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sabato 26 novembre 2016

Consulta boccia riforma Madia della pubblica amministrazione. Renzi: “È la dimostrazione che il Paese è bloccato”.

Consulta boccia riforma Madia della pubblica amministrazione. Renzi: “È la dimostrazione che il Paese è bloccato”

Secondo la Corte Costituzionale la riforma è illegittima nelle parti in cui prevede che l’attuazione attraverso i decreti legislativi possa avvenire dopo aver acquisito il solo parere della Conferenza Stato-Regioni, sede dove serve invece un'intesa per poter procedere. I sindacati dei dirigenti: "Esiste un giudice a Berlino. E domani la delega scade. Mattarella non firmi il decreto". Ora per i decreti attuativi spunta l’ipotesi del ritiro.

Ennesimo incidente, questa volta sostanziale, sulla strada della riforma della pubblica amministrazione targata Marianna Madia. Secondo la Corte Costituzionale, la delega è illegittima nelle parti in cui prevede che l’attuazione attraverso i decreti legislativi possa avvenire dopo aver acquisito il solo parere della Conferenza Stato-Regioni, sede dove serve invece un’intesa per poter procedere. La pronuncia della Consulta è arrivata in seguito a un ricorso della Regione Veneto e riguarda le norme relative a dirigenzapartecipateservizi pubblici locali e pubblico impiego: rende quindi illegittimi anche i decreti approvati giovedì in via definitiva dal Consiglio dei ministri, tra cui quelli sui dirigenti e sui servizi locali (ancora da varare invece il testo unico sul pubblico impiego).
Ha fatto subito buon viso a cattivo gioco Matteo Renzi, che a nove giorni dal referendum costituzionale ha approfittato del pronunciamento per sottolineare: “La Consulta ha dichiarato parzialmente illegittima la norma sui dirigenti perché non abbiamo coinvolto le Regioni. E’ un Paese in cui siamo bloccati“. Chiaro il riferimento agli effetti della revisione del titolo V prevista dalla riforma Renzi-Boschi: se passerà, il governo potrà bypassare gli enti locali evitando la grana dei conflitti di competenza. Poco dopo è arrivata anche una nota del Comitato ‘Basta un sì’ che parla di “un ricorso basato su motivazioni meramente formali” che causa “l’ennesimo blocco burocratico, che ha fatto sprecare tempo e soldi al Parlamento per le sedute necessarie ad approvare questi provvedimenti e che impedisce ai cittadini di ricevere i benefici in essi contenuti. Uno stop che la riforma costituzionale permetterebbe di superare, riportando la gestione della pubblica amministrazione, com’è giusto che sia, alla competenza dello Stato”. Di parere diametralmente opposto i dirigenti, da tempo sulle barricate contro il ruolo unico e il rischio di restare senza poltrona e con lo stipendio ridotto: “E’ tutto da rifare. E domani la delega scade“, cantano vittoria. La Madia si limita a dire che “le sentenze si rispettano”. E, già che c’è, aggiunge anche lei che “se votiamo sì non ci sarà più la possibilità che una Regione blocchi l’innovazione di tutto il Paese”.
Tornando alla pronuncia, la Corte ha circoscritto il giudizio alle misure della delega Madia impugnate dalla Regione Veneto, lasciando fuori le norme attuative. “Le pronunce di illegittimità costituzionale colpiscono le disposizioni impugnate solo nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati previo parere e non previa intesa”, si spiega nella sintesi della sentenza. In particolare, sono stati respinti i dubbi di legittimità costituzionale relativi alla delega per il Codice dell’amministrazione digitale. Lo stop riguarda quindi esclusivamente le deleghe al governo “in tema di riorganizzazione della dirigenza pubblica”, “per il riordino della disciplina vigente in tema di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni”, “di partecipazioni azionarie delle pubbliche amministrazioni e di servizi pubblici locali di interesse economico generale”. La Consulta, guardando al futuro, sottolinea comunque che “le eventuali impugnazioni delle norme attuative dovranno tener conto delle concrete lesioni delle competenze regionali, alla luce delle soluzioni correttive che il Governo, nell’esercizio della sua discrezionalità, riterrà di apprestare in ossequio al principio di leale collaborazione“.
Ora per i decreti Madia spunta l’ipotesi del ritiro. I provvedimenti sulla dirigenza pubblica e sui servizi pubblici locali, approvati giovedì in Consiglio dei Ministri, potrebbero essere bloccati in uscita e il ‘timbro’ del Quirinale per questi diventerebbe superfluo. Invece per i decreti già pubblicati in Gazzetta Ufficiale, in vigore, quelli sulla razionalizzazione delle partecipate pubbliche e sui licenziamenti lampo per i furbetti, l’ipotesi di correttivi potrebbe non risultare sufficiente lasciando spazio all’alternativa del ritiro. Per quanto riguarda il testo unico sul pubblico impiego il problema non si pone, visto che la presentazione era prevista per febbraio. Quanto alla legge deroga, da cui i decreti discendono, dovrebbe essere rivista con anche una riapertura dei termini, ovvero delle scadenze per la definizione dei provvedimenti di attuazione.
Nei mesi scorsi alcuni tasselli della riforma erano già stati “smontati” dalla giustizia amministrativa: a metà ottobre il Consiglio di Stato ha bocciato il decreto sulla dirigenza pubblica per assenza di copertura finanziaria e mancanza di nuovi sistemi di valutazione, arrivando alla conclusione che  “occorrono rilevanti modifiche al decreto per un miglior risultato sul meritoefficienza e responsabilità dei dirigenti”. Sia il Tar sia il Consiglio di Stato hanno poi giudicato “illegittimi” e “irragionevoli” i requisiti richiesti dal decreto sulla pa digitale ai gestori di pec, certificatori e conservatori di documenti digitali. Ciliegina sulla torta, il Tar del Lazio ha demolito pure il regolamento attuativo di quest’ultimo decreto sulla digitalizzazione dei servizi ribadendo che i requisiti di capitale sono ingiustificati.
Dall’Unadis al Fedir, i sindacati dei dirigenti pubblici esultano. “Esiste un giudice a Berlino“, commenta l’Unione nazionale dirigenti dello Stato attraverso il segretario generale Barbara Casagrande. “Qualcuno comincia a dire che la legge Madia è incostituzionale e, di conseguenza, lo è il decreto legislativo adottato ieri dal Consiglio dei Ministri, laddove non vi è una intesa con la Conferenza Stato Regioni (ma solo un parere). Dopo le numerose iniziative volte ad evidenziare le nostre preoccupazioni nei confronti di una riforma inapplicabile, incostituzionale, che lede l’imparzialità della funzione amministrativa e ingenera incrementi dei costi all’esterno, adesso dobbiamo ragionare sulle azioni immediate a tutela della difesa della dirigenza”. “Domani la delega scade”, ma “auspichiamo che non si blocchi il processo di riforma, ma che avvenga in modo corretto e condiviso”. Per mercoledì è convocata una “grande assemblea della dirigenza, insieme ai nostri legali, per definire le azioni imminenti a difesa della categoria e del Paese”.
Il segretario nazionale della Federazione dei Dirigenti e Direttivi Pubblici (Fedir), Antonio Travia, fa appello al presidente Mattarella chiedendogli “di non rendersi complice di Renzi di ulteriori illegittimità e quindi di non firmare il decreto Madia sulla dirigenza”.

