotterfugi, i tre momenti “passato, presente e futuro”.
La verità è che sapremo solo tra un mese a quanti decessi corrispondono davvero i casi giornalieri che sta registrando adesso Uk. Sperando, ripetiamo, che i vaccini ne abbattano il numero in modo progressivamente crescente nel tempo, grazie all'aumento della popolazione protetta dal ciclo vaccinale completo.
Se davvero in Italia arrivassimo a 30.000 nuove infezioni al giorno entro fine agosto, come abbiamo indicato nel nostro scenario 3 concordando con le stime del professor Sergio Abrignani (immunologo dell’università di Milano e membro del Cts), applicando il tasso di letalità che ricaviamo dai numeri inglesi (0,48%) arriveremmo a fine settembre a una media giornaliera di 144 decessi. Speriamo ovviamente che non succeda, ma dobbiamo essere consapevoli che in larga parte dipende dalle nostre scelte e dalla tempistica di applicazione delle stesse: più tardi si agisce, peggio è.
L’errore ripetuto del calo dei test.
Una delle regole chiave dell’epidemiologia è quella che prescrive, nelle fasi di riduzione del contagio, il mantenimento e se possibile l’incremento del numero dei test eseguiti per individuare il virus. In questo modo (non ce ne sono altri) si ottengono alcuni risultati fondamentali:
1) Si individua precocemente il maggior numero possibile di positivi, quando i numeri sono ancora bassi.
2) Si tracciano i contatti e si isolano, cosa impossibile al di sopra di certe soglie (in Italia 50 casi per 100.000 abitanti alla settimana, ovvero 4.311 positivi di media giornaliera).
3) Si individuano e si isolano i focolai.
4) Si interrompono le catene di trasmissione del virus.
5) Si impedisce al virus, soprattutto grazie ai soggetti asintomatici, di circolare con efficacia aumentando in modo silente il proprio bacino di replicazione.
In Italia non lo abbiamo mai fatto: anzi, al termine di ogni ondata epidemica abbiamo rapidamente ridotto il numero dei tamponi eseguiti permettendo al virus di agire senza alcun controllo fino al momento in cui ne diventano nuovamente visibili gli effetti sulla popolazione (in particolare il forte rialzo dei casi e dei pazienti sintomatici).
Nella fase attuale, con la circolazione di una variante altamente diffusiva come la Delta, la diminuzione del numero dei test ha permesso al virus (come descritto nel punto 5) di generare un bacino di replicazione per noi del tutto sconosciuto. Non ne conosciamo le dimensioni: né in modo grossolano, né tantomeno esattamente, e in questo modo diventa difficile se non impossibile formulare previsioni attendibili sullo sviluppo epidemico.
Solo una settimana fa il tempo di raddoppio dei nuovi casi era di 11 giorni, attualmente stiamo assistendo a un’accelerazione che lo ha portato a soli 6-7 giorni.
Qualche numero ci aiuta a capire l’errore commesso nella strategia di testing, da noi più volte sottolineato sia nelle analisi settimanali (si veda in particolare al punto 7) sia nei commenti quotidiani. Il numero massimo di tamponi (2.051.720) è stato raggiunto nella settimana epidemiologica 10-16 aprile 2021. Da allora, in corrispondenza con il miglioramento dei numeri del contagio, le Regioni hanno sempre più ridotto il numeri dei test fino ad arrivare agli attuali 1.224.988 (settimana epidemiologica 10-16 luglio): il calo è del 40,2%. Ovvero abbiamo quasi dimezzato la ricerca del virus, probabilmente spinti più dal desiderio di ottenere allentamenti che dalla necessità di controllare l'epidemia.
Il problema dei test rapidi.
A questo trend negativo si aggiunge un secondo problema, quello dei test rapidi: non quelli indicati dall’Iss e ritenuti equiparabili ai test molecolari, ma i molti di vecchia generazione (e con bassissima affidabilità) che vengono ancora regolarmente utilizzati e inseriti senza alcuna distinzione nel conteggio del Bollettino quotidiano. Di fatto stiamo usando i vecchi test rapidi (in media il 50% del totale) per fare un lavoro diverso da quello per cui sono stati pensati: tracciare rapidamente i casi all’interno di cluster limitati (per esempio in presenza di focolai nelle scuole, oppure nelle aziende).
Per tracciare il virus sul territorio i test rapidi non servono, esattamente come non servono per individuare le varianti essendo impossibile sequenziare il materiale genetico virale (se non con alcuni di ultimissima generazione).
In sintesi:
1) Facciamo pochi tamponi in assoluto (un quinto di Uk a parità di popolazione, per fare un esempio).
