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venerdì 25 ottobre 2019

Il club degli ex JP Morgan sale ai vertici delle società di Stato. - Alessandro Graziani



la nomina di Gorno Tempini alla presidenza di Cdp evidenzia anche la consacrazione definitiva della scuola degli ex banchieri di JP Morgan come principale serbatoio manageriale per le società pubbliche italiane. La lista dei banchieri ex JP passati alla guida di società pubbliche è ampia e destinata ad allungarsi.

Con il cambio alla presidenza della Cdp tra l'uscente Massimo Tononi e il «rientrante» Giovanni Gorno Tempini (ne era stato amministratore delegato dal 2010) si celebra anche il simbolico passaggio di consegne tra un ex banchiere di Goldman Sachs a favore di un ex di JP Morgan, che ormai sta diventando sempre più il main partner bancario internazionale dell'indebitato Stato italiano. Non solo agendo come collocatore dei titoli di Stato, ma anche come «serbatoio» manageriale - replicando il ruolo che McKinsey ebbe venti anni fa nelle aziende private - per ruoli apicali di società pubbliche. La lista degli ex JP Morgan è ampia. E potrebbe allungarsi con il possibile ritorno in Italia di Vittorio Grilli.

Tornando per un attimo a Cdp. La nomina del presidente della Cassa è statutariamente in capo alle Fondazioni (ex?) bancarie, azioniste di minoranza della Cassa con il 15,93% del capitale, che ancora gravitano in via maggioritaria intorno all’asse di potere tra Fondazione Cariplo-Intesa su cui ha ancora un “ascendente” l'inossidabile ticket tra l’ex presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti e l’ex presidente di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli. Entrambi politicamente vicini all'area dell’ex sinistra Dc guidata da Dario Franceschini, che ancora li rappresenta nel nuovo Pd di Governo.

Politica a parte, ma evitando di prescinderne poichè Cdp fa capo per l’82,7% al Ministero dell’Economia, la nomina di Gorno Tempini alla presidenza di Cdp evidenzia anche la consacrazione definitiva della scuola degli ex banchieri di JP Morgan come principale serbatoio manageriale per le società pubbliche italiane. La lista dei banchieri ex JP passati alla guida di società pubbliche è ampia e destinata ad allungarsi.

In Cdp il neo presidente Gorno Tempini ritroverà come amministratore delegato Fabrizio Palermo, che invece ha un passato in Morgan Stanley. Ma la lista dei banchieri “prestati” allo Stato che provengono dalla banca americana guidata da Jamie Dimon è lunga. A partire dall’amministratore delegato di Poste Italiane Matteo Del Fante, per 13 anni in JP Morgan e poi ai vertici di Terna prima di passare alla guida di Poste. Dove da un paio di anni è diventato “group cfo” Guido Maria Nola, ex country manager di JP Morgan per l'Italia. Tra i manager chiamati dallo Stato a guidare una società pubblica, c'è anche l'amministratore delegato di Mps Marco Morelli che è nato e cresciuto in JP Morgan (prima di passare a Intesa e poi a Bofa-Merrill Lynch). Dire che Jp Morgan stia diventando per le società pubbliche la “palestra” manageriale che è stata Mc Kinsey negli ultimi venti anni per banche e assicurazioni e' forse eccessivo.

È certo che con la temporanea uscita di scena di Tononi e prima di Claudio Costamagna, la generazione degli ex banchieri di Goldman Sachs nata con le privatizzazioni ha passato il testimone agli ex JP Morgan. Pattuglia che potrebbe rafforzarsi ulteriormente se anche l'ex direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli, ora capo Europa e Middle East di JP Morgan, lasciasse Londra per tornare stabilmente in Italia (ha da poco comprato casa nel centro di Milano) entrando nella partita delle nomine ai vertici delle società pubbliche della primavera 2020.

Ma come si spiega l’ascesa degli ex JP Morgan ai vertici delle società statali italiani nell’ultimo decennio? JP Morgan è da sempre considerata un’istituzione finanziaria vicina ai Governi, in particolare di quelli che hanno un maxi debito pubblico da rifinanziare. Se fino all’inizio degli anni 2000 JP Morgan concorreva alla pari con le altre big americane sul mercato dei capitali, ormai da anni è diventata la big bank più grande del mondo occidentale (32,5 miliardi di utile nel 2018) con una capitalizzazione di Borsa che sfiora i 400 miliardi di dollari. Il suo contributo ai Governi iperindebitati può fare la differenza e di conseguenza i suoi suggerimenti, anche in politica economica, vengono tenuti nella giusta considerazione. Inutile dire che l’Italia è da anni un buon cliente per la banca Usa. Come dimostra la cosiddetta «operazione Cristal» finalizzata a favorire l’entrata dell’Italia nell’euro a fine ’99, rivelata per la prima volta nel febbraio del 2010 dal New York Times.

«Con l'aiuto di JP Morgan - scrisse il quotidiano americano - l'Italia riuscì nel suo intento. Nonostante alti deficit, un derivato attivato nel 1996 consentì di portare il budget italiano in linea con i parametri swappando valute con JP Morgan a un tasso di cambio favorevole e mettendo più soldi nelle mani del governo». L’aiuto non venne meno neanche durante la crisi del 2011, quando molte banche estere vendettero BTp e invece JP Morgan ne acquistò. Possibile che un Governo dipenda dai «desiderata» di una grande banca globale? Sicuramente no. Anche se qualche dubbio emerse nel maggio 2013 quando un corposo report di 4 analisti-economisti di JP Morgan scrisse che «i sistemi politici dei paesi del Sud Europa, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea». Probabilmente solo un «wishful thinking» di analisti. Anche se poi nel 2016 in Italia si svolse davvero un referendum per cambiare la Costituzione.

https://www.ilsole24ore.com/art/il-club-ex-jp-morgan-sale-vertici-societa-stato-AC9gWKu

venerdì 2 novembre 2018

GOLDMAN SACHS: SCANDALO 1MDB, L'ITALIANO ANDREA VELLA SOSPESO.