martedì 15 novembre 2016

Renzi e il refuso nella lettera agli italiani all’estero: link porta a comitato del No.

Renzi e il refuso nella lettera agli italiani all’estero: link porta a comitato del No

È stata dimenticata una 'N', così la scritta che avrebbe dovuto rimandare al sito del comitato 'Basta un Sì', si è trasformata in "www.bastausi.it".

La lettera inviata da Matteo Renzi agli italiani residenti all’estero, per invitarli a votare  al Referendum Costituzionaleaveva già fatto molto discutere. Ma in tutto questo caos, nessuno si era accorto di un clamoroso errore: sulla prima facciata del volantino, dove il premier è ritratto in una foto con Obama (per ribadire l’endorsement del presidente uscente degli Stati Uniti), il link al sito della campagna è sbagliato. È stata dimenticata una ‘N‘, ed ecco che la scritta che avrebbe dovuto rimandare al sito del comitato ‘Basta un Sì‘, si è trasformata in “www.bastausi.it“. Un errore di cui si è accorto per primo Roberto Calderoli: “Peccato – ha detto il senatore leghista – che questi signori siano talmente ignoranti della grammatica, e della Costituzione, che indicando il sito di riferimento abbiano scritto www.bastausi.it. Bastausi? Che sia un’espressione dialettale? Non credo proprio, come non credo che chi non è in grado di scrivere neppure una lettera correttamente possa riscrivere la Costituzione”.
Ma, questo è proprio il caso di dirlo, oltre al danno la beffa. Quello che neanche Calderoli sapeva è che il link scritto nella lettera riporta a una pagina dove si sostengono le ragioni del No. Il dominio risulta infatti intestato a Ruggero Barbetti, esponente di Forza Italia e sindaco di Capoliveri che, come spiega il sito Gli Stati Generali, notando la svista ha acquistato l’url e creato così la pagina web di un comitato per le ragioni del No. E così la contestata lettera di Renzi agli italiani all’estero rischia paradossalmente di fare pubblicità al fronte del No.