2) Di quelli che facciamo, nel 50% dei casi non comunichiamo le caratteristiche (cosa indispensabile per i test rapidi) e quindi non ne conosciamo la reale affidabilità.
3) Di quelli che facciamo, il 50% circa (sempre i test rapidi) non servono per sequenziare il materiale virale e individuare le varianti.
Di fatto la situazione è anche peggiore a quella di fine 2020, quando il calo fu altrettanto importante ma tutti i test, perlomeno, erano del solo tipo molecolare e quindi al massimo dell’attendibilità possibile. A metà novembre 2020 in Italia venivano eseguiti quasi 200-250.000 tamponi molecolari al giorno, attualmente siamo a quota 79.048 (media quotidiana della settimana epidemiologica 10-16 luglio).
Il modo migliore per non trovare il virus resta sempre lo stesso: non cercarlo. Almeno in questo mostriamo una costanza ammirevole.
Dati vecchi e scarsamente affidabili
Al proposito potremmo semplicemente rinviare a questa analisi, che risale a dicembre 2020, oppure a questa dello scorso aprile: di fatto, nulla è cambiato. I dati ufficiali continuano a riflettere una situazione senza dubbio correttamente consolidata, ma purtroppo ampiamente superata dall'avanzata impetuosa dell'epidemia.
Basta ricordare che il valore di Rt, comunicato ogni settimana dell’Iss, come conseguenza dei criteri di calcolo rimanda a una circolazione del virus di una-tre settimane precedenti rispetto alla situazione attuale. Sapere che nel periodo 23 giugno - 6 luglio il valore di Rt medio in Italia era di 0,91 (si veda l’ultimo Bollettino epidemiologico a pagina 2) e quindi sotto la soglia critica di 1,0 che divide la fase di espansione da quella di crescita del contagio, riveste interesse dal punto di vista scientifico: ma è totalmente fuorviante nella comunicazione alla popolazione, che prende l'indicazione come rassicurante mentre l'epidemia, dopo quella data, ha iniziato a correre e il valore di Rt puntuale (metodo rapido Kohlberg-Neyman) ha ormai superato quota 1,5.
Prendere decisioni su dati passati costringe, come abbiamo sempre fatto, alla perenne rincorsa di un virus che già nelle forme più “lente” ha dimostrato di essere molto più veloce di noi e dei nostri interventi.
Al problema della tempistica si aggiunge quello dell’affidabilità dei dati: che sarebbe fondamentale per affrontare correttamente l’epidemia mentre invece è bassa a causa delle continue correzioni, rettifiche e imprecisioni nelle comunicazioni da parte di molte Regioni. Per questo motivo abbiamo sottolineato più volte la necessità sia di costituire un campione statistico nazionale in grado di fornire informazioni rapide e certe, sia di mettere a disposizione della comunità scientifica tutti i dati raccolti e non solo una parte di essi.
Per capire cosa intendiamo quando parliamo di dati inaffidabili e di correzioni in corsa riportiamo alcuni esempi del recente passato.
1) Il 15 giugno, a corredo del Bollettino quotidiano, si leggeva testualmente: «La Regione Campania riporta che, a seguito delle periodiche verifiche, si è riscontrato un disallineamento che, dopo un dettagliato ed accurato controllo da parte delle Asl, ha evidenziato 48.078 soggetti ancora riportati erroneamente in “Isolamento Domiciliare” e che, pertanto, sono stati assegnati alla categoria guariti».
Questa correzione ha fatto calare in solo giorno gli attualmente positivi a livello nazionale da 157.790 a 105.906; e, nella sola Campania, da 59.828 a 11.737. Generando una discontinuità statistica puntuale (dati del giorno); e inficiando la validità delle tre serie storiche (a livello regionale e nazionale) relative all’andamento delle positività in corso, dei pazienti in isolamento domiciliare e delle guarigioni/dimissioni quotidiane.
Comunicazioni analoghe, relative a soggetti guariti ma dati ancora per positivi, nelle settimane successive hanno riguardato altre Regioni a partire da Sardegna e Calabria, che come la Campania presentavano da tempo valori chiaramente fuori parametro rispetto alla media nazionale.
2) L’11 giugno, sempre nel Bollettino quotidiano, si leggeva: «La Regione Emilia Romagna (…) rettifica, a causa errore di trasmissione, il dato sul numero complessivo di tamponi antigenici comunicato ieri (10/06/2021) che risulta essere corretto in 1.547.397» (-17.215 test antigenici). La rettifica (non è noto se riferibile a un solo giorno oppure a errori commessi in più giorni ed emersi in blocco nella comunicazione del 10 giugno) ha modificato con un effetto a catena più parametri: tamponi rapidi eseguiti; tamponi totali eseguiti, rapporto positivi/tamponi totali.
