Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
domenica 6 ottobre 2024
UNA CIVILTÀ SCOMPARSA 30.000 ANNI FA.
giovedì 8 agosto 2024
UNA CIVILTÀ SCOMPARSA 30.000 ANNI FA..
https://www.facebook.com/photo/?fbid=1021423589374296&set=a.976305563886099
martedì 6 agosto 2024
La Mesopotamia, spesso chiamata "Culla della civiltà". - Bobby Howe
La Mesopotamia, spesso chiamata "Culla della civiltà", è una regione storica tra i fiumi Tigri ed Eufrate, principalmente nell'attuale Iraq. Quest'area è significativa per numerosi motivi, tra cui i suoi primi progressi in agricoltura, scrittura, governance e urbanizzazione, che hanno gettato le basi per le civiltà future.
martedì 16 luglio 2024
Il Paradosso di Fermi: Siamo Soli Nell’Universo?
Con 200 miliardi di trilioni di stelle nell’universo e 13,7 miliardi di anni trascorsi dall’inizio di tutto, ci si potrebbe chiedere dove siano tutte le civiltà aliene. Questa è la domanda fondamentale dietro al paradosso di Fermi, che rappresenta la discrepanza tra le nostre aspettative sulla presenza di vita nell’universo, considerando i pianeti nelle zone abitabili, e il fatto che finora abbiamo individuato solo un pianeta con una specie intelligente che lo abita.
Esistono diverse teorie proposte per spiegare questo paradosso, che vanno dal concetto di uno zoo galattico in cui le civiltà aliene ci osservano senza farsi notare, fino all’ipotesi di grandi filtri che ostacolano lo sviluppo della vita in varie fasi. Un nuovo studio ha esaminato il paradosso da una prospettiva innovativa, suggerendo che la spiegazione più semplice potrebbe essere che siamo, per la maggior parte o addirittura interamente, l’unica civiltà intelligente nella nostra galassia.
L’articolo inizia con un esperimento mentale proposto dal fisico Edwin Jaynes nel 1968. Immagina di entrare in un laboratorio e trovare una serie di grandi beute piene d’acqua, in cui verserai una sostanza X per verificarne la solubilità. In un tale contesto, ci si aspetterebbe che la sostanza si sciolga quasi sempre al 100% o quasi mai. Questo scenario evidenzia l’importanza delle condizioni ottimali per un risultato specifico.
Applicando lo stesso ragionamento alla ricerca di vita e civiltà aliene, il team di ricerca ha considerato un insieme di pianeti simili alla Terra nell’universo, con caratteristiche simili in termini di gravità, composizione, inventario chimico e condizioni climatiche. Anche se piccole variazioni esistono inevitabilmente nello spazio, ci si aspetterebbe ragionevolmente che la vita emerga quasi sempre in tali condizioni, o quasi mai, evitando risultati intermedi che suggerirebbero un’artificiosità nell’emergere della vita.
Il primo autore dell’articolo, David Kipping, sottolinea che non possiamo usare la nostra stessa esistenza come prova che le civiltà aliene abbondino nell’universo. Potremmo semplicemente trovarci in uno dei rari mondi in cui la vita è emersa. Tuttavia, le ricerche hanno finora fornito poche evidenze di civiltà aliene avanzate, con tutti i presunti segni di tecnologie extraterrestri che si sono rivelati essere fenomeni naturali.
Il team di ricerca ha utilizzato un’Equazione di Drake modificata per valutare la presenza di civiltà aliene nella galassia, giungendo alla conclusione che la vita intelligente potrebbe emergere raramente, ma diffondersi rapidamente quando lo fa, seguendo il concetto degli “alieni affamati”. Questo scenario suggerisce che la maggior parte delle regioni dell’universo potrebbe essere già colonizzata da civiltà aliene, spiegando perché non rileviamo segni evidenti di tali civiltà nella nostra vicinanza.
Il team propone un’inversione della prospettiva tradizionale del SETI, suggerendo di concentrarsi su regioni molto distanti da noi per individuare eventuali segni di civiltà extraterrestri. Questa ipotesi, in linea di principio, potrebbe essere verificata tramite il SETI extragalattico, offrendo una nuova prospettiva nella ricerca di vita intelligente nell’universo.
