domenica 13 dicembre 2020

Processo alle invenzioni. - Marco Travaglio

 

C’è solo un processo più inutile di quello di Catania a Salvini per il blocco della nave Gregoretti (scelta sciagurata e demagogica, ma difficilmente inquadrabile come sequestro di persona): quello a Virginia Raggi, che domani va a sentenza alla Corte d’appello di Roma. Chi se lo fosse dimenticato si armi di santa pazienza e mi segua in questa incredibile vicenda che farebbe la gioia di Kafka. A giugno del 2016, appena osa diventare sindaca di Roma, la Raggi viene investita da un uragano politico, mediatico e giudiziario mai visto contro una persona che non ha fatto nulla di male. L’uragano diventa tsunami quando la sindaca si azzarda a sottrarre la mangiatoia delle Olimpiadi ai soliti noti. Appena nata la giunta, viene indagata la sua assessora all’Ambiente Paola Muraro per presunti reati ambientali commessi in 14 anni di consulenze per l’Ama, saltate fuori nell’attimo esatto in cui accetta l’incarico dalla Raggi e archiviate appena si dimette. Poi viene arrestato il capo del Personale Raffaele Marra, ufficiale della Finanza pluridecorato da Fiamme Gialle e Quirinale, per fatti di quattro anni prima, nell’èra Alemanno. Infine viene indagata la Raggi, che una processione di avversari e/o manigoldi ha provveduto a tempestare con decine di denunce.

Tre indagini per abuso d’ufficio per le nomine del funzionario comunale Salvatore Romeo a capo-segreteria, della giudice Carla Raineri a capo-gabinetto e del dirigente dei Vigili Renato Marra (fratello di Raffaele) a capo-ufficio Turismo. Un’indagine per rivelazione di segreto per presunti dossier contro il rivale Marcello De Vito. E un’indagine per falso ideologico per una dichiarazione all’Anticorruzione comunale sul conflitto d’interessi di Raffaele Marra nella promozione del fratello. Alla fine la montagna partorisce il topolino: tutte le accuse archiviate, tranne quella di falso per aver detto all’Anac che Marra, nella nomina del fratello, ebbe un ruolo “di mera pedissequa esecuzione delle determinazioni da me assunte, senza alcuna partecipazione alle fasi istruttorie, di valutazione e decisionali”. Tantopiù che il Regolamento comunale affida quelle nomine alla discrezionalità del sindaco. Infatti fu la Raggi, su input dell’assessore al Commercio Adriano Meloni, a decidere. L’accusa è un doppio paradosso: nel Paese dei conflitti d’interessi, l’unico politico imputato è la Raggi; una volta archiviata l’accusa di complicità nel conflitto d’interessi di Marra (contestato a lui solo), non si vede perché la sindaca avrebbe dovuto mentire per coprire un delitto che non aveva commesso. Insomma, un caso più unico che raro di reato senza prove né movente né dolo.

Il processo alle intenzioni finisce direttamente in tribunale, perché la sindaca sceglie il rito immediato. E lì si scopre ciò che si era sempre saputo: la nomina di Renato Marra non fu una promozione ad personam, ma era parte di un “interpello” per la rotazione di ben 190 dirigenti comunali; lì, per evitare sospetti di conflitti d’interessi, la Raggi respinse la candidatura di Renato a capo dei Vigili e optò per un ruolo di fascia inferiore; Raffaele fece pressioni per il fratello su Meloni e non sulla Raggi, anzi alle sue spalle; quando lei scoprì che la nomina comportava un forte aumento di stipendio, si lamentò in chat con lui per non averla avvertita; nessun elemento dimostra che la sindaca fosse informata delle sue pressioni. Infatti il Tribunale la assolve perché “il fatto non costituisce reato”. Motivo: “Nel complesso la risposta del Sindaco Raggi alla richiesta” dell’Anticorruzione “appare veritiera”: nessun falso. Fu solo imprecisa quando, con linguaggio avvocatesco, parlò di “istruttoria” in senso giudiziario e non amministrativo. Il buonsenso vorrebbe che la cosa finisse lì. Invece la Procura, crollate tutte le indagini sulla giunta, ricorre in appello con un atto di 31 pagine in cui non prova neppure a confutare nel merito le 316 pagine della sentenza, né porta elementi fattuali in grado di ribaltarle. Per giunta, i pm ripetono il movente-patacca già sostenuto invano in Tribunale: e cioè che la sindaca mentì per non essere indagata per il conflitto d’interessi di Marra, visto che all’epoca (2016) per il Codice etico dei 5Stelle bastava un avviso di garanzia per imporre le dimissioni di un loro sindaco. Peccato che sia falso: Pizzarotti, Nogarin e la stessa Raggi furono indagati nel 2016 e restarono al loro posto.
La Corte ha concesso ai pm di riascoltare due testimoni, che hanno confermato come la sindaca fosse ignara delle pressioni di Marra. Dunque, ancora una volta, l’assoluto deserto probatorio e anche il buonsenso suggeriscono un’assoluzione-bis. Ma tutto è possibile. E, in caso di condanna, il Codice etico dei 5Stelle vieterebbe alla Raggi di ricandidarsi sotto le loro bandiere. A meno che si decidessero a rimetter mano alle regole interne. L’obbligo di dimissioni è sacrosanto anche per un semplice avviso di garanzia (o anche senza) quando sia acclarata una condotta immorale e infamante che metta in serio dubbio l’onestà dell’eletto. Ma, se c’è di mezzo una posta nei bilanci comunali o un incidente di piazza (processi Appendino), o una frase controversa (processo Raggi), giustizia e politica devono viaggiare su binari separati. Confonderli significa condizionare i magistrati e condannarsi a combattere gli avversari con le mani legate dietro la schiena.

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