3) Citiamo ancora in data 11 giugno:«La Regione Puglia comunica che alcuni casi confermati da test antigenico essendo stati successivamente confermati da test molecolare sono stati riclassificati tra questi ultimi». Identica comunicazione (alla lettera) è stata effettuata dalla Regione Veneto il 12 giugno.
Quale sia il numero reale che si cela dietro la definizione di “alcuni casi” è ignoto e lasciato alla libera interpretazione. Ma è facile capire come, con questo tipo di informazioni, sia molto difficoltoso se non impossibile costruire analisi accettabili.
Qualche stima sul prossimo futuro in Italia.
Come indicato in apertura di questa analisi l'epidemia si sta indirizzando rapidamente verso uno scenario di tipo 3, a causa del già citato tempo di raddoppio dei nuovi casi sceso da 11 a soli 6-7 giorni. Questo parametro potrebbe esprimere in futuro valori più moderati, stabilizzandosi intorno ai 14 giorni entro 2-3 settimane, ma ci porta come abbiamo visto a una proiezione di circa 30.000 casi al giorno entro fine agosto. Numeri inferiori non sarebbero figli di una minore circolazione del virus, ma piuttosto della nostra inefficienza nel cercarlo.
Il basso numero di test eseguiti ingigantisce infatti il numero degli asintomatici potenzialmente in circolazione, in gran parte collocabili nelle fasce più giovani della popolazione che non ha ancora raggiunto una copertura vaccinale accettabile.
Età media dei contagiati in calo
La prova è nell’età media dei contagiati, scesa a soli 29 anni (si veda l’ultimo Bollettino epidemiologico a pagina 2): una situazione che replica esattamente quanto accaduto nell’estate del 2020 (età mediana 30 anni il 3 agosto, si veda la tabella a pagina 16 dell'ultimo Bollettino epidemiologico). Allora i giovani avevano costituito il bacino ideale di replicazione del virus, in forma silente in quanto asintomatica, e la situazione era poi esplosa al ritorno dalle vacanze con il contagio portato in famiglia verso soggetti di età più avanzata e con rischio maggiore (o molto maggiore).
Oggi, esattamente come allora, non conosciamo il reale dimensionamento del bacino di replicazione virale, quello dei soggetti che vengono indicati come “attualmente positivi”. Ricaviamo questa informazione dai casi che emergono dai numeri ufficiali, sottostimati a causa del basso numero di test eseguiti.
Nella fase autunnale e invernale dell’epidemia, caratterizzate dalla vecchia variante DG614 e successivamente dalla Alfa (ex inglese), le stime convergevano su un positivo non individuato per ogni caso ufficiale: in altri termini per avere i contagiati reali occorreva moltiplicare per due le infezioni quotidiane. Difficile dire quale sia il moltiplicatore corretto oggi, in presenza della variante Delta che sappiamo essere molto più veloce e diffusiva: azzardiamo un moltiplicatore di 3-4 volte, a causa della circolazione sostenuta tra i giovani che in moltissimi casi sono completamente asintomatici.
Dobbiamo essere consapevoli che aumentando il denominatore (ovvero il numero dei positivi) anche se con valori percentuali più bassi che in passato, aumenta inevitabilmente anche il numero dei ricoverati e dei decessi. Per quanto riguarda i decessi abbiamo già eseguito il calcolo corretto del tasso di letalità nel paragrafo dedicato all’errata lettura dei dati di Uk, ora possiamo procedere con un’operazione analoga a proposito dei ricoverati:
1) Nel periodo 4-10 luglio i dati ufficiali del Regno Unito riportano una media di 616,7 ricoverati giornalieri.
2) Come abbiamo visto questi ricoveri sono riferibili a positività riscontrate una settimana prima, quindi nel periodo 27 giugno - 3 luglio, e non ai numeri attuali molto più alti.
3) La media giornaliera delle infezioni rilevate, nel periodo 27 giugno - 3 luglio, è stata in Uk di 28.542,4.
Effetto Delta sui ricoveri.
In termini semplici possiamo concludere che, sulla base dei dati Uk, al momento la variante Delta causa il ricovero del 2,1% delle persone infettate. Valore che, a fronte dei 30.000 casi giornalieri ipotizzati in Italia per fine agosto, corrisponderebbe a 630 nuovi ricoveri quotidiani.
È facile intuire come, a questo ritmo e nonostante la più giovane età dei soggetti colpiti rispetto alle ondate precedenti, arrivare alle soglie di allerta del sistema sanitario (in Italia 30% di occupazione per le terapie intensive, 40% per i posti letto in area medica) non richiederebbe moltissimo tempo: un mese e mezzo, massimo due. Un effetto che, in assenza di una rapida inversione di tendenza al momento non prevedibile, inizieremo a breve a vedere proprio in Uk.