L’articolo, ancora in attesa di revisione paritaria, è stato pubblicato sul server di pre-stampa arXiv, offrendo un contributo significativo alla comprensione del paradosso di Fermi e delle possibili spiegazioni sulla presenza di civiltà aliene nella nostra galassia.
Links:
Un nuovo studio esplora il paradosso di Fermi suggerendo che potremmo essere l’unica civiltà intelligente nella galassia. L’approccio innovativo propone una ricerca extragalattica per risolvere il mistero.
Ultime notizie: scoperte sorprendenti a Karahan Tepe suggeriscono un'altra antica civiltà aliena.
Karahan Tepe, situata vicino al famoso Göbekli Tepe, è famosa per le sue monumentali strutture in pietra e le intricate incisioni risalenti a migliaia di anni fa. Come il suo vicino, Göbekli Tepe, Karahan Tepe fu costruito da una società sofisticata che prosperò durante il periodo neolitico, dimostrando capacità architettoniche avanzate e una profonda connessione spirituale con il cosmo.
Tuttavia, ciò che distingue Karahan Tepe sono le recenti scoperte che suggeriscono una connessione con antiche civiltà extraterrestri. Archeologi e ricercatori hanno scoperto manufatti e incisioni raffiguranti figure umanoidi con teste allungate, occhi a mandorla e altre caratteristiche che ricordano le raffigurazioni popolari di extraterrestri. Queste enigmatiche incisioni hanno scatenato intense speculazioni e dibattiti all'interno della comunità scientifica, sollevando interrogativi sulle vere origini e sullo scopo di queste antiche opere d'arte.
Alcuni esperti sostengono che le figure umanoidi di Karahan Tepe potrebbero rappresentare i primi tentativi da parte di antiche civiltà di rappresentare esseri spirituali o mitologici, forse simboleggianti divinità o entità celesti adorate dalle persone di quel tempo. Suggeriscono che le incisioni potrebbero essere espressioni di credenze religiose o rituali destinati a connettersi con regni superiori.
D'altra parte, i sostenitori dell'antica teoria extraterrestre sottolineano le sorprendenti somiglianze tra le incisioni di Karahan Tepe e le descrizioni moderne degli esseri extraterrestri. Propongono che queste incisioni possano rappresentare incontri o interazioni reali con visitatori provenienti da altri pianeti, sfidando le visioni tradizionali della storia antica e dell’evoluzione umana.
Le implicazioni di queste scoperte sono profonde. Se dimostrati veri, potrebbero riscrivere la nostra comprensione della civiltà umana e del suo posto nell’universo. Suggerirebbero che le culture antiche non solo possedevano conoscenze e tecnologie avanzate ben oltre la nostra attuale comprensione, ma avevano anche un contatto diretto con esseri provenienti da altri mondi, un’idea che da tempo cattura l’immaginazione di scienziati, storici e appassionati.
Naturalmente lo scetticismo abbonda, come è comune a qualsiasi affermazione straordinaria. I critici sostengono che l’interpretazione delle incisioni di Karahan Tepe come prova di antiche civiltà extraterrestri manca di prove concrete e potrebbe essere influenzata da credenze e pregiudizi culturali moderni. Sottolineano la necessità di un’analisi scientifica rigorosa e di ulteriori scavi archeologici per svelare il vero significato dietro questi misteriosi manufatti.
Mentre la ricerca a Karahan Tepe continua a svilupparsi, una cosa è certa: il sito rimane un puzzle allettante che promette di rivelare di più sul ricco arazzo della storia umana e sul nostro duraturo fascino per il cosmo. Sia che le incisioni rappresentino antichi rituali, credenze spirituali o incontri con visitatori extraterrestri, offrono una finestra sulle menti e sull'immaginazione dei nostri antenati, un'esplorazione dell'ignoto che continua ad affascinarci e ispirarci anche oggi.
giovedì 4 luglio 2024
La civiltà delle donne. - Franco Capone
Nelle culture più antiche le donne avevano un ruolo importante. E ancora oggi esistono società matriarcali. Come ci sono sempre state. Storia, fortune e sfortune dei matriarcati.