mercoledì 14 settembre 2016

Referendum, gli apocalittici che mettono in guardia contro il No: da Confindustria a Goldman Sachs, da Fitch a Marchionne. - Marco Pasciuti

Referendum, gli apocalittici che mettono in guardia contro il No: da Confindustria a Goldman Sachs, da Fitch a Marchionne

L'endorsement sul referendum costituzionale firmato dall'ambasciatore Usa in Italia, John Phillips, sorprende ma non troppo: numi tutelari della politica e vertici della finanza nostrana e mondiale si sono a più riprese espressi a favore delle riforme del governo Renzi. Il più delle volte con toni da day after, prefigurando 'caos politico', recessione e tracolli dell'occupazione.

In principio fu Jp Morgan. Hanno costituzioni “influenzate da idee socialiste”, “esecutivi deboli”, tutele dei diritti dei lavoratori”, ma anche “la licenza di protestare contro modifiche sgradite dello status quo”, si legge in un report di 16 pagine, datato 28 maggio 2013. La banca d’affari annoverata tra le protagoniste della finanza creativa, e quindi della crisi dei subprime che dal 2008 ha inceppato l’economia mondiale, giudicava così i “sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni”, definendole “inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”. In questo contesto l’endorsement sul referendum costituzionale firmato dall’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia,John Phillips, sorprende ma non troppo: numi tutelari della politica e vertici della finanza nostrana e mondiale si sono a più riprese espressi a favore di riforme di respiro liberista come quelle del governo Renzi.
I toni si fanno spesso apocalittici, degni del più cupo dei day after gli scenari prefigurati in caso di fallimento: la vittoria del “No” al referendum, rilevava il 1° luglio l’ufficio studi di Confindustria, causerebbe un “caos politico” e lo scenario economico interno “sarebbe caratterizzato da cinque eventi ciascuno dei quali foriero di recessione“. Tradotto in numeri: “L’effetto complessivo della vittoria del “No” è stato quantificato per il triennio 2017-2019: il Pil cala dello 0,7% nel 2017 e dell’1,2% nel 2018, salendo dello 0,2%nel 2019. In totale si riduce dell’1,7%“. E il Pil pro capite, “una misura di benessere, calerebbe di 589 euro. Ciò porterebbe a un aumento di 430mila persone in condizione di povertà“. Senza contare la perdita di posti di lavoro: “L’occupazione diminuisce complessivamente di 258mila unità, mentre altrimenti salirebbe di 319mila”. “Noi siamo per il sì – ribadiva quindi il 20 luglio al Meeting di Rimini il presidente Vincenzo Boccia, eletto il 25 maggio – perché riteniamo che la governabilità e la stabilità siano la precondizione per una politica economica di lungo termine”.
Apocalittici anche i toni usati da Fitch, che esprimeva il proprio parere nelle stesse ore in cui Phillips spiegava che una vittoria del “No” sarebbe un “passo indietro” per attrarre gli investimenti stranieri in Italia: “Ogni turbolenza politica o problemi nel settore bancario – ha spiegato il responsabile rating sovrani per Europa Medio Oriente Edward Parker – che si possano ripercuotere sull’economia reale o sul debito pubblico, potrebbe portare a un intervento negativo sul rating dell’Italia. Se ci fosse un voto per il No, lo vedremmo come uno shock negativo per l’economia e il merito di credito italiano”. Più o meno lo scenario delineato anche da Goldman Sachsche in un rapporto di 14 pagine mette in rilievo i rischi che un fallimento del referendum comporterebbe per le banche: “Una fase di turbolenza politica e uno stop al percorso riformista ridurrebbe le probabilità di arrivare a una soluzione di mercato per le banche in difficoltà, aumentando per contro quelle di un intervento del governo”.