Non lasciare i vaccini da “soli”
Dobbiamo affidarci ai vaccini, ma non possiamo lasciare ai soli vaccini il compito di frenare il Sars-CoV-2, soprattutto nella nuova forma mutata (la variante Delta) che presenta caratteristiche per noi molto più difficili da controllare.
Non dobbiamo immaginare per forza scenari apocalittici con nuovi lockdown, ma forse mantenere l’obbliago delle mascherine anche all’aperto sarebbe stata una buona idea. Si tratta dell’unico strumento di facile uso che consente di bloccare il virus, incluse tutte le varianti al momento note.
Raccomandare di festeggiare “in sicurezza” la vittoria dell’Italia al Campionato Europeo, pensando che tutti i tifosi possano stare diligentemente a un metro uno dall’altro e indossare la mascherina quando necessario, è un po’ come guardare una pentola d’acqua sui fornelli accesi chiedendo al fuoco di portare a ebollizione solo la metà di destra.E infatti iniziamo a registrarne gli effetti con focolai nelle zone dei cosiddetti “assembramenti”, peraltro con contagi avvenuti tranquillamente all'aperto: condizione che mitiga il rischio, ma che con la variante Delta è purtroppo molto lontana dall'eliminarlo.
Non adottare misure semplici ma efficaci, pur con l’amaro sapore delle restrizioni e magari distinguendo tra vaccinati e non vaccinati, ha l’effetto immediato e confortante di non disturbare la popolazione proprio nel periodo estivo: ma, soprattutto, quello pericoloso di non disturbare il virus. Che non ha bisogno di regali, e che potrebbe costringerci ad adottare in futuro misure peggiori di quelle che vogliamo evitare oggi.
L’errore più comune che si commette quando si parla di vaccinazioni è considerarle una misura di protezione personale: mentre, in realtà, sono uno strumento fondamentale di salute pubblica.
Il giusto calcolo della percentuale di vaccinati.
Così come è un errore calcolare la percentuale dei vaccinati facendo riferimento ai soli soggetti vaccinabili (in Italia sopra i 12 anni). In questo modo alziamo il dato percentuale, ma è una distinzione che per il virus non esiste: anzi, proprio i non vaccinati (e non vaccinabili) costituiscono per il Sars-CoV-2 l'obiettivo preferenziale. E sono questi i soggetti che dobbiamo a tutti i costi proteggere (obiettivo di salute pubblica) sapendo che oltre ai bambini in questo particolare gruppo dobbiamo considerare un milione circa di persone che, a causa della loro situazione di salute, pur essendo particolarmente esposti al rischio in caso di infezione non possono essere vaccinati.
Affrontiamo l’estate 2021 come se un anno fosse passato invano: abbiamo i vaccini, che sono fondamentali, ma li lasciamo da soli a combattere una guerra che parte da numeri molto diversi. La media attuale (in forte rialzo) è di 2.311 positivi giornalieri (settimana mobile 12-18 luglio) e si confronta con quella di 198 dello stesso periodo 2020; i ricoverati al 18 luglio 2021 sono 1.136, al 18 luglio 2020 erano 757; alla stessa data le terapie intensive sono 156 contro 50.
Come abbiamo sottolineato più volte, grazie ai vaccini non rivedremo percentuali di ricoveri e di decessi analoghe a quelle del passato. Ma lasciando correre il virus, e permettendogli di aumentare a dismisura il denominatore, inevitabilmente arriveremo a valori assoluti comunque elevati. E gli daremo la possibilità di replicarsi, commettere errori nel farlo, generare mutazioni e selezionare varianti.
In attesa, nel frattempo, di raggiungere una copertura vaccinale sufficiente per frenare la corsa della variante Delta: ma, come abbiamo visto in passato (si legga in particolare il punto 3 di questa analisi del 23 giugno scorso) il livello di popolazione da immunizzare è oggi molto più alto di quanto avessimo ipotizzato in base alle caratteristiche delle vecchie varianti.
Errare è umano, e quindi perdonabile. Ma continuare a commettere gli stessi errori dopo quasi 18 mesi di esperienza sul campo diventa diabolico, ingiustificabile e imperdonabile. Vedremo nelle prossime settimane, e speriamo già nei prossimi giorni, se metteremo in campo altre misure (insistiamo sulle mascherine sempre, anche all'aperto) capaci di aiutare i vaccini in una battaglia campale che non possiamo permetterci di perdere.
IlSole24Ore