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(Il Sole 24 Ore Radiocor Plus) - New York, 01 nov - Anche un banker italiano e' coinvolto nello scandalo che ha travolto Goldman Sachs nell'ambito dello 1Malaysia Development Bhd (1Mdb), controverso fondo d'investimento malese per lo sviluppo coinvolto in uno scandalo internazionale per presunti trasferimenti illeciti di denaro. 
Si chiama Andrea Vella, nato in Italia e fino al mese scorso co-capo dell'investment banking in Asia per la banca guidata da David Solomon. Secondo Bloomberg, e' stato sospeso e il suo profilo corrisponde a quello che il dipartimento di Giustizia Usa cita come "Co-Conspirator #4" nelle incriminazioni annunciate oggi sul caso. Entro' in Goldman nel 2007 e ne era partner. 

Secondo la Giustizia, il Co-Conspirator numero quattro era a conoscenza delle attivita' illecite di un ex banker di Goldman (Tim Leissner) che si e' dichiarato colpevole e lo ha aiutato a circumnavigare le regole interne alla banca sulla compliance. Le indiscrezioni di Bloomberg confermano quanto scritto il 20 ottobre dal Wall Street Journal, secondo cui Goldman Sachs aveva cambiato la leadership in Asia e che per questo a Vella era stato tolto un ruolo di management. Come raccontava il Wsj, e' stato coinvolto in un paio di episodi di cui la banca americana non va fiera. E' stato lui ha strutturare un'offerta di bond in Malesia che ha travolto Goldman in un'inchiesta di corruzione che potrebbe costringerla a versare una multa ingente. 

Inoltre, Vella ha lavorato a un derivato venduto al fondo sovrano libico che e' finito sui banchi di tribunale lo scorso anno (il gruppo e' stato assolto, ma il processo, nel quale l'italiano ha testimoniato, ha portato a galla dettagli poco gratificanti sui legami tra la banca e il fondo). L'Asia e' la regione piu' piccola e redditizia per Goldman, che la' (oltre che in Australia e Nuova Zelanda) ha generato nella prima meta' del 2018 utili al lordo delle imposte per 767 milioni di dollari. Quest'anno la banca e' la numero uno nell'M&A e nella sottoscrizione di azioni in quell'area. Ha capitanato la quotazione del produttore cinese di smartphone Xiaomi e della piattaforma di servizi online Meituan Dianping ed e' il principale underwriter del debutto prossimo a Wall Street di Tencent Music Group Entertainment.

Fonte: borsaitaliana dell'1/11/2018

sabato 1 ottobre 2016

Deutsche Bank, il primo istituto tedesco spolpato dagli illeciti e il rischio di un effetto domino sul sistema finanziario. - Muro Del Corno

Deutsche Bank, il primo istituto tedesco spolpato dagli illeciti e il rischio di un effetto domino sul sistema finanziario

La banca oggi vale in borsa 15 miliardi di euro contro i 30 di un anno fa e sono schizzati all'insù i Credit default swap con cui gli investitori si assicurano contro il suo fallimento. Le sue strette interconnessioni con il sistema bancario e assicurativo teutonico e con i big della finanza globale fanno pensare che se la situazione degenera interverrà il governo tedesco. Cosa che farebbe però scattare il bail in.

