mercoledì 22 dicembre 2010

Ricette per uscire dalla crisi




Molti Paesi stanno varando misure di austerity che rallenteranno il ritmo della ripresa. Eppure rilanciare lo sviluppo contenendo il debito è possibile: ecco come.

di Joseph Stiglitz, La Repubblica Affari & Finanza, 13 dicembre 2010

Nel periodo immediatamente successivo alla Grande Recessione, i Paesi si sono ritrovati con deficit senza precedenti in tempi di pace e sempre più forti ansie per il loro indebitamento pubblico in costante aumento. In molti Paesi tutto ciò ha portato a varare nuove misure di austerity, provvedimenti che quasi di sicuro comporteranno una maggiore debolezza per le economie nazionali e globali.Questi provvedimenti porteranno anche ad un cospicuo rallentamento del ritmo della ripresa. Coloro che così facendo auspicano significative riduzioni del deficit rimarranno amaramente delusi, dal momento che la recessione economica ridurrà considerevolmente il gettito fiscale e aumenterà le richieste di sussidi di disoccupazione e altri benefit sociali.

Il tentativo di frenare la crescita del debito servirà a concentrarsi meglio: obbligherà infatti i Paesi a focalizzarsi sulle priorità e a dare giusto valore alle cose. È poco plausibile che gli Stati Uniti nel breve periodo varino consistenti tagli al budget, seguendo l’esempio del Regno Unito. Ma la previsione a lungo termine – resa particolarmente disastrosa dall’incapacità della riforma dell’assistenza sanitaria di incidere più di tanto nelle spese mediche in costante aumento – è sufficientemente spenta da far sì che sia giunta l’ora di fare qualcosa in modo bipartisan. Il presidente Barack Obama ha nominato una commissione bipartisan incaricata di lavorare sulla riduzione del deficit, i cui presidenti di recente hanno anticipato alcuni dati, fornendo qualche indizio su come potrebbe risultare il loro rapporto conclusivo.

Da un punto di vista esclusivamente tecnico, ridurre il deficit è una faccenda assai semplice: si tratta infatti di tagliare le spese oppure di aumentare il prelievo fiscale. È evidente, tuttavia, che l’agenda della riduzione del deficit, quanto meno negli Stati Uniti, si spinge ben oltre: è un tentativo di indebolire le coperture sociali, ridurre la gradualità del sistema fiscale, ridimensionare il ruolo e l’azione del governo, lasciando al contempo intatti e colpiti meno possibile gli interessi ormai consolidati, come quelli del comparto industriale militare.

Negli Stati Uniti – come pure in qualche altro Paese industriale avanzato – qualsiasi programma di riduzione del deficit deve essere contestualizzato in rapporto a ciò che è accaduto nel corso dell’ultimo decennio:
1) Un consistente aumento delle spese per la Difesa, alimentate da due guerre inutili, ma che sono andate ben oltre le aspettative;
2) Disparità in forte crescita: l’uno per cento della popolazione guadagna più del 20 per cento del reddito complessivo del Paese. A ciò si accompagna un consistente indebolimento della classe media: il reddito della famiglia media negli Stati Uniti è sceso nell’ultimo decennio di oltre il cinque per cento, ed era in calo già prima che subentrasse la recessione;
3) Scarsi investimenti nel settore pubblico, compreso nelle infrastrutture, messi platealmente in luce dal cedimento degli argini di New Orleans;
4) Un aumento del corporate welfare, dai salvataggi in extremis delle banche ai sussidi per l’etanolo, alla proroga dei sussidi agli agricoltori, addirittura dopo che proprio tali sussidi sono stati definiti illegali dall’Organizzazione Mondiale del Commercio.

In conseguenza di tutto ciò, è facile formulare un pacchetto di riduzione del deficit che migliori l’efficienza, rafforzi la crescita e riduca le disparità. Si rendono necessari cinque elementi basilari. Primo: la spesa per investimenti pubblici molto redditizi dovrebbe essere aumentata. Anche se ciò sul breve periodo inevitabilmente aumenta il deficit, a lungo termine porterà a una riduzione dell’indebitamento della nazione. Quale azienda non sarebbe disposta a lanciarsi e a investire in opportunità in grado di garantire utili superiori al dieci per cento, se solo potesse prendere in prestito capitali – come può fare il governo degli Stati Uniti – con un tasso di interesse inferiore al tre per cento?

Secondo: è indispensabile tagliare le spese militari, non solo i finanziamenti per le guerre inutili, ma anche i finanziamenti per armi che non funzionano contro nemici che non esistono. Noi abbiamo continuato a investire in questa direzione come se la Guerra Fredda non fosse mai giunta a termine, spendendo per la Difesa quanto spende il resto del mondo considerato nel suo complesso.

Da ciò si arriva al terzo punto, la necessità di eliminare il corporate welfare. Se da un lato l’America ha rimosso ogni rete di protezione per la popolazione, dall’altro ha rafforzato quella per le aziende come hanno platealmente attestato durante la Grande Recessione i salvataggi in extremis di AIG, Goldman Sachs e di altre banche. Al programma di assistenza alle imprese va circa la metà delle entrate complessive in alcune aree del comparto agricolo degli Stati Uniti. Per esempio pochi ricchi coltivatori ricevono miliardi di dollari di sussidi per il cotone, nel momento stesso in cui si registrano prezzi in calo e povertà in aumento tra i concorrenti del mondo in via di sviluppo.

Una forma del tutto particolare di sovvenzione offerta alle aziende è quella concessa alle società farmaceutiche. Anche se il governo è l’acquirente principale dei loro prodotti, non gli è consentito trattare sul prezzo, e di conseguenza così si alimenta un aumento degli utili del settore e di spese per il governo – quantificabili in mille miliardi di dollari nell’arco di dieci anni.
Altro esempio di questo fenomeno è la straordinaria abbondanza di benefit particolari concessi al settore energetico, specialmente petrolifero e del gas, circostanza che a uno stesso tempo depriva il Tesoro, dirotta l’allocazione delle risorse e distrugge l’ambiente. Seguono da vicino quelle che paiono offerte smisurate delle risorse nazionali, dalla banda di frequenza gratuita concessa alle emittenti, alle basse royalty esatte dalle società minerarie, ai sussidi per le aziende del legname.

Si rende pertanto necessario creare un sistema fiscale più equo e più efficiente, eliminando ogni trattamento speciale dei capital gain e dei dividendi. Perché mai coloro che lavorano per mantenersi dovrebbero essere soggetti a un prelievo fiscale maggiore di coloro che rovinano la loro vita speculando sulla loro pelle, e spesso a spese altrui? Infine, giacché oltre il 20 per cento del reddito complessivo va a finire nelle tasche del più fortunato uno per cento della popolazione, un leggero aumento – diciamo del cinque per cento – del prelievo fiscale effettivamente riscosso porterebbe nel giro di un decennio a incassare oltre mille miliardi di dollari. Un pacchetto di misure miranti alla riduzione del deficit strutturato secondo queste linee orientative risponderebbe più che mai alle richieste più esigenti dei falchi del deficit. Incrementerebbe l’efficienza, promuoverebbe la crescita, migliorerebbe l’ambiente e offrirebbe vantaggi ai lavoratori e alla classe media.

L’unico vero problema è che non arrecherebbe vantaggi a coloro che sono al vertice della piramide sociale, né alle imprese, né ad altri interessi speciali che sono ormai arrivati a dominare la politica americana. La sua logica così convincente è per l’appunto il motivo stesso per il quale ci sono davvero scarse possibilità che una proposta così ragionevole possa essere adottata.




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