La prima scultura di forma umana che si conosca fu realizzata 35 mila anni fa. È un pendaglio di avorio di mammut, lungo appena 6 centimetri, ritrovato nella grotta di Hohle Fels, in Germania. La statuina scoperta nel 2008 rappresenta una donna grassa, con seni spropositati, natiche grandi e sporgenti e una vulva accentuata. Era con tutta probabilità una divinità femminile, da portare al collo.
Non solo: statue e statuette di donne abbondanti e gravide, simboli di rigenerazione e nutrimento, erano diffuse in tutto il Neolitico, il periodo in cui si imparò a coltivare le piante e ad allevare gli animali. A Çatal Hüyüc, in Turchia, erano per esempio oggetto di culto in uno dei primi grandi villaggi agricoli. E divinità femminili obese, che rappresentavano una dea madre, sono state trovate fra i megaliti di Malta, dove una civiltà realizzò templi utilizzando grandi blocchi di pietra, nel IV millennio a. C., 1500 anni prima che in Egitto si costruisse la piramide a gradoni di Saqqara.
A Malta venivano immagazzinate scorte alimentari in granai pubblici, inglobati nei templi, dove si svolgevano cerimonie per distribuire cibo in nome della dea. Il surplus alimentare consentiva il mantenimento di addetti alle opere pubbliche e di un corpo sacerdotale, costituito probabilmente da donne. Sacerdotesse che, come la dea madre, non dovevano avere corpi da “veline”, ma extralarge.
INSEDIAMENTI PACIFICI. Gli insediamenti megalitici non avevano fortificazioni, segno che la guerra era pressoché sconosciuta. E non si ritrovano solo a Malta, ma anche nelle attuali Gran Bretagna, Francia, Spagna, Italia e in località dell’Europa centro-orientale. L’antropologa Marija Gimbutas (1921-1994), in decine di campagne di scavo, raccolse segni a spirale, simboli femminili, e sculture di divinità femminili della fertilità. E anche statuine di “donne-civetta”, trovate in sepolture che non indicavano differenze sociali fra i defunti. Arrivando a una conclusione: nella vecchia Europa, e non solo, era esistita una grande civiltà precedente ai Sumeri e ai Greci. Una civiltà delle donne. Egualitaria, pacifica, che credeva in una dea madre.
UNA STORIA AL FEMMINILE. Già lo storico Johann Jacob Bachofen (1815-1887) aveva lanciato l’idea di un passato matriarcale dell’umanità.
Sosteneva che alcuni miti greci, da quello delle Amazzoni alla storia di Medusa (vedi foto sotto), non erano il frutto di problemi psicologici con l’altro sesso, ma il ricordo di conflitti sociali veri, che poi portarono al patriarcato, cioè al dominio del maschio sulla femmina. Insomma, Perseo che uccide Medusa elimina una antica matriarca, dipinta poi come mostro nel racconto mitico. Bachofen riteneva che la società patriarcale avesse vinto quando gli uomini si impossessarono del potere religioso riservato alle donne.
ETÀ DELL'ORO. La studiosa italiana Momolina Marconi (1912-2006) confermò l’ipotesi del matriarcato con l’idea che dalla Puglia alla Sardegna, alle coste africane e dell’Anatolia, fosse esistita una civiltà matriarcale, quella dei Pelasgi, che credeva in una Grande madre mediterranea. Un’età dell’oro, di bilanciamento fra i sessi. Ma questa fase matriarcale è stata spesso considerata un’utopia femminista, nonostante fosse stata ipotizzata anche dal filosofo ed economista Friedrich Engels (1820-1895) che ne spiegò la fine con la nascita della proprietà privata.