Si è conclusa l’ennesima e non ultima settimana di passione per Deutsche Bank. La prima banca tedesca ha visto le sue azioni muoversi sulle montagne russe, sprofondare sui minimi degli ultimi 24 anni e poi in parte risollevarsi. Un anno fa la banca valeva in borsa 30 miliardi di euro, oggi circa 15. Il prezzo dei suoi bond convertibili (i primi ad essere colpiti in caso di ristrutturazione) è precipitato mentre sono schizzati sopra i 500 punti, dai 90 di gennaio, i Credit default swap, titoli con cui gli investitori si assicurano contro il fallimento di una società o uno stato. Il segnale più preoccupante è stata però la decisione di dieci hedge fund di ritirare liquidità e ridurre la loro esposizione verso la banca tedesca.
Durante la settimana si sono rincorse dichiarazioni e ipotesi su un possibile aiuto pubblico alla banca. Su diversi organi di stampa tedeschi sono comparse ipotesi di questo tipo, il governo tedesco ha però smentito, così come i vertici della banca. Il numero uno della Bce Mario Draghi, in visita a Berlino, sollecitato più volte su una valutazione della situazione della banca non ha rilasciato dichiarazioni. L’annuncio di mercoledì della cessione della compagnia assicurativa britannica Abbey life per 1 miliardo di euro ha fornito un po’ di ossigeno alla banca. Ma si è trattato di una tregua effimera. All’origine della nuova bufera c’è l’annuncio del dipartimento di Giustizia statunitense di una possibile multa fino a 14 miliardi di dollari per comportamenti scorretti nella vendita di obbligazioni legate ai mutui subprime prima e durante la crisi del 2008. Come sempre accade in questi casi la sanzione sarà drasticamente ridimensionata: secondo indiscrezioni l’accordo dovrebbe collocarsi intorno ai 5,4 miliardi di dollari. Per vicende molto simili Goldman Sachs ha versato 5 miliardi, JP Morgan poco più di 3 miliardi. Tuttavia, anche in caso di accordo, la multa del dipartimento di giustizia a stelle e strisce prosciuga quasi completamente i 5,5 miliardi di euro accantonati da Deutsche Bank per far fronte a sanzioni e contenziosi nel 2016.
Non solo. La disputa con il tesoro Usa è solo l’ultima di una serie di vicende legate a comportamenti scorretti della banca, che sono sinora costate al colosso tedesco circa 20 miliardi di euro. E all’orizzonte si profilano già altre nubi nere . La banca sarebbe stata infatti parte attive in una serie di operazioni finanziarie che hanno consentito a società e miliardari russi di trasferire soldi all’estero aggirando le sanzioni contro Mosca per il conflitto in Ucraina. Una causa che secondo fonti della banca sarebbe molto difficile da quantificare nelle sue ripercussioni economiche.
Le conseguenze di ripetuti comportamenti illegali stanno di fatto spolpando le risorse di una banca che pur registrando ricavi in crescita oltre i 33 miliardi di euro si trova come molti istituti europei a fronteggiare un calo della redditività. Deutsche Bank deve anche gestire un’ingente quantità di titoli tossici ancora iscritti a bilancio. In particolare i derivati di livello 3, ossia quelli a cui si può affibbiare un prezzo solo ipotetico non essendo trattabili sui mercati e non essendoci strumenti simili a cui rapportarne il valore, ammontano a 30 miliardi di euro. Un valore però del tutto teorico e calcolato dalla stessa banca con modelli interni. Alla prova dei fatti i titoli potrebbero valere parecchio di meno. La banca dispone di un capitale di 62 miliardi di euro e il valore di borsa si è ormai ridotto ad appena lo 0,2% di questa cifra. Questo significa tra le altre cose che il mercato crede che questa dotazione finanziaria verrà probabilmente erosa in futuro da ulteriori perdite. Deutsche Bank ha inoltre un’elevata leva finanziaria, pari a quasi 1 a 30. Ossia ha molti investimenti in rapporto al capitale di cui dispone, che verrebbe quindi azzerato completamente anche in caso di perdite relativamente modeste. Circa due mesi fa l’istituto di ricerca tedesco Zew ha calcolato che per reggere in una situazione di generalizzata crisi finanziaria Deutsche Bank avrebbe bisogno di rafforzare il suo capitale per 19 miliardi euro rispetto ai valori attuali. Il gap più alto d’Europa insieme alle francesi Société Générale (13 miliardi) e Bnp paribas (10 miliardi).
Questi numeri dicono anche che il gruppo tedesco prende molti soldi a prestito con varie modalità. Una condizione che solleva un altro problema: le fortissime ed estese interconnessioni che la banca tedesca ha in essere con tutte le altre principali banche e istituzioni finanziarie del mondo che ne fanno uno dei soggetti che presenta il più elevato rischio sistemico al mondo. In altri termini è la banca la cui ipotetica bancarotta avrebbe le conseguenze più devastanti per il sistema finanziario mondiale,come ha sottolineato anche il Fondo monetario internazionalelo scorso giugno. Posta al centro del sistema finanziario tedesco, Deutsche Bank ha strette connessioni con i colossi assicurativi AllianzMunich ReHannover Re e con tutto il sistema bancario teutonico. Ma il problema va ben oltre i confini nazionali. Tutti i big della finanza sono più o meno strettamente connessi con la banca tedesca, a cominciare da HSBCBarclaysUbs, Credit Agricole, Bnp Paribas e Unicredit. Difficile quindi che qualcuno non si muova qualora la situazione degeneri. A Berlino i soldi per fronteggiare l’emergenza non mancano, ma un intervento pubblico farebbe scattare la nuova regolamentazione sui salvataggi bancari (bail in) coinvolgendo quindi anche azionisti,obbligazionisti e correntisti con più di 100mila euro sul conto. La buona notizia è solo che, a differenza ad esempio di Mps, i bond subordinati (i primi ad essere aggrediti in caso di salvataggio) sono collocati in prevalentemente presso investitori istituzionali.
L’emergenza Deutsche Bank ha posto un po’ in secondo piano quello che sta accadendo all’altra grande banca tedesca,Commerzbank, a sua volte alle prese con una complessa ristrutturazione che le permetta di ritrovare redditività ed utili. Ieri Commerzbank ha annunciato il taglio di quasi 10mila posti di lavoro e lo stop all’erogazione di dividendi. Il terzo trimestre dovrebbe infatti chiudersi con una perdita. La banca, che presenta un rischio sistemico decisamente più contenuto rispetto a Deustche Bank, non si è mai pienamente ripresa dalla crisi del 2008, superata solo grazie a un importante sostegno pubblico. Tra i fattori di preoccupazione c’è anche l’esposizione nei confronti del mondo del trasporto delle merci marittime, in grave difficoltà come ha dimostrato la recente bancarotta della sudcoreana Hanjin. Commerzbank ha chiuso questo business nel 2012, ma avrebbe ancora a bilancio prestiti verso il settore per circa 8 miliardi di euro.

mercoledì 14 settembre 2016

Referendum, gli apocalittici che mettono in guardia contro il No: da Confindustria a Goldman Sachs, da Fitch a Marchionne. - Marco Pasciuti

Referendum, gli apocalittici che mettono in guardia contro il No: da Confindustria a Goldman Sachs, da Fitch a Marchionne

L'endorsement sul referendum costituzionale firmato dall'ambasciatore Usa in Italia, John Phillips, sorprende ma non troppo: numi tutelari della politica e vertici della finanza nostrana e mondiale si sono a più riprese espressi a favore delle riforme del governo Renzi. Il più delle volte con toni da day after, prefigurando 'caos politico', recessione e tracolli dell'occupazione.

