venerdì 2 aprile 2021

“Rigenerare i 5S”: Conte riparte da verde e legalità. -Luca De Carolis

 

Il discorso - L’ex premier presenta agli eletti e a Grillo il piano di “rifondazione”: società civile e struttura per un M5S a sinistra ed europeista “senza correnti”.

Lo aspettavano Giuseppe Conte, da un po’. Ed eccolo, ecco il suo ritorno al futuro. Nella sera in cui diventa ufficialmente un 5Stelle, l’avvocato pronuncia in diretta su Facebook il suo discorso all’assemblea del Movimento sui principi e contorni del nuovo M5S, “da rifondare”, anzi “da rigenerare”, a cui non può bastare un “restyling, un rinnovo superficiale”. Come se fosse ciò che non è, ovvero un grillino della prima ora, un po’ prima delle 22 di un giovedì pre-pasquale il rifondatore Conte rispolvera lo streaming, sepolto nella preistoria del M5S. Ad ascoltarlo ci sono innanzitutto gli eletti dei 5Stelle, dai parlamentari ai sindaci, e il Garante, Beppe Grillo, tutti collegati via Zoom. “Saluto tutti” esordisce l’avvocato, in giacca e con cravatta rossa. Sullo sfondo una libreria stipata. “Dovete essere fieri” inizia, elencando le battaglie del M5S diventate leggi, dal reddito di cittadinanza all’eco-bonus. Ma presto racconta il Movimento che vorrebbe, con “una razionalità organizzativa” e una “chiara identità politica”, racchiusa in una Carta dei principi e dei valori che sarà uno specchio dove riconoscersi. Lo dice in chiaro, che lavora a un Movimento con un cuore che batte a sinistra, europeista. E infatti ricorda subito: “Grazie ai vostri voti determinanti in Europa è stata insediata la commissione Von der Leyen”.

La direzione di marcia per il M5S, e non a caso prima del discorso il segretario dem Enrico Letta benedice da Porta a porta: “Scommetto sull’evoluzione del Movimento, io voglio una coalizione”. La vuole, eccome, anche Conte. Ma innanzitutto vuole un M5S ambientalista oggi ancora più che ieri, nel nome della famosa “transizione ecologica”, e che promuova la “giustizia sociale” e la legalità. Spalancato alla società civile, con dei Forum, “piazze delle idee”, a fare da raccordo tra il Movimento con tutto quanto sta lì fuori. “Dobbiamo essere accoglienti, inclusivi verso l’esterno, ma anche intransigenti sui nostri valori” riassume Conte, come un equilibrista delle parole. Ma il nuovo M5S dovrà anche irrobustirsi, con una struttura fatta di “articolazioni interne” e perfino “dipartimenti”, che però non devono renderlo come gli altri, “come i partiti tradizionali”. Non pronuncia mai la parola segreteria, Conte, ma che non vuole le correnti lo dice dritto. “Ci saranno regole per impedirle” avverte, ed è il monito ai parlamentari che ne stanno creando a grappoli. Certo, provano a chiamarle associazioni. Ma l’avvocato si è proprio arrabbiato, e infatti sul finale insiste e precisa: “Non abbiamo bisogno di associazioni”. Come chiarisce che ci vorrà “più cura per le parole”. Soprattutto, ammette che l’uno vale uno “è la base della democrazia”. Ma quando bisogna scegliere persone per “funzioni di responsabilità” o “rappresentanti del popolo in posizioni di rilievo” allora servono quelli “competenti e capaci”. E forse è in quelle sillabe che si annida la soluzione al nodo che non fa dormire molti parlamentari, ossia il vincolo dei due mandati. Quando parla di scegliere per competenze potrebbe alludere all’ipotesi a cui sta lavorando, ossia che sia lui, da capo politico, a scegliere in base al merito chi verrà messo nelle liste. Non vuole e forse non può essere più chiaro di così. D’altronde non dice nulla di definitivo neanche sul rapporto ormai degenerato in guerra con la piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio. Però mette paletti quando assicura che certo, “le nostre decisioni fondamentali passeranno ancora attraverso il voto su una piattaforma digitale”. Ma “una piattaforma” non è necessariamente Rousseau. Soprattutto, “la democrazia digitale viene da una tecnologia che non è neutra”. Ovvero, “chi possiede e gestisce i dati” svolge operazioni “sensibili e delicate”.