LE SOCIETÀ MATRIARCALI OGGI. Le cose negli ultimi anni sembrano essersi chiarite. Nel 2005 a San Marcos, in Texas (Usa), archeologi e antropologi da tutto il mondo si sono riuniti in un convegno di “studi matriarcali”, confrontando dati archeologici e osservazioni su alcune popolazioni attuali. Risultato: la civiltà megalitica del Neolitico era incentrata sulle donne. E decine di etnie risultano essere ancora oggi matriarcali. Per esempio, i Mosuo dello Yunnan cinese, i Bemba e i Lapula delle foreste dell’Africa centrale, gli indiani Cuna “isolati” al largo di Panamá o i Trobriandesi della Melanesia.
Fondamentale è uno studio sui Minangkabau di Sumatra, circa 4 milioni di persone. L’antropologa Peggy Reeves Sanday, dell’Università della Pennsylvania (Usa), ha trovato che i loro valori sono incentrati sulla cura, sui bisogni della comunità invece che sui principi patriarcali di “giustizia divina”, sacrifici e rigide prescrizioni sessuali dettate dall’alto. I valori di cura, i cerimoniali in onore dei cicli della natura e dono discendono da antenate mitiche divinizzate.
Il matriarcato, fra i Minangkabau come negli altri gruppi studiati, non è il semplice ribaltamento del patriarcato, cioè la dominazione opposta di un sesso sull’altro, ma una cultura di bilanciamento dei ruoli. Le spose restano a vivere nel villaggio della madre dove l’organizzazione e la cura dei figli si avvale degli uomini, ma questi sono in genere fratelli della sposa, zii e nonni.
MARITI PART-TIME. I mariti abitano invece nel villaggio materno, dove si occupano dei loro nipoti e dei campi.
Sono infatti “visitatori serali” della sposa e il mattino presto tornano nel villaggio materno. Il risultato di questa relazione part-time è che i bambini vengono accuditi dalla madre e dai parenti materni, e quasi mai è chiaro chi sia il padre naturale. Quella che conta è la paternità sociale, collettiva.
Inoltre, il matrimonio di un elemento del clan A con uno del clan B non è isolato, ma è parte di una serie di unioni. Così come fra il clan B e il C. Alla fine i clan sono composti quasi soltanto da parenti. Così ogni persona ha una parte dei suoi geni nei conoscenti dei clan e tutto l’interesse ad aiutarli.
L’antropologa Heide Göttner- Abendroth, dell’Accademia internazionale Hagia di Winzer (Germania), fondatrice dei moderni studi sul matriarcato, ne ha descritto le caratteristiche principali, presenti e passate. «Viene praticata in genere l’orticoltura o una agricoltura di autosostentamento» spiega. «Si vive nel villaggio materno prendendo il nome della madre e se ne ereditano i beni. Ci sono matrimoni di gruppo fra clan e relazioni coniugali basate sulla “visita”, con conseguente libertà sessuale dei partner».
I DONI BATTONO LE VENDITE. La proprietà privata è ridotta al minimo: terreni e animali appartengono al clan. Al posto dello scambio è presente l’economia del dono. «Nello scambio si guarda al valore della merce e si soddisfa un bisogno personale» spiega l’antropologa. «Nel dono, invece, non si fanno valutazioni merceologiche, si soddisfa il bisogno dell’altro». Lo scambio interrompe la relazione (chi ha dato ha dato, chi ha avuto…). Il dono no, va ricambiato prima o poi, e la relazione continua. Nelle società matriarcali capita che il valore dei doni sia più alto o più basso, secondo la volontà e la possibilità delle persone. Ma ciò che si perde materialmente lo si guadagna in considerazione sociale, e al momento del bisogno i conti tornano sempre. Questa disparità nei doni, per esempio di un clan che ha avuto un raccolto favorevole e può donare di più, serve anche come riequilibrio sociale: la ricchezza viene distribuita meglio.
DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA. «I clan matriarcali» spiega ancora Göttner-Abendroth «funzionano su base assembleare, alla continua ricerca del consenso: una famiglia manda il suo rappresentante, donna o uomo, all’assemblea del clan. Se non c’è accordo si torna a consultare coloro che hanno dato la delega. Lo stesso succede quando i delegati del clan vanno a un’assemblea di villaggio, oppure quelli del villaggio a una regionale: se non c’è accordo si torna a parlare con chi si rappresenta.