In principio fu Jp Morgan. Hanno costituzioni “influenzate da idee socialiste”, “esecutivi deboli”, tutele dei diritti dei lavoratori”, ma anche “la licenza di protestare contro modifiche sgradite dello status quo”, si legge in un report di 16 pagine, datato 28 maggio 2013. La banca d’affari annoverata tra le protagoniste della finanza creativa, e quindi della crisi dei subprime che dal 2008 ha inceppato l’economia mondiale, giudicava così i “sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni”, definendole “inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”. In questo contesto l’endorsement sul referendum costituzionale firmato dall’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia,John Phillips, sorprende ma non troppo: numi tutelari della politica e vertici della finanza nostrana e mondiale si sono a più riprese espressi a favore di riforme di respiro liberista come quelle del governo Renzi.
I toni si fanno spesso apocalittici, degni del più cupo dei day after gli scenari prefigurati in caso di fallimento: la vittoria del “No” al referendum, rilevava il 1° luglio l’ufficio studi di Confindustria, causerebbe un “caos politico” e lo scenario economico interno “sarebbe caratterizzato da cinque eventi ciascuno dei quali foriero di recessione“. Tradotto in numeri: “L’effetto complessivo della vittoria del “No” è stato quantificato per il triennio 2017-2019: il Pil cala dello 0,7% nel 2017 e dell’1,2% nel 2018, salendo dello 0,2%nel 2019. In totale si riduce dell’1,7%“. E il Pil pro capite, “una misura di benessere, calerebbe di 589 euro. Ciò porterebbe a un aumento di 430mila persone in condizione di povertà“. Senza contare la perdita di posti di lavoro: “L’occupazione diminuisce complessivamente di 258mila unità, mentre altrimenti salirebbe di 319mila”. “Noi siamo per il sì – ribadiva quindi il 20 luglio al Meeting di Rimini il presidente Vincenzo Boccia, eletto il 25 maggio – perché riteniamo che la governabilità e la stabilità siano la precondizione per una politica economica di lungo termine”.
Apocalittici anche i toni usati da Fitch, che esprimeva il proprio parere nelle stesse ore in cui Phillips spiegava che una vittoria del “No” sarebbe un “passo indietro” per attrarre gli investimenti stranieri in Italia: “Ogni turbolenza politica o problemi nel settore bancario – ha spiegato il responsabile rating sovrani per Europa Medio Oriente Edward Parker – che si possano ripercuotere sull’economia reale o sul debito pubblico, potrebbe portare a un intervento negativo sul rating dell’Italia. Se ci fosse un voto per il No, lo vedremmo come uno shock negativo per l’economia e il merito di credito italiano”. Più o meno lo scenario delineato anche da Goldman Sachsche in un rapporto di 14 pagine mette in rilievo i rischi che un fallimento del referendum comporterebbe per le banche: “Una fase di turbolenza politica e uno stop al percorso riformista ridurrebbe le probabilità di arrivare a una soluzione di mercato per le banche in difficoltà, aumentando per contro quelle di un intervento del governo”.
Lassù, tra le nubi che circondano i resti di quello che fu Olimpo della grande industria italiana, le riforme piacciono anche a Sergio Marchionne, che con Matteo Renzi ha dimostrato di avere un feeling particolare: “Quello che interessa a noi come azienda è la stabilità del sistema”, spiegava il 27 agosto a margine di un convegno alla Luiss l’amministratore delegato di Fca, dicendosi ”a livello personale per il sì” al referendum. ”Non voglio – tentava quindi un distinguo – prendere una posizione. Ma personalmente condivido alcune delle scelte che sono state fatte per cercare di alleggerire il costo di gestione di questo Paese. Non voglio giudicare se la soluzione è perfetta, ma è una mossa che va nella direzione giusta”.
Più in basso, nella Castalia della politica nostrana, il nome che spicca per qualità e quantità degli interventi in favore delle riforme è quello di Giorgio Napolitano: “Sosterrò la conferma della legge di riforma approvata dal Parlamento e mi auguro che le opposte parti politiche si confrontino sul referendum nella sua oggettività”, rompeva gli indugi il presidente emerito in un’intervista al Corriere della Sera il 6 gennaio, per poi esprimere il 5 luglio un invito direttamente agli italiani: “Auspico che la stragrande maggioranza dei cittadini non faccia finire nel nulla gli sforzi messi in atto in questi due anni in Parlamento”, fino all’ultimo appello, datato 10 settembre: “Bocciare la revisione della Carta sarebbe un’occasione mancata“. Difficile, comunque, quantificare le occasioni in cui l’ex capo dello Stato ha sponsorizzato le riforme firmate da Maria Elena Boschi, ampiamente ricambiato con l’iscrizione a caratteri cubitali (secondo i maligni, un epitaffio) che il premier ha scolpito loro in calce: “Portano la sua firma“. Con tutte le conseguenze che in termini di giudizio storico da questa affermazione potrebbero discendere.
Per un certo periodo, più o meno corrispondente alla durata del patto del Nazareno, le riforme hanno riscosso successo anche negli ambienti berlusconiani: “In un Paese che ha bisogno di riforme – argomentava il 2 luglio 2014 Pier Silvio Berlusconi, vicepresidente di Mediaset, alla presentazione dei palinsesti autunnali – come italiano e come imprenditore io tifo per Renzi, e chi non lo farebbe con chi ha preso il 40% (alle elezioni europee di quell’anno, ndr)? Abbiamo bisogno innanzitutto di stabilità e in secondo luogo di riforme che facciano ripartire l’economia“. Perché è “indispensabile” intervenire su “giustizia, lavoro, tasse”. Poi però, sottolineava il delfino, “è importante vedere come sono le riforme, perché vanno fatte bene, e con chi si fanno”. Renzi le avrebbe fatte con suo padre Silvio, fino a che quest’ultimo, scottato dall’inversione a “U” fatta dal premier in occasione dell’elezione di Sergio Mattarella al Colle, non aveva fatto crollare il patto. Passando quindi l’ideale staffetta a Denis Verdini. Ma questa è un’altra storia.
La lista degli insospettabili tifosi delle riforme arriva fino a Jyrki Katainen, implacabile fustigatore delle mollezze amministrative di Atene. Il 15 gennaio 2015, nella prima tappa a Roma del suo tour per lanciare il fondo Juncker per gli investimenti, il vicepresidente della Commissione europea parlava di un “programma di riforme coraggioso”, promuovendo a pieno voti il Jobs Act: “Aiuterà soprattutto i giovani a trovare un impiego”, assicurava il falco finlandese la cui affabilità nei confronti di un’Italia che chiedeva flessibilità era giustificata dalla necessità di Bruxelles di dare un segnale di distensione a quei Paesi che rischiavano di essere attratti come mosche dal miele dalle ricette greche di Syriza. Che prometteva ai greci, prima di auto-normalizzarsi, un’Unione Europea meno ostaggio del partito dell’austerity.