Traduzione, a decidere sarà sempre e solo il M5S. Quello a cui Conte promette un confronto, sul piano e sulla rotta. “Dopo la pausa di Pasqua avvierò incontri per raccogliere i vostri suggerimenti”. Ma l’ultima parola sarà la sua, quella del rifondatore.

IlFattoQuotidiano

giovedì 1 aprile 2021

Renzi è un senatore italiano: non può accettare soldi esteri. - Filoreto D'Agostino

 

Il noto studioso di scienze politiche, Robert Dahl, ha sottolineato come la credibilità della democrazia si fonda sull’uguaglianza politica intesa come principio di governo giustificato da moralità, prudenza e accettabilità e, per questo, più raccomandabile di qualsiasi alternativa. All’uguaglianza s’informa il complesso di diritti e doveri la cui tutela ed esposizione è affidata anche al principio di trasparenza, utile cartina di tornasole per saggiare la democraticità di un ordinamento.

Per questo ogni Stato si preoccupa di disciplinare opportunamente la trasparenza nell’operato dei pubblici funzionari. Sono così imposti rigidi parametri ai pubblici dipendenti per impedire che accedano a cariche esterne e ricevano compensi senza il consenso della loro amministrazione. L’accettazione di cariche in enti diversi e la percezione dei relativi emolumenti sono assoggettate ad autorizzazione nel quadro di un codice di comportamento secondo il quale il dipendente non accetta, per sé o per altri, regali o altre utilità di valore non superiore ai 150 euro. Per i parlamentari vige l’obbligo di dichiarare quanto ricevuto direttamente o a mezzo di comitati per importi superiori a 500 euro annui.

Come si può valutare, in tale contesto, il ricco emolumento percepito dal senatore Renzi per partecipare al board di una fondazione araba? Le cause della dazione possono essere solo due: la prestazione d’opera o la liberalità. Sulla prestazione d’opera è chiaro che nessun funzionario dello Stato italiano potrebbe ricevere quel munifico corrispettivo. Per conseguirlo il pubblico dipendente dovrebbe inventarsi un’eccellente ragione (inimmaginabile in rerum natura) ed essere autorizzato dalla propria amministrazione, previo concerto con ministero degli Esteri e presidenza del Consiglio. Perché, nei rapporti con enti stranieri, il pubblico funzionario rappresenta lo Stato italiano e deve garantire la non esposizione a perplessità e sospetti a tutela della dignità dell’intero apparato. Il principio va esteso, a maggior ragione, ai parlamentari perché il fondamento del presidio istituzionale è rafforzato. Quegli impedimenti assoluti, cioè, valgono vieppiù per un senatore della Repubblica, soprattutto quando costui si trova a rappresentare la Nazione italiana (art. 67 Cost.) in una fondazione estera regolata fors’anche dalla sharia. Chi ritiene legittimo tale contegno opta per un sistema estraneo al nostro ordinamento costituzionale per l’obiettivo rifiuto dell’uguaglianza e della trasparenza oltre che per l’incoerenza tra funzione esercitata e doveri scaturenti dallo specifico status.

Se si ammette che la qualità di parlamentare consente di superare i limiti della legge (e della decenza istituzionale) validi per tutti gli altri pubblici funzionari, vale allora l’adagio orwelliano secondo cui “alcuni animali sono più uguali degli altri”, con buona pace del principio sancito nell’art. 3 Cost. Intraprendere attività consulenziali è certo lecito dopo aver chiuso la carriera politica, come hanno dimostrato Blair e Schröder. Proprio per i motivi ben presenti ai due ex governanti sarebbe auspicabile che il Senato non continuasse a ignorare la questione. Anche la semplice inerzia può costituire implicito segnale che, per quel consesso, non ci sono problemi di sorta e che, a dispetto dei parametri costituzionali, l’operato del senatore è ritenuto conforme. Sulle liberalità: solo immaginare che si sia trattato di donativo fa arrossire. L’ipotesi va assolutamente respinta a tutela del decoro e della dignità delle pubbliche istituzioni.