Lassù, tra le nubi che circondano i resti di quello che fu Olimpo della grande industria italiana, le riforme piacciono anche a Sergio Marchionne, che con Matteo Renzi ha dimostrato di avere un feeling particolare: “Quello che interessa a noi come azienda è la stabilità del sistema”, spiegava il 27 agosto a margine di un convegno alla Luiss l’amministratore delegato di Fca, dicendosi ”a livello personale per il sì” al referendum. ”Non voglio – tentava quindi un distinguo – prendere una posizione. Ma personalmente condivido alcune delle scelte che sono state fatte per cercare di alleggerire il costo di gestione di questo Paese. Non voglio giudicare se la soluzione è perfetta, ma è una mossa che va nella direzione giusta”.
Più in basso, nella Castalia della politica nostrana, il nome che spicca per qualità e quantità degli interventi in favore delle riforme è quello di Giorgio Napolitano: “Sosterrò la conferma della legge di riforma approvata dal Parlamento e mi auguro che le opposte parti politiche si confrontino sul referendum nella sua oggettività”, rompeva gli indugi il presidente emerito in un’intervista al Corriere della Sera il 6 gennaio, per poi esprimere il 5 luglio un invito direttamente agli italiani: “Auspico che la stragrande maggioranza dei cittadini non faccia finire nel nulla gli sforzi messi in atto in questi due anni in Parlamento”, fino all’ultimo appello, datato 10 settembre: “Bocciare la revisione della Carta sarebbe un’occasione mancata“. Difficile, comunque, quantificare le occasioni in cui l’ex capo dello Stato ha sponsorizzato le riforme firmate da Maria Elena Boschi, ampiamente ricambiato con l’iscrizione a caratteri cubitali (secondo i maligni, un epitaffio) che il premier ha scolpito loro in calce: “Portano la sua firma“. Con tutte le conseguenze che in termini di giudizio storico da questa affermazione potrebbero discendere.
Per un certo periodo, più o meno corrispondente alla durata del patto del Nazareno, le riforme hanno riscosso successo anche negli ambienti berlusconiani: “In un Paese che ha bisogno di riforme – argomentava il 2 luglio 2014 Pier Silvio Berlusconi, vicepresidente di Mediaset, alla presentazione dei palinsesti autunnali – come italiano e come imprenditore io tifo per Renzi, e chi non lo farebbe con chi ha preso il 40% (alle elezioni europee di quell’anno, ndr)? Abbiamo bisogno innanzitutto di stabilità e in secondo luogo di riforme che facciano ripartire l’economia“. Perché è “indispensabile” intervenire su “giustizia, lavoro, tasse”. Poi però, sottolineava il delfino, “è importante vedere come sono le riforme, perché vanno fatte bene, e con chi si fanno”. Renzi le avrebbe fatte con suo padre Silvio, fino a che quest’ultimo, scottato dall’inversione a “U” fatta dal premier in occasione dell’elezione di Sergio Mattarella al Colle, non aveva fatto crollare il patto. Passando quindi l’ideale staffetta a Denis Verdini. Ma questa è un’altra storia.
La lista degli insospettabili tifosi delle riforme arriva fino a Jyrki Katainen, implacabile fustigatore delle mollezze amministrative di Atene. Il 15 gennaio 2015, nella prima tappa a Roma del suo tour per lanciare il fondo Juncker per gli investimenti, il vicepresidente della Commissione europea parlava di un “programma di riforme coraggioso”, promuovendo a pieno voti il Jobs Act: “Aiuterà soprattutto i giovani a trovare un impiego”, assicurava il falco finlandese la cui affabilità nei confronti di un’Italia che chiedeva flessibilità era giustificata dalla necessità di Bruxelles di dare un segnale di distensione a quei Paesi che rischiavano di essere attratti come mosche dal miele dalle ricette greche di Syriza. Che prometteva ai greci, prima di auto-normalizzarsi, un’Unione Europea meno ostaggio del partito dell’austerity.

giovedì 7 luglio 2016

Referendum, Napolitano istruisce gli elettori: “Spero che i cittadini non vanifichino gli sforzi sulle riforme”

Referendum, Napolitano istruisce gli elettori: “Spero che i cittadini non vanifichino gli sforzi sulle riforme”

Il presidente emerito della Repubblica: "Su questa vicenda mi ci sono rotto la testa per quasi 9 anni. Ci sono delle imperfezioni, ma l'opera degli stessi costituenti non era perfetta e lo sapevano anche loro".