venerdì 15 gennaio 2016

Goldman Sachs, maxi-patteggiamento sui mutui: 5,1 miliardi per chiudere le cause.

Goldman Sachs, maxi-patteggiamento sui mutui: 5,1 miliardi per chiudere le cause

Raggiunto l'accordo con il Dipartimento di Giustizia, i procuratori degli stati di New York e Illinois, la National Credit Union Administration, e le Federal Home Loans Banks di Chicago e Seattle. L'intesa si aggiunge a quelle già raggiunte dalle autorità americane con JPMorgan, Bank of America e Citigroup. 

Goldman Sachs tenta di lasciarsi alle spalle uno dei maggiori problemi legali della crisi con un maxi-patteggiamento. La banca guidata da Lloyd Blankfein paga 5,1 miliardi di dollari, di cui 2,5 di sanzione civile per risolvere la disputa con le autorità americane sui Residential Mortgage Backed Security, i titoli legati ai mutui.
Goldman ha raggiunto un accordo con il Dipartimento di Giustizia, i procuratori degli stati di New York e Illinois, la National Credit Union Administration, e le Federal Home Loans Banks di Chicago e Seattle. Oltre alla sanzione, la banca pagherà 875 milioni di dollari in contanti e si impegna a restituire 1,8 miliardi di dollari ai consumatori tramite vari programmi. Il patteggiamento peserà sui conti del trimestre per 1,5 miliardi di dollari dopo le tasse.
“Siamo soddisfatti di aver risolto un accordo di principio per risolvere il problema”, afferma Blankfein. Secondo l’analista di Autonomous ResearchGuy Moszkowski, il patteggiamento è più elevato degli attesi 1,3 miliardi di dollari. Ma Goldman Sachs ha accantonato – mette in evidenza Moszkowski – più di 2 miliardi di dollari negli ultimi trimestri e gli 1,8 miliardi di dollari per i consumatori non sono in contanti.
Il patteggiamento miliardario con Goldmans Sachs si aggiunge a quelli già raggiunti dalle autorità americane con JPMorgan, Bank of America e Citigroup, nell’ambito delle indagini legate su come le banche hanno venduto titoli legati ai mutui. JPMorgan ha pagato 13 miliardi di dollari, Citigroup 7 miliardi di dollari. Il patteggiamento più pesante è stato quello di Bank of America, che ha versato 17 miliardi di dollari.
Ma i soldi, materialmente, chi li esce?
Alla fine, conoscendo la politica economica statunitense, verranno spalmati con l'emissione di altri titoli spazzatura da smerciare in borsa ai fessacchiotti di turno?
Dobbiamo aspettarci un'ulteriore botta alla già devastante crisi economica mondiale provocata dai sub prime??

sabato 27 aprile 2013

PROFILO DI ENRICO LETTA, ALIAS MONTI JUNIOR - ANDREA ALIPRANDI




“Io ce la metterò tutta perché gli italiani non ce la fanno più dei giochetti della politica.”
Enrico Letta.
Al di là del volto pulito, dei 47 anni ben portati e dei modi più o meno galanti di Enrico Letta, è bene conoscere alcune cose sul suo passato recente e remoto, per capire che cosa ci riserva il futuro.

Posizioni politiche ed economiche:

Appoggio incondizionato a Napolitano-Monti, suoi compagni nella loggia segreta (“mega-P2 globale”) Gruppo Bilderberg e nella loggia semi-segreta e super-esclusiva creata da Rockefeller: la Commissione Trilaterale;

Euro sì. Morire per Maastricht, titolo e sottotitolo del suo libro edito da Laterza (  http://www.ibs.it/code/9788842052487/letta-enrico/euro-si-morire.html); Letta dunque è un eurocrate di lunga data, peraltro poco lungimirante, non avendo avvertito i pericoli dell’area euro; curiosamente, il “giovane” eurocrate Letta ha “trascorso parte dell'infanzia a Strasburgo   http://it.wikipedia.org/wiki/Strasburgo dove frequenta la scuola dell'obbligo  http://it.wikipedia.org/wiki/Scuola_dell%27obbligo” (dalla sua pagina di Wikipedia);

Pro austerity di Monti. Letta dice, il 9 ottobre 2012: “Noi abbiamo voluto per primi Monti, caricandoci anche responsabilità non nostre. Noi rivendichiamo la giustezza di quella scelta. La  condivisione profonda di quanto è stato compiuto e la necessità di   una continuità programmatica nel prossimo governo è sancita, peraltro, dalle conclusioni della Carta d’intenti, ribadite e votate   dall’Assemblea di sabato all’unanimità” (http://www.liberoquotidiano.it/news/1094581/Nel-Pd-volano-stracci--Fassina-Monti-%C3%A8-da-rottamare--Letta-%C3%A8-in-contrasto-col-partito.html ); 

 Chi critica l’austerity di Monti è cattivo. Per Letta, Fassina con le sue critiche a Monti, compagno di merende di Letta nel Bilderberg e nella Trilaterale, “ha passato il segno” ( http://www.liberoquotidiano.it/news/1094581/Nel-Pd-volano-stracci--Fassina-Monti-%C3%A8-da-rottamare--Letta-%C3%A8-in-contrasto-col-partito.html ); poco importa se oggi Letta si dichiara contrario all’austerity: ha già ampiamente dimostrato di essere ondivago e poco lungimirante.

