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sabato 25 ottobre 2025

Chi paga il prezzo delle sanzioni americane contro la Russia? L’Europa e le sue imprese.

 

Le ultime sanzioni varate dagli Stati Uniti contro la Russia arrivano in un momento di crescente tensione geopolitica e di grande vulnerabilità economica per l’Europa.

Mentre a Washington la linea ufficiale resta quella della “massima pressione” sul Cremlino, nel Vecchio Continente si moltiplicano le domande su quale sia, in realtà, il prezzo di questa strategia — e su chi stia davvero pagando il costo più alto.

L’impatto reale sul mercato energetico.

Ogni nuova tornata di sanzioni incide indirettamente sul mercato globale dell’energia. Limitare l’export russo di petrolio e gas significa ridurre l’offerta mondiale e, di conseguenza, far salire i prezzi. Per l’Europa — ancora fortemente dipendente da fonti fossili e in una fase di transizione energetica incompleta — ciò si traduce in bollette più alte, inflazione crescente e perdita di competitività industriale.

A pagare il prezzo maggiore non sono i grandi gruppi multinazionali, che riescono ad assorbire l’impatto grazie alla diversificazione e alle rendite speculative, ma le famiglie e le piccole e medie imprese, già provate da anni di crisi e incertezza.

Molti governi europei, costretti a varare nuovi piani di aiuti e sussidi per contenere l’emergenza energetica, si trovano così schiacciati tra due forze opposte: la lealtà verso Washington e la crescente insofferenza delle proprie opinioni pubbliche.

L’Europa tra lealismo atlantico e necessità strategica.

Negli ultimi anni, Bruxelles ha cercato di mantenere un equilibrio tra la fedeltà alla linea americana e la difesa dei propri interessi economici. Tuttavia, le sanzioni successive al 2022 hanno mostrato i limiti di questa posizione.

La realtà è che l’Europa ha molto più da perdere: il costo dell’energia resta più alto rispetto a quello degli Stati Uniti, le industrie energivore del Nord si spostano verso mercati più convenienti, e il consenso popolare verso la politica sanzionatoria comincia a erodersi.

Mentre gli Stati Uniti beneficiano di prezzi energetici più bassi e attraggono nuovi investimenti industriali, molte aziende europee stanno riconsiderando la propria permanenza nel continente. La politica sanzionatoria, pensata per isolare Mosca, rischia così di indebolire la struttura produttiva europea, già fragile dopo la pandemia.

Molti analisti europei sottolineano come le misure restrittive abbiano avuto un impatto limitato sulla capacità russa di sostenere lo sforzo bellico, mentre hanno contribuito a una riorganizzazione economica globale che penalizza l’Occidente stesso.

La Russia, infatti, ha progressivamente consolidato i propri rapporti con Cina, India, Iran e i Paesi del Golfo, spostando verso Est il baricentro della sua economia e creando nuovi canali commerciali e finanziari al di fuori dell’orbita occidentale.

La frattura invisibile nell’alleanza transatlantica.

Dietro la retorica dell’unità, si nasconde una frattura crescente tra gli interessi strategici americani e quelli europei. Per Washington, la priorità resta contenere l’espansione russa e riaffermare la propria leadership globale; per l’Europa, invece, la priorità è sopravvivere a una crisi economica e sociale che rischia di minare la coesione interna dell’Unione.

Non è un caso che in diversi Paesi europei — dalla Germania all’Italia, dalla Francia all’Ungheria — si stiano moltiplicando voci critiche verso un approccio considerato più ideologico che pragmatico. La domanda di fondo è sempre la stessa: può l’Europa continuare a sostenere una politica di sanzioni che la penalizza più del suo avversario?

Una riflessione necessaria.

Non si tratta di mettere in discussione la necessità di risposte politiche e morali di fronte a un conflitto, ma di domandarsi se l’attuale approccio serva davvero gli obiettivi dichiarati.