“Sì, ci sono delle imperfezioni, ma io ritengo che sia legittimo e auspicabile, e io me lo auguro fortemente, che la stragrande maggioranza dei cittadini non faccia ancora una volta finire nel nulla gli sforzi messi in atto in due anni in Parlamento”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano risponde al richiamo del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il leader del Pd, durante la direzione del partito, aveva fatto trasmettere i 3 minuti – ormai celebri – in cui l’allora capo dello Stato chiamato a un inedito mandato bis redarguiva il Parlamento di non aver fatto le riforme e, davanti, tutti gli eletti erano lì a spellarsi le mani. Ora il senatore a vita e presidente emerito rivendica quelle parole e rilancia, avvertendo i cittadini: “E’ auspicabile – dice – che la grande maggioranza dei cittadini non faccia finire nel nulla gli sforzi fatti dal Parlamento”. Il risultato del referendum sulla Brexit, insomma, insegna che dalle urne possono sempre uscire sorprese e questo può spaventare chi ha sostenuto finora le riforme costituzionali. Ancora di più dopo la polarizzazione della campagna elettorale che si è estesa dal merito della riforma alla stessa sopravvivenza del governo e al proseguimento dell’esperienza politica del presidente del Consiglio.
Quella di Napolitano d’altra parte è una posizione coerente, che è la base dei suoi due mandati da presidente della Repubblica e soprattutto ha ispirato la ragione sociale del governo Renzi: “Su questa vicenda delle riforme mi ci sono rotto la testa per quasi 9 anni” ha detto durante un intervento alla celebrazione del 70esimo anniversario della Cna. Napolitano ha sottolineato, tra l’altro, “l’opera degli stessi costituenti non era perfetta e lo sapevano anche loro”.
Napolitano racconta di aver passato quei 9 anni a “rompersi la testa”, ma anche a ricevere “dalle forze politiche perfino giuramenti fino alla fine della legislatura nel 2013 e poi riassumendomi la responsabilità al solo scopo di fare le riforme e quindi al di là dei perfezionismi, che dicono qua e là alcuni professori“. A proposito dei “perfezionismi”, Napolitano ha ricordato che “gli stessi costituenti riconobbero errori“: “Noi amiamo la Costituzione, i suoi principi, valori, indirizzi a cui non rinunceremo mai, ma nella seconda parte l’opera dei costituenti non è stata perfetta e lo sapevano anche loro”. Per questo motivo ora occorre “far prevalere il senso dell’interesse comune al di là del confronto fra forze diverse che si contrappongono per la guida del Paese: è questo lo spirito che deve continuare a guidarci – ha detto ancora l’ex capo dello Stato – non è qualcosa di impossibile, lo abbiamo saputo fare e dobbiamo mostrarci capaci di farlo ancora. E per liberarci di zavorre e questioni che ci impegnavano da tempo occorreva aprire una stagione di riforme“.
I primi a rispondere a Napolitano, incredibilmente, sono quelli di Forza Italia che all’inizio le riforme istituzionali le hanno scritte insieme al Pd e poi hanno ritirato il sostegno al testo dopo che i democratici hanno puntato su Sergio Mattarella come candidato al Quirinale. Secondo Francesco Paolo Sisto, deputato berlusconiano componente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, “l’ex presidente della Repubblica, ormai impegnato in una martellante campagna referendaria, è stato il protagonista, in negativo, di una tra le pagine più antidemocratiche della nostra storia repubblicana. Con lui è stata asfaltata la volontà popolare, ribaltato un governo scelto dagli elettori e steso un tappeto rosso all’arrivo di Monti“. “Non c’è dunque da stupirsi che oggi proprio Napolitano sostenga una riforma antidemocratica – conclude Sisto – che non appartiene affatto al Parlamento ma solo ad una parte di esso”. Per questo motivo per Sisto Napolitano è “il miglior testimonial per il no”.
Questa è un'altra persona di potere della quale non possiamo vantarci.
E' incomprensibile il suo arrogante atteggiamento da borioso comunista radical-chic.
Credo che sia sotto gli occhi di tutti chi è che comanda in Italia.
Renzi è solo un'esecutore di ordini - compensato con prestigio personale - Mattarella è una figura-ombra, l'alter ego della situazione, un semplice avatar. Chi tira le fila, il burattinaio, è sempre lui, Re-Giorgio, che impartisce ordini per il tramite della sua Boschi-donzella.