La nomina di Mario Monti è stata “un miracolo” (v. sotto, sezione “Amicizie e parentele”, voce Monti);

-  Goldman Sachs è coraggiosa. “Goldman Sachs” “sembra avere più coraggio e lucidità di analisi” rispetto a  “tanti rappresentanti dei poteri economici italiani che paiono timorosi nei confronti di una prospettiva di centrosinistra” (  http://www.asca.it/news-Pd__E_Letta__da_Goldman_Sachs_conferma_di_vocazione_europeista-1199195-POL.html ); NB: Mario Monti e lo zio Gianni Letta sono consiglieri per conto della Goldman Sachs. Goldman Sachs, la più grande banca d’affari statunitense (e del mondo), già nel 2007 è stata al centro di una inchiesta della Procura di Pescara per una frode al fisco per almeno 202 milioni di euro (  http://espresso.repubblica.it/dettaglio/banche-daffari-e-di-truffe/1629089; http://www.adusbef.it/consultazione.asp?Id=5770& http://www.adusbef.it/consultazione.asp?Id=5770& ). Goldman Sachs è ritenuta corresponsabile della crisi greca ed è stata additata come responsabile del crollo della lira agli inizi degli anni ’90, “dapprima annunciandone la sopravvalutazione ed indicando nel livello di 1000 lire al marco il tasso di cambio che essa riteneva realistico, poi buttandosi a vendere lire per contribuire a ottenere quel risultato.” (http://www.movisol.org/draghi4.htm)

-  Privatizzazioni selvagge. Privatizzare tutto. Pro bono della Goldman Sachs. Letta annuncia: “È arrivato il momento di cominciare a parlare di privatizzazioni. Penso a Poste, Ferrovie, Eni, Enel, Finmeccanica e alle 20 mila aziende partecipate degli enti locali” (http://vocialvento.com/2011/07/12/i-repubblichini/ ); anche in questo senso le privatizzazioni di Letta saranno in continuità con i metodi del suo maestro Andreatta e del suo idolo Monti (consigliere per la Goldman), a favore di Goldman Sachs, in combutta con lo zio Gianni e quindi in pieno conflitto di interessi ( http://affaritaliani.libero.it/economia/privatizzazioni-il-tesoro-sceglie-goldman-sachs-e-soc-generale-valutazione-quote.html ); in caso di uscita dell’Italia dall’euro, con la conseguente svalutazione, e tramite il suo funzionario Letta, Goldman Sachs potrà acquisire i gioielli nazionali a prezzo molto ribassato. Il sogno di privatizzare l’Enel e altri gioielli nazionali, in parte realizzato, era già di Andreatta (http://www.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1993/03/13/Altro/PRIVATIZZAZIONI-ANDREATTA-2_184900.php).

-  Affidare a Goldman Sachs la valutazione delle partecipazioni statali ad aziende per vedersi ridurre poi drasticamente i bond italiani che aveva in portafoglio. Questo infatti è accaduto con il governo Monti: lui ha affiodato a GS le valutazioni su “Fintecna, Sace e Simest in vista della cessione alla Cdp” e GS ha ridotto del 92% i bond italiani che aveva in portafoglio,” portandoli da 2 miliardi di euro a una misera quota di 155,2 milioni di euro. In pratica, le collusioni di Monti con Goldman Sachs sono controproducenti da ogni punto di vista e anche in prospettiva futura, perché invia un fortissimo segnale di sfiducia agli investitori. Lo stesso, si deve presumere, avverrà con il prossimo governo Napolitano-Letta  (http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-08-09/doccia-fredda-goldman-sachs-160710.shtml?uuid=Abtzo0LG ). Del resto appare chiaro a cosa potrebbero essere mirate quelle riduzioni di portafoglio: a una svalutazione di tutto il patrimonio industriale nazionale, che poi verrà acquistato dalla a prezzi di favore dalla stessa Goldman Sachs.

Smembrare l’ENI. “Terna e Snam Rete Gas scorporata da Eni”: smembrare l’ENI e quindi privatizzarla togliendoci il controllo sulle autentiche fonti di approvvigionamento del gas, utili alla NATO nell’ambito di una strategia di indebolimento della Gazprom e quindi della Federazione Russa, che collaborano strettamente con ENI ( http://vocialvento.com/2011/07/12/i-repubblichini/ ); anche questa operazione sarà probabilmente un bel regalo a Goldman Sachs; lo smembramento e la privatizzazione dell’ENI seguirà il precedente dello smembramento e privatizzazione dell’IRI operata tramite l’intervento di Andreatta, il mentore di Letta. Tramite l’accordo con l’eurocrate Van Miert siglato nel 1993, Andreatta diede il via allo smantellamento dell'IRI, che dai tempi di Mattei era un complesso di aziende statali (regno per lo più di monopoli naturali) fra i più grandi al mondo, che ci era invidiato all'estero “perché era in grado di fare tutto, e moltiplicava ogni lira investita per sei-sette volte” (http://www.movisol.org/draghi4.htm ).