IlFattoQuotidiano

Un Maccartismo disastroso. Usa e EU hanno perso la ragione?. - Fabio Massimo Parenti

 

La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. (Karl Marx)

di Fabio Massimo Parenti – Se molti pensavano che il duo Trump-Pompeo fosse pericoloso, che dire di Biden-Blinken? Invece di costruire nuove fondamenta per una più ampia cooperazione internazionale – soprattutto considerando che stiamo vivendo un periodo di molteplici crisi globali – Biden-Blinken identificano nemici – con toni bellicosi nei confronti di Russia e Cina – attribuendo responsabilità sempre e solo agli “altri” e restituendo, nei primi mesi di presidenza, un’immagine sempre più autoreferenziale delle autorità del paese. Gli Usa continuano a puntare il dito all’estero, pensando di poter dettare le condizioni al resto del mondo in nome di un “suprematismo valoriale” che mette in pericolo l’umanità. Rispondendo a Blinken, che aveva affermato di parlare da una posizione di forza, Yang Jiechi, membro dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale e Direttore dell’ufficio per gli affari esteri, ha ribattuto dicendo che “gli Usa non sono qualificati per parlare alla Cina da una posizione di forza”.

Colpire lo Xinjiang per colpire la BRI.

Ad Anchorage ed a Bruxelles il nuovo duo (anzi trio se aggiungiamo il consigliere Jake Sullivan) ha ribadito il mantra sulla violazione dei “diritti umani” per giustificare pacchetti sanzionatori in giro per il mondo, come per esempio quelli allo Xinjiang cinese. Legittimo e normale dovrebbe essere chiedersi quali siano le prove di tali accuse. Ebbene, si tratta di rapporti di ONG basati su informazioni e speculazioni non verificabili. Quali sono queste ONG o reti di…? CHRN e WUC, entrambe con sede a Washington e finanziate dal Congresso Usa (tramite la NED). Tristemente, l’UE ha seguito gli Stati Uniti, irrazionalmente e contro i propri interessi economici. Se poi aggiungiamo che queste accuse provengono da un paese che vede erodere costantemente lo stato dei diritti umani al proprio interno (il rapporto dell’Ufficio dell’Informazione del Consiglio di Stato cinese, elaborato su fonti ufficiali, è scaricabile a questo link), con 41500 persone uccise in “shooting incidents” nel 2020 – una media di più di 110 al giorno – 592 “mass shootings” – in media 1,6 al giorno – crescenti discriminazioni razziali e continui abusi letali da parte degli agenti di polizia, la credibilità degli accusatori è quanto meno imbarazzante. Anche questo è stato sinceramente, ed educatamente, ricordato ad Anchorage. Si potrebbe continuare a lungo, ma ci fermiamo qui. Peraltro, non solo le succitate accuse sullo Xinjiang si basano su “fonti” inaffidabili e “dati” inverificabili (per alcune ricostruzioni indipendenti, si ascolti ad esempio Daniel Dumbrill o si legga l’articolo di Ajit Singh), ma le stesse ragioni, quand’anche fossero mai provate, non coinciderebbero con quelle reali, che riguardano invece la volontà di bloccare lo sviluppo della Cina e la sua rinnovata influenza internazionale: è noto, infatti, che ben tre corridoi terrestri della BRI hanno origine in Xinjiang, quello Kashgar-Gwadar (il corridoio economico sino-pakistano) e i due che si separano in Kazakhistan (il corridoio eurasiatico e quello centro-asiatico occidentale). Per chi avesse dei dubbi suggeriamo di visionare questo discorso di Lawrence Wilkerson, capo di Stato maggiore dell’ex Segretario di Stato Colin Powell, tenuto nel 2018 al Raul Paul Institute mentre spiega (dal minuto 19) le ragioni della presenza militare statunitense in Afghanistan, tra cui la destabilizzazione dello Xinjiang per colpire la BRI (ricordando anche l’ampio uso degli Uiguri in Siria). Sappiamo bene, soprattutto noi italiani, quante pressioni gli Usa abbiano esercitato fino ad oggi sull’Europa in funzione anti-BRI. In questo caso le esercitano direttamente interferendo all’interno della Cina, andando all’origine del più grande progetto di investimenti della storia dell’umanità.

In ultimo, è doveroso ricordare che negli ultimi anni un’ampia maggioranza di stati ha espresso ufficialmente, al Consiglio dei diritti umani dell’Onu, il proprio sostegno alle politiche adottate nello Xinjiang, tra cui molti paesi musulmani, mettendo in minoranza i documenti di denuncia a firma US-UK.

Non abbiamo bisogno di una nuova guerra fredda.

Invece di definire un piano per la cooperazione sanitaria, invece di spiegare come vogliono risolvere i loro problemi domestici (maggiore disuguaglianza di reddito, povertà, conflitti razziali ecc.), ci troviamo a dover assistere alle sceneggiate di “cercatori di tempesta” e “seminatori di odio”. Basti ricordare che pochi giorni fa, coerentemente col quadro sopra descritto, il generale McConville, per fare un altro esempio emblematico, ha dichiarato alla George Washington School of Media and Public Affairs che l’esercito americano sta preparando l’installazione di nuovi missili ipersonici in Europa e nel Pacifico. Dovremmo congratularci, accettare o denunciare?

Sarà in grado l’UE di fornire un suggerimento autonomo per rafforzare la cooperazione internazionale, anziché continuare a giocare un gioco di divisione come richiesto dagli Stati Uniti e i suoi pochi sodali? Sembra proprio di no. Durante le ultime visite di Blinken-Biden in Europa, le autorità statunitensi hanno richiamato alle presunte minacce di Russia e Cina, facendo pressione contro il completamento del North Stream2, etichettato come “cattiva idea”, e chiedendo all’Italia di ritirarsi dalla BRI. Per di più c’è anche qualcun altro che chiede la sospensione del CAI. È come se chiedessimo più crisi socioeconomiche e finanziarie…

Anche negli Stati Uniti e in UK molti credono che il primo approccio di politica estera di Biden sia obsoleto e sciocco. In un articolo sul settimanale britannico The Spectator, scritto da Roger Kimball, l’autore ha chiesto: “Qualche presidente degli Stati Uniti ha mai avuto un capitolo di apertura così disastroso sulla scena mondiale? Nessuno che io possa ricordare”. In un episodio dello show satirico The Real TimeBill Maher denuncia le sciocche guerre culturali che colpiscono l’America, confrontando i successi economici di un paese in via di sviluppo, la Cina, con un paese pigro e in stagnazione, gli Stati Uniti. In modo satirico, dicendo alcune verità. Quando la realtà materiale cambia – cambiamento globale nelle relazioni di potere – essa viene fuori e non si cura della propaganda degli ex-dominatori.

Al di là della complessità geopolitica ed economica delle relazioni internazionali, anche un bambino comprenderebbe l’irrazionalità dell’attuale approccio USA-UE verso la Cina, finalizzato ad aprire una nuova stagione di guerra fredda. Non basta la pandemia? Come potrebbero le persone accettare una tale divisione ideologica e imperialistica del mondo in un periodo di pandemia, emergenza sanitaria globale, emergenza ambientale, ecc. Come potrebbero le persone accettare di combattere una guerra globale, invece di lavorare al fine di giungere a compromessi e nuovi accordi in grado di contrastare le crisi socio-economiche in atto? Una semplice previsione? Gli Stati Uniti e l’UE saranno sempre più isolati…

La (buona) diplomazia dei vaccini e il suo contrario

Da una parte abbiamo un paese, la Cina, che si vaccina senza fretta perché l’epidemia è sotto controllo (grazie a uno dei più avanzati sistemi di diagnosi e tracciamento). Nel frattempo, lo stesso paese sta producendo e distribuendo dosi di vaccini a più di 70 paesi, soprattutto in via di sviluppo e meno sviluppati, attraverso una combinazione di donazioni, contratti standard, prestiti di sostegno ecc., fornendo anche la licenza per riprodurre i propri vaccini, secondo il principio del vaccino “bene comune” e della solidarietà internazionale. Diplomazia dei vaccini? Obiettivi politici? Si tratta semplicemente di buona politica (eventualmente, di buona diplomazia dei vaccini), in quanto volta al soddisfacimento di bisogni reali innegabili. D’altra parte, abbiamo un paese, gli Stati Uniti, che sta vaccinando solo la propria popolazione, bloccando le esportazioni e la liberalizzazione delle licenze presso l’OMC, anche qui con l’appoggio dell’UE. Quindi: nessuna solidarietà, nessuna cooperazione internazionale, nessuna azione globale proprio quando più ce ne sarebbe bisogno. Peggio: quest’ultimo paese si è impegnato in un confronto internazionale con il primo, alimentando il razzismo in patria e la divisione all’estero. Se questo è un modo di agire democratico ed ispirato ai più alti valori umani, direi che siamo messi molto male.

Invitare le autorità cinesi e trattarle come colpevoli dei problemi del mondo è semplicemente un atto di ostilità inaccettabile, tanto più quando basato su ricostruzioni fantasiose. Arrivare in Europa e rilanciare una strategia da guerra fredda, giudicare il North Stream2 come un brutto progetto (solo perché rafforza i legami tra paesi sulla base di bisogni reciproci) o chiedere all’Italia di uscire dalla BRI è semplicemente un atteggiamento da bulli. Chi minaccia chi? Chi rappresenta una minaccia per la sicurezza mondiale? Usa ed Ue hanno perso la ragione? Oppure non riescono ad affrancarsi dalla sindrome imperialista dei conquistatori-dominatori?

Gli Usa sono i benvenuti nella costruzione di un destino condiviso e di una cooperazione tra pari finalizzata a creare beni comuni e risolvere problemi comuni. Si parta dal prendere atto che il mondo è già cambiato e non accetta più i diktat di Washington (o di qualsiasi altro egemone) che insieme a pochi sodali suole autodefinirsi “comunità internazionale”. È l’era della multipolarità e del futuro condiviso. Nessun paese dovrà agire come se fosse superiore ad un altro. Questo è progresso, il resto è sclerosi.

IlblogdiBeppeGrillo

31 milioni davanti alla tv per la crisi della Quinta Repubblica. - Cesare Martinetti

 

Emmanuel Macron è profondamente “désolé” per la disorganizzazione con cui è partita la campagna di vaccinazione, ora bisogna procedere con “umiltà e determinazione”. Ma non riconosce altri errori, se non per prendere atto della fiammata di contagi. E dunque, dopo giorni di attesa di una sua parola che non arrivava mai (Cosa sta aspettando?, titolava martedì a piena prima pagina Libération) ha finalmente annunciato ieri sera misure mai viste prima, che stanno dando luogo a una rivolta parlamentare e non solo delle opposizioni. Più che il merito si discute del metodo: il dibattito è stato aperto in Parlamento solo dopo la parola del monarca. 

Intanto chiuse anche le scuole (per tre settimane) per la prima volta per la prima volta dall’inizio della pandemia. Coprifuoco a partire dalle 19. No agli spostamenti tra regioni, ci si può muovere dalla propria abitazione per non più di dieci chilometri salvo motivi eccezionali. Smartworking senza eccezioni per tutti quelli che lo possono fare… Lo specifico francese è una flambée, una fiammata di contagi, quasi mezzo milione nelle ultime due settimane, 60 mila solo ieri, al 90 per cento dovuti alla temuta “variante inglese”, nome particolarmente evocativo. Ventotto mila francesi ricoverati, oltre 5 mila in rianimazione. Dunque ospedali e rianimazioni letteralmente a “bout de souffle”, senza respiro. Vaccinazioni troppo lente: a oggi 2 milioni e 700 mila, solo il 4 per cento della popolazione, hanno avuto la dose completa, l’11 per cento la prima dose. Il ministro della sanità Olivier Veran spera che con queste misure si possa arrivare al picco entro fine aprirle.

“Abbiamo agito né troppo presto, né troppo tardi”, ha detto questa mattina all’Assemblée il primo ministro Jean Castex per fare da scudo all’accusa più forte indirizzata in questi giorni al governo e al presidente Macron, quella di non aver ascoltato gli scenari anticipati dagli epidemiologi e aver usato finora mezze misure. Sotto accusa anche per l’ostinazione a valor tenere le scuole aperte, a qualunque costo, negando che fossero anch’esse- com’è ovvio - bacino di contagio. (Detto tra parentesi, l’espressione usata dal presidente fin dal marzo 2020 era “quoi qu’il en coûte” e altro non era che la traduzione del “whatever it takes” di Mario Draghi divenuta proverbiale nelle élite europee). 

Ieri sera Emmanuel Macron ha riconosciuto che sono stati fatti degli errori nell’organizzazione delle vaccinazioni, senza però mai ammettere di aver sbagliato nelle valutazioni generali. “Non ho nessun mea culpa da fare, né rimorsi da esprimere”, aveva detto sabato. La linea presidenziale è rimasta quella : la “flambée” non è arrivata a febbraio com’era stata prevista dagli scienziati, dunque “abbiamo guadagnato tempi di vita”. Adesso però “dobbiamo prenderci le nostre responsabilità, senza cedere la panico o alla negazione”.

Mentre i francesi si contagiano e muoiono più o meno come gli italiani (a ieri i morti erano 95 mila, in media 355 al giorno nelle ultime due settimane) sotto la tenda ad ossigeno c’è un altro malato illustre, la Quinta Repubblica. Da anni politici e costituzionalisti discutono sull’attualità del sistema istituzionale che Charles de Gaulle aveva ritagliato su sé stesso alla fine degli anni Cinquanta, in piena crisi d’Algeria e quando la seconda guerra mondiale era una memoria ancora fresca.

Da allora è praticamente rimasto intatto, la modifica più significativa è stata la riduzione da sette a cinque anni del mandato presidenziale fatta nel 2000 dalla coppia Chirac-Jospin, in un afflato destra-sinistra che aveva come obiettivo eliminare la distorsione della coabitazione e cioè la compresenza forzata di un presidente gollista e un primo ministro socialista (o viceversa) com’era avvenuto varie volte nel passato: Mitterrand-Chirac o appunto Chirac-Jospin. La coincidenza di elezioni presidenziali e legislative avrebbe dovuto risolvere il problema. È così è stato. Dal 2002 nessuna coabitazione. Ma il sistema presidenziale ne è risultato rafforzato, una vera “monarchia repubblicana” come nel disegno di De Gaulle, fino al punto che il brutale Sarkozy ha potuto derubricare il suo primo ministro Fillon in semplice “collaboratore”.

Con il più pacioso e caotico François Hollande la verticalità del sistema è parsa molto attenuata. Ma tutto si è rovesciato con Macron, fin dalla sera della sue elezioni quando il giovanissimo presidente si è presentato alla nazione in una scenografia che mescolava il “nouveau” con l’ “ancien régime”, lui solo nel cortile del Louvre sotto la piramide di Mitterrand, nell’aria le note della Marsigliese e dell’europeista Inno alla gioia. Macron è stato dunque una specie di rifondatore di una presidenzialissima Quinta Repubblica, teorizzando e praticando per se un ruolo “jupiterien” alla sommità dello Stato.

Nel corso delle varie crisi che hanno caratterizzato il suo mandato, dalla rivolta popolare e populista dei gilets gialli, a quella interclassista contro la riforma delle pensioni il presidente ha teso semmai a rafforzare il suo ruolo pantocratore, catalizzando lo scontento e gestendo in proprio le soluzioni. A metà mandato si è liberato di un primo ministro come Edouard Philippe divenuto troppo autonomo (e popolare) e ha collocato a Matignon l’attuale Jean Castex (un fedele di Sarkozy, tra l’altro) che per biografia e configurazione appare davvero come un “collaboratore” del presidente.

La crisi Covid ha enfatizzato questa situazione. Quella di ieri sera è stata la settima “allocuzione solenne” del presidente, 30,8 milioni francesi hanno ascoltato la sua parola e misurato la temperatura emotiva del palazzo rispetto alla pandemia. Una temperatura che è variata più volte nel corso dei mesi. La prima volta fu con tono bonapartista: “Siamo in guerra”. Poi via via il tono è cambiato, di volta in volta paternalista, scientifico, pedagogico. Ieri sera Macron ha voluto trasmettere un messaggio di umiltà e determinazione. Ma può un paese, un sistema, un mondo - visto che ci sono ancora “territori d’oltremare” - aspettare giorni e giorni la parola del presidente? Con governo e politica apparentemente paralizzati nell’attesa? Solo oggi all’Assemblée e domani al Senato si discuterà, ma di decisioni che sono state prese e annunciate ieri sera dal presidente. “Una Waterloo”, dice Marine Le Pen, mentre il capo degli Insoumis Jean-Luc Mélenchon parla di “pesce d’aprile”. Sono i capi delle opposizioni, estrema destra ed estrema sinistra, ma è bene ricordare che al primo turno delle presidenziali 2017 hanno preso ognuno un venti per cento dei voti, che sommati fanno quaranta che disegnano con nettezza i confini di uno stato d’animo collettivo anti sistema che non si è certo attenuato in questi quattro anni. 

Il dibattito all’Assemblea è in corso, e anche i centristi dell’Udi, che sono nella maggioranza, hanno annunciato che non parteciperanno al voto: “una mascherata”. La crisi della Quinta Repubblica è aperta. 

HuffPost.italia

Il salvatore della patria non esiste (e non ci serve). - Moni Ovadia

 

Gesù ha detto: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8, 32). Questa è tra le frasi più disattese dell’intero Vangelo, la politica come esercizio del potere, ha fondato se stessa sulla perversione programmatica di questo principio. I regimi la verità la fabbricano. Al tempo in cui in Germania si instaurò il nazismo, poteva capitare di leggere sulla stampa ufficiale, notizie di questo tenore: “Ebreo rabbioso azzanna mansueto pastore tedesco!”. Mutatis mutandis, anche nelle democrature si tende, se non proprio a ribaltare le verità, a fare splendere l’ovvio, a far passare per novità luminosa la routine, a riciclare come idea innovativa il già visto e praticato, il merito della questione viene espunto dal confronto e sostituito dalla retorica del consenso a priori.

Ora, con il dovuto rispetto alla competenza in campo economico e finanziario del presidente del Consiglio Mario Draghi, questo non fa di lui un taumaturgo come è mostrato dall’evidenza e neppure l’uomo della provvidenza di cui peraltro non si sente, né si è mai sentito il bisogno, ma che viene evocato sempre per supplire ai deficit di realtà, di serietà e di assunzione di responsabilità di una classe dirigente mediocre e incapace di rimettersi in questione. Tale classe dirigente, pubblica e, in notevole misura privata, vuole mantenere i propri privilegi e per farlo acclama la figura prestigiosa di chi non teme di essere sottoposto al fuoco incrociato ostile e amico perché, per storia e vocazione, non teme i franchi tiratori armati di ordigni che non lo colpiscono. Erigendo detta figura a scudo e lustrandolo con incensamenti abbaglianti, i soliti noti si preparano a fare man bassa del gruzzolo annunciato dal Recovery Fund protetti dai superpoteri del super Mario nazionale, internazionale e globale. L’Italia ne uscirà verosimilmente con le solite diseguaglianze, le inesorabili sperequazioni, gli inguaribili vizi endemici: evasione fiscale, corruzione, mafie. Ma che importa, tanto c’è sempre la post-verità.

IlFattoQuotidiano

Lombardia, il sistema sanitario (privato e pubblico) ha fallito. - Gianni Barbacetto

 

L’Italia ha sempre imparato poco dalla sua storia (Magistra vitae, ma senza discepoli) e niente dalle sue disgrazie (terremoto dopo terremoto, frana dopo frana, esondazione dopo esondazione). Chissà se imparerà qualcosa dalla pandemia. Che il sistema sanitario non abbia funzionato è sotto gli occhi di tutti. Ma riusciremo a riformarlo per ridurre almeno le storture più evidenti? C’è chi è al lavoro per avanzare proposte di riforma, a Roma e a Milano. A Milano i cambiamenti sono più urgenti, vista la disfatta del sistema sanitario regionale lombardo davanti all’assalto del Covid-19. In Lombardia, la super-privatizzazione dei servizi e la super-ospedalizzazione del sistema, che esibivano qualche effetto benefico in tempi “normali”, hanno mostrato tutta la loro inadeguatezza in tempi di attacco pandemico, quando la sanità diventa ancora più vitale. Questo anno di Covid ha mostrato il fallimento non soltanto della riforma sanitaria di Roberto Formigoni, ma anche di quella successiva e ulteriormente peggiorativa di Roberto Maroni (2015), in un’Italia in cui la sanità nazionale è stata (disgraziatamente, per molti) tagliuzzata in 21 sanità regionali. Che cosa cambiare? Sono al lavoro da mesi i “saggi” convocati dal presidente lombardo Attilio Fontana, da cui si distacca il professor Giuseppe Remuzzi, dell’Istituto Mario Negri, che ha presentato nei giorni scorsi le sue proposte. 

Uno. Troppo privato, in Lombardia, dove gli imprenditori della sanità privata sono equiparati al pubblico e dove questo rischia di deperire di fronte al più aggressivo concorrente. Remuzzi propone allora che la contrattualizzazione dei privati sia fatta soltanto per quei servizi che il pubblico non riesce a fare. 

Due. Troppa politica, nella sanità lombarda (e non solo lombarda). I manager, i direttori generali delle aziende ospedaliere, non devono più essere lottizzati e scelti dai partiti.