Le sanzioni dovrebbero indebolire l’aggressore, non colpire indirettamente i cittadini dei Paesi che le impongono.

L’Europa, oggi più che mai, ha bisogno di una politica estera autonoma e pragmatica, capace di conciliare valori e interessi, e di definire un nuovo equilibrio tra sicurezza, energia e sovranità economica.

Questo non significa abbandonare l’alleanza atlantica, ma ridefinirla su basi più paritarie e fondate su un autentico rispetto reciproco.

L'articolo Chi paga il prezzo delle sanzioni americane contro la Russia? L’Europa e le sue imprese proviene da InsideOver.

Chi paga il prezzo delle sanzioni americane contro la Russia? L’Europa e le sue imprese.

domenica 6 ottobre 2024

UNA CIVILTÀ SCOMPARSA 30.000 ANNI FA.

Chi sono stati i primi a colonizzare le Americhe? Fino a pochissimi anni fa, si credeva che la prima cultura americana fosse quella dei Clovis, gli antenati dei popoli nativi del Nord America. Inoltre, si pensava che gli esseri umani fossero arrivati in quel continente non prima di circa 14.000 anni fa. Così, in questa "ricostruzione" della storia, le prime civiltà sarebbero state i nordamericani, mentre gli Aztechi, i Maya e gli Inca sarebbero arrivati molto più tardi.
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Recenti scoperte, compresa l'analisi del DNA, invece, hanno dimostrato che ancora una volta l'archeologia era sbagliata. Le prime civiltà nelle Americhe furono le popolazioni centro-sudamericane, almeno 15.000-20.000 anni prima di quanto si credesse in precedenza. E questi popoli vennero VIA MARE (sì, avete letto bene, "via mare"), dalla Siberia e dal Sundaland (il continente scomparso a causa del disgelo, che corrisponde all'attuale Indonesia e alle isole limitrofe).
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Infatti, intorno al 2020 alcuni ricercatori hanno pubblicato i risultati della scoperta di resti umani nella grotta di Chiquihuite, Messico. Gli scavi sono iniziati nel 2012. Scavi più estesi sono stati effettuati nel 2016 e 2017. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Nature. Quello che è stato trovato nella grotta ha completamente rivoluzionato l'opinione degli archeologi. Lo studio, presentato da Ciprian Ardelean, archeologo dell'Università Autonoma di Zacatecas (Messico), e dai suoi colleghi, suggerisce che le persone vivevano nel Messico centrale almeno 26.500 anni fa. Il professore dice: "Ci vogliono secoli, o millenni, perché la gente attraversi la Beringia e arrivi in mezzo al Messico. " Più tardi aggiunge: "Ci vogliono molti anni di presenza precedente perché ci arrivino se sono arrivati via mare o via terra. " Questo significa che gli esseri umani erano probabilmente in America Centrale molto prima di 30.000 anni fa.
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Ma non è tutto. Un altro centro di ricerca ha scoperto che i popoli nativi dell'America centrale e meridionale non hanno un solo antenato, ma due. Per così dire, hanno un "popolo madre", che viene identificato come "popolazione Y", e che sono gli abitanti originali del Sundaland del lontano passato, intorno al periodo del Disgelo. Ma hanno anche un "padre popolo", che sono gli Iñupiat, dalla Siberia.
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Queste scoperte rivoluzionano dal nulla tutte le credenze archeologiche sul passato delle Americhe. A chi appartenevano le rovine più antiche trovate in quelle terre? Quale civiltà passata è stata in grado di creare geopolimeri in cima alle Ande? Chi ha creato i giganteschi disegni di Nazca, e soprattutto, a quale scopo? E cosa più importante: se le persone 30.000 anni fa potevano viaggiare dall'Australia all'America Centrale, cosa gli impediva di andare dall'America Centrale all'Egitto, come sembrano indicare diverse prove? Vi diamo alcune risposte.
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L'articolo continua nel libro:
HOMO RELOADED - La storia nascosta degli ultimi 75.000 anni.