-  Una delle poche iniziative promosse Letta diverse dal duetto austerity/privatizzazioni – ma patrocinata dai soliti Monti e da Goldman Sachs, evidentemente per i profitti che potrà trarne avendoli in gestione – è quella degli “euro project bond quale possibile pilastro della strategia di rilancio della crescita", sostiene Letta. Però questa soluzione è controversa e di difficile applicazione. Contro gli Eurobond si è espresso anche Mario Draghi, secondo il quale non risolverebbero i problemi strutturali di fondo dei singoli paesi, oltre  a introdurre problemi di natura giuridica dovuti alla necessità di modificare i trattati ( http://www.libertiamo.it/2010/12/17/eurobond-il-dado-e-tratto/ ).

  Principali appartenenze e affiliazioni:

-  Loggia segreta (“mega-P2 globale”) Gruppo Bilderberg, cui ha partecipato nel 2012; fra i pochissimi personaggi italiani che vi appartengono:Mario Monti, membro del suo consiglio direttivo;

-  Loggia semi-segreta e super-esclusiva Commissione Trilaterale, creata da Rockefeller; fra i pochissimi politici italiani che vi appartengono, oltre a Vittorio Grilli, i due compagni di Letta, Giorgio Napolitano e Mario Monti;

-  Loggia esclusiva “a porte chiuse” Aspen Institute, come recita il loro sito, «Il “metodo Aspen” privilegia il confronto ed il dibattito “a porte chiuse”.» Membri del suo comitato esecutivo italiano, guarda caso, sono, oltre a Enrico e Gianni Letta, Monti, Amato e vari altri; Napolitano non ha mancato di partecipare alle loro iniziative;

-  Goldman Sachs, la più grande banca d’affari del mondo (http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2012/9/22/26536-la-goldman-sachs-vota-per-il-pd/; vedi anche sotto, voce zio Gianni Letta);

-  Dal 1990 collabora con “l’Arel, Agenzia per le Ricerche e le Legislazioni fondata da Nino Andreatta, il più ultraliberista tra i ministri e gli economisti democristiani,” (... http://www.contropiano.org/news-politica/item/16124). Dal 1993 è segretario generale dell’Arel. Andreatta nel 1993 dichiarava quella delle privatizzazioni un’“emergenza nazionale” (http://archiviostorico.corriere.it/1993/marzo/03/Andreatta_privatizzare_emergenza_nazionale_co_0_9303039062.shtml ); conosciamo bene le dichiarazioni di Letta a favore delle privatizzazioni: è probabile dunque che anche con Letta le privatizzazioni diverranno emergenza nazionale, a vantaggio (solo provvisorio) del bilancio e di Goldman Sachs.

-  Fondatore del think tank bipartisan Vedrò, che vede fra i numerosi partecipanti l’amico di Monti Corrado Passera, Gianluca Comin, dell’Enel, ed Enrica Minozzi, dell’Eni, due aziende che Letta vuole smembrare e privatizzare ( http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/04/24/perche-hanno-scelto-il-giovane-enrico/ ).

-  PD. “Il Pd si candida ad essere il country party, il partito dell’Italia” ( http://vocialvento.com/2011/07/12/i-repubblichini/ ).

  Amicizie privilegiate e parentele:

-   Napolitano, membro, come Letta, della Trilateral Commission e dell’Aspen Institute, e amico degli amici. In fondo è lui che ha appena nominato Presidente del Consiglio il suo compagno di logge Letta. -  Mario Monti, il Barone. Monti ha dunque come suo successore il suo compagno di logge ed estimatore Letta. Degno di nota è il cosiddetto “pizzino” di Letta a Monti – suo compagno di associazioni segrete ed esclusive quali il Bilderberg e la Trilateral Commission, e con interessi comuni in Goldman Sachs – un biglietto scambiato in Parlamento, la cui foto, assolutamente autentica, è stata pubblicata dal “Corriere della Sera” il 18 novembre 2011: «Mario, [si notino la confidenzialità e l’informalità, N.d.R.] quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Sia ufficialmente (Bersani mi chiede per es. di interagire sulla questione dei vice) sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!» ( http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2011/11/18/pop_monti-foglio.shtml ); In altre parole: Mario Monti ha ricevuto l’incarico il 16 novembre 2011; subito dopo l’incarico Letta, che lo chiama “Mario” (in amicizia) gli dà il suo appoggio, “sia ufficialmente”, sia “riservatamente” (parola sottolineata da Letta; leggasi: in segreto); poi grida al miracolo per l’incarico al suo amichetto Monti della Trilaterale/Bilderberg/Aspen. Curiosità: nella parte finale della lettera, Letta scrive di aver “tenuto” – contatti? – con Stefano Grassi]. Il riferimento non è facilmente decifrabile ma potrebbe essere a Stefano Grassi, consigliere di Mario Monti, che ha frequentato la stessa università di Letta, conseguendo anch’egli un dottorato di ricerca in diritto presso la Scuola Superiore S. Anna di Pisa e che condivide con Letta attività nell’ambito di istituzioni della Comunità Europea. Mesi fa era scoppiato un mini-scandalo perché Monti avrebbe chiesto il distaccamento di Grassi, in qualità di consigliere per le politiche comunitarie e per le riforme economiche pagato dalla Comunità Europea (con i nostri soldi), per farlo lavorare al suo fianco nella Lista Monti.

