mercoledì 29 agosto 2012

Monte dei Paschi in rosso per 1,61 miliardi, verso la “nazionalizzazione”. - Franco Ceccuzzi



Nuova svalutazione, questa volta da 1,52 miliardi, per la banca senese. Oltre all'azzeramento del marchio Antonveneta acquistato a carissimo prezzo dalla gestione Mussari, che per Profumo, però, non sarebbe il vero male del più antico istituto di credito del mondo.

Nuova pesante svalutazione dell’avviamento da parte