Tre. Troppo poca sanità territoriale, in Lombardia. Al centro del sistema è stato posto il grande ospedale, con conseguente marginalizzazione della componente territoriale. L’attuale sistema organizzativo è un gomitolo che si fatica a dipanare: da una parte, le Ats (Agenzie di tutela della salute) che dovrebbero presidiare il territorio; dall’altra, le Asst (Aziende socio sanitarie territoriali), il soggetto pubblico che, insieme ai privati accreditati, deve erogare le prestazioni sanitarie e sociosanitarie. Nei poli ospedalieri, innanzitutto, ma anche nella rete territoriale, che però resta debole e inspiegabilmente separata dalle Ats. “Si è perpetuata un’asimmetria tra ospedale e territorio e tra pubblico e privato, in assenza di una cabina di regia super partes”, scrivono i ricercatori del Mario Negri. Poi i malati cronici sono stati affidati ai cosiddetti “gestori”, togliendoli ai medici di base e generando di fatto “reti parallele (di gestori pubblici e privati) in competizione tra di loro e in concorrenza con la medicina di base. Sono così emersi soggetti alternativi al servizio pubblico, svincolati dal contesto territoriale”. Risultato: “Scarsa capacità da parte dei servizi territoriali, impoveriti e disorganizzati, di dare risposte sul territorio ai bisogni socio-sanitari di importanti settori di popolazione come anziani, malati psichiatrici e soggetti socialmente fragili”. Anche prima dell’emergenza Covid. Per gli anziani, infine, è quasi scomparsa l’assistenza domiciliare, a tutto vantaggio delle Rsa, quasi tutte private.

La riforma sanitaria è forse la più necessaria oggi, dopo l’attacco pandemico. La situazione in Lombardia ci dimostra che le incapacità, le sottovalutazioni, gli errori dei governanti e dei loro manager, che abbiamo visto squadernarsi in questo anno-Covid, si innestano in un sistema, quello Formigoni-Maroni, che non funziona e va cambiato al più presto.

IlFattoQuotidiano

L’Onorevole Sospensorio. - Marco Travaglio

 

Si spera vivamente che, dopo tutto il tempo dedicato alle quote rosa nel Pd, Enrico Letta trovi qualche minuto anche per le quote marron. In particolare per Luca Lotti, regista dell’elezione delle nuove capegruppe Malpezzi e Serracchiani. Parliamo infatti del capo della corrente più potente del partito, quella renziana, detta simpaticamente “Base riformista”, che vanta altri big del calibro di Marcucci e Guerini (e, se questa è la base, non osiamo immaginare l’altezza). Rinviato a giudizio per rivelazione di segreto (le microspie negli uffici Consip) e dunque “sereno”, il Lotti è anche uno dei protagonisti del caso Palamara che da due anni terremota la magistratura italiana. Uno scandalo che non gli è costato guai penali, ma deve avergli instillato un vago sospetto di scorrettezza, se sentì il bisogno di “autosospendersi” dal Pd il 14 giugno 2019 in attesa dei “probiviri” (mai visti né sentiti). Sono trascorsi 22 mesi e lui è sempre autosospeso, anche se non si è ben capito cosa ciò comporti, visto che da una posizione così precaria continua a frequentare la Camera (con relativo stipendio) e a fare e disfare nel Pd. Forse è ricorso a un sospensorio, per attutire il penzolamento e garantirsi una certa stabilità. Zinga lo lasciò lì appeso, confidando nell’oblio generale. Ma ora c’è il “decisionista” Letta e una parola chiara dovrebbe dirla, non foss’altro che per liberarlo da quella scomoda postura da insaccato, da caciocavallo, da pipistrello e restituirlo al consesso civile.

Per agevolargli il compito, gli riassumiamo i fatti. Il caso Palamara nasce dagli allegri conversari notturni all’hotel Champagne fra il pm Palamara e i deputati Lotti e Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa, all’epoca nel Pd e ora naturalmente in Iv) sulle nomine dei procuratori. Palamara faceva il suo sporco mestiere di capocorrente dedito alle raccomandazioni e alle lottizzazioni togate. Dunque gli intrusi erano Lotti e Ferri. Soprattutto Lotti che, essendo imputato per Consip proprio nella Capitale, tutto avrebbe dovuto fare fuoché occuparsi della nomina dei procuratori di Roma (che indaga su di lui), di Perugia (che indaga sui magistrati capitolini) e di Firenze (che indaga sulla famiglia Renzi). Ieri, forse dimentico persino lui di essere autosospeso, Lotti ha dato un’intervista al Foglio (che non gli ha chiesto di Palamara: certe cose non si fanno) per sciogliere un peana alla nobiltà delle correnti, soprattutto la sua, che ha conservato le “idee riformiste” di Renzi anche dopo la dipartita del de cuius; e per minacciare di “stimolare Letta”, come già Zingaretti. Che fa ora Letta: si tiene Lotti o lo caccia? L’unica cosa che non può fare è lasciarlo lì sospeso a penzoloni. Il sospensorio scricchiola: sta cedendo.

IlFattoQuotidiano