L’idea sbagliata che il matriarcato non sia mai esistito era dovuta alla presenza di maschi nelle assemblee: alcuni antropologi li scambiarono per capi, ma erano solo delegati».
Altre caratteristiche dei matriarcati sono la fede in divinità femminili e una particolare credenza sulla morte. Nella visione matriarcale, dopo la morte si rinasce all’interno del proprio clan: il bambino non se lo ricorda, ma una volta era uno zio o una nonna. Questa idea deriva dall’osservazione dei cicli vegetali, che risale all’inizio dell’agricoltura. Le piante muoiono in autunno, ma i loro semi riposano d’inverno fino a primavera, quando germogliano e rinascono uguali a quelle precedenti.
Per questo nell’ipogeo funebre di Hal Saflieni (vedi sotto), a Malta, 5 mila anni fa le persone venivano seppellite in posizione fetale, in attesa che rinascessero nel clan. I cicli stagionali, le stelle che scompaiono per ritornare la sera dopo, il Sole che “muore” e sempre poi “rinasce”, lo stesso ciclo mestruale femminile, erano i riferimenti naturali del matriarcato, che portarono all’idea di una Grande madre che rassicurava tutti, femmine e maschi.
ARRIVANO I PATRIARCHI. Perché allora le cose cambiarono? Secondo la ricostruzione di Gimbutas, confermata dagli studi genetici e linguistici, in tre ondate successive dal 4500 a. C. al 3000 a. C. popoli guerrieri provenienti dalle pianure del Volga, che avevano addomesticato il cavallo e disponevano di armi di bronzo, dilagarono nella vecchia Europa, ma anche nel Vicino Oriente, spingendosi poi sulle rive dell’Indo. Parlavano una lingua proto-indoeuropea e avevano divinità celesti, maschili e guerriere.
La religione e i costumi dei popoli conquistati cambiarono, nella direzione del patriarcato. «Fu un processo lento che, sebbene giunto dall’esterno, trovò l’appoggio di diversi maschi delle popolazioni matriarcali» spiega l’antropologa Luciana Percovich, autrice del libro Oscure madri splendenti (Venexia). «Si iniziò a pretendere che le mogli si trasferissero nel villaggio dei mariti. Che i beni familiari e del clan si trasmettessero per linea maschile».
Una svolta dovuta al fatto che la guerra era diventata una forma di economia e la forza maschile era molto più importante di un tempo. Per fare in modo che le terre possedute e conquistate restassero ai propri discendenti, i maschi pretesero la sicurezza della paternità e per questo iniziarono a segregare le donne. Le sacerdotesse vennero subordinate ai sacerdoti.
MASCHI SOVVERSIVI. Fra i Sumeri, il popolo che in Mesopotamia ha dato vita alle prime città-Stato, allo sviluppo dell’irrigazione, dell’agricoltura e alla scrittura cuneiforme, si ebbe un periodo di transizione fra matriarcato e patriarcato.
Questa transizione risultava ben chiara durante l’investitura del re. «Egli doveva accoppiarsi con una grande sacerdotessa che rappresentava la dea Inanna (vedi immagine sotto), versione locale della dea madre» spiega Percovich. «I re venivano eletti e restavano in carica solo un anno. Ma poi questi prorogarono i loro mandati, si portarono alla pari con il potere religioso femminile e, successivamente, presero il sopravvento designando sacerdoti maschi. Il potere da allora divenne dinastico». Le frequenti guerre rafforzarono il ruolo centrale dei maschi che diedero ulteriore slancio alle risoluzioni violente dei conflitti, opzioni molto meno popolari nelle società matriarcali.
L’IMBROGLIO BIOLOGICO. La Grande madre ebbe una variante anche in Egitto, con la dea del cielo Nut, ma poi i faraoni si dichiararono i rappresentanti in terra di divinità maschili, come Ra, il dio Sole. In Grecia, Zeus mandò nell’oblio la dea madre attuando una completa, innaturale e illogica inversione dei ruoli: partorì lui la figlia Atena, dalla testa.