Beniamino Andreatta (1928-2007), il Guru delle Svendite. Economista democristiano ultraliberista, che già favorì la carriera universitaria del suo portaborse Prodi, è stato un vero mentore per Letta. Fra i suoi principali insegnamenti, la ricetta dello spezzatino. Lo spezzatino di colossi industriali nazionali, come l’IRI, che ora Letta vuole applicare a Finmeccanica, ENI eccetera. Andreatta “nel 1992 annunciò che per rientrare dal debito pubblico occorreva “ridurre il reddito delle famiglie italiane di almeno 5milioni di lire””. Andreatta, secondo alcune fonti, sarebbe stato presente sul panfilo Britannia il 2 giugno 1992 nella presunta trattativa segreta fra oligarchi angloamericani (dicesi anche: l’ubiquitaria Goldman Sachs) e membri della classe dirigente italiana per la privatizzazione e la svendita del patrimonio industriale italiano ( http://www.movisol.org/draghi4.htm ). Esistono fonti che suggeriscono che Andreatta avesse come obiettivo la svendita integrale di tutte le quote statali di tutti i patrimoni pubblici. Andreatta, in qualità di neo-ministro degli esteri, accolse subito entusiasticamente la proposta britannica di mandare gli eserciti in Bosnia ( http://www.movisol.org/draghi4.htm ).

Gianni Letta, lo Zio. Che il caso Letta sia un possibile caso di nepotismo (secondo varie possibili forme di favoritismo) è sotto gli occhi di tutti, ma in queste circostanze è il minore dei mali. Più problematiche sono le affiliazioni dello zio. Dal 18 giugno http://it.wikipedia.org/wiki/18_giugno 2007http://it.wikipedia.org/wiki/2007 Gianni Letta è “membro dell'advisory board di Goldman Sachs International http://it.wikipedia.org/wiki/Goldman_Sachscon compiti di consulenza strategica per le opportunità di sviluppo degli affari, con focus particolare sull'Italia” ( http://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Letta ). Si noti che un ruolo analogo è stato (è?) rivestito anche da Monti, il compagno di merende di Enrico Letta – che con lui frequenta il Bilderberg e la Trilaterale. 

-  Pierluigi Bersani, l’amico che non vende più. Bersani, compagno di partito, e coautore di libri con Enrico Letta, nel 1992-1993, ha avuto un ruolo nelle vendite delle industrie di Stato e si è attirato critiche per certi versi simili a quelle che colpivano Andreatta, in merito all’abulia circa le svendite di gioielli industriali italiani. Nerio Nesi, su “Liberazione”, accusò l’allora ministro Bersani accomunandolo ai "bravi funzionari del Tesoro", di cultura monetarista, capaci solo di "vendere e svendere": "È possibile che il responsabile dell'Industria non abbia alcunché da dire sul futuro del secondo gruppo manifatturiero italiano? Faccia sentire la sua voce" (http://archiviostorico.corriere.it/1997/aprile/28/Caso_Fabiani_Andreatta_contro_Iri_co_0_9704287286.shtml ). Tuttavia, Bersani il 14 febbraio 2013, pur essendosi dichiarato possibilista su una futura vendita di Finmeccanica, ha anche negato recisamente questa possibilità nel breve periodo, definendola “pazzesca” e quindi assumendo una posizione diametralmente opposta a quella di Letta. Evidentemente questo è uno dei motivi che l’hanno reso persona non grata ai poteri superforti, e quindi a Napolitano che non gli ha concesso incarichi ( http://it.reuters.com/article/topNews/idITMIE91D00920130214 ).

-  In sintesi, come lo ha definito L. Pistelli, Enrico Letta è “l’Amato del 2000” perché “è dentro tutti i giochi” (. http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/04/24/perche-hanno-scelto-il-giovane-enrico/ ).  

Conclusioni

Il problema non è tanto che Letta sarebbe il responsabile di un governo di larghe intese
. Per quanto molti lo ritengano scandaloso, un governo di larghe intese sarebbe pur sempre una situazione migliore di quella reale, perché un inciucio alla luce del sole sarà pur sempre inciucio, ma è meglio di un inciucio segreto; in altri tempi lo si sarebbe chiamato compromesso storico – non che si possano fare paragoni con quello degli anni Settanta, che peraltro vedeva protagonista una classe dirigente di caratura infinitamente superiore a questa. Questa classe che, probabilmente non sapendo quello che ha fatto, con la rielezione di Napolitano ha compiuto il peccato originale dei prossimi sette anni.
Davvero sono stati così ingenui da credere che votando Napolitano avrebbero avuto in cambio qualcosa? Proprio quel Napolitano che “lavorava da tempo” alla sua rielezione, come afferma il deputato del PD Sandro Gozi ( http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/prodiani-allo-scoperto-contro-re-giorgio-lavorava-da-tempo-a-rielezione-54793.htm ).
Ben difficilmente i membri del PD e del PDL otterranno qualcosa, né per sé né per il Paese. Infatti:

-  un vero governo di larghe intese probabilmente non ci sarà, eccettuate le intese su questioni secondarie e sul salvataggio di qualche gruppetto di politici da guai giudiziari. Saranno grandi intese di facciata. Le vere intese, quelle sulle questioni fondamentali, saranno prerogativa dei soli compagni di merende di Letta Junior: Letta Senior, Monti, Napolitano, la direzione della Goldman Sachs e della Trilateral Commission e gli altri poteri superforti dietro a questo gruppo.

-  Letta è il rappresentante di un Governo Monti 2, per l’austerity, per le privatizzazioni, per lo smembramento e la svendita dei gioielli nazionali, come nel ’92-’94.

-  Letta, fino a prova contraria, è Monti Junior, e potrà presto trasformarsi in Andreatta Junior. Questo è espresso per l’ennesima volta a chiare lettere dallo stesso Letta:
“È chiaro – a chi è dotato di buon senso e responsabilità – che qualunque primo ministro si candidi a succedere a Monti dovrà farlo in continuità con Monti stesso.” (9 ottobre 2012, sito di Enrico Letta). Tutto ciò rende assolutamente non credibili i tranquillizzanti proclami dell’ultima ora di Letta contro l’austerità, diffusi anche dal “Financial Times”.

Dunque, Letta, fino a prova contraria, deve essere considerato un nemico del patrimonio pubblico italiano. In altri termini, un nemico della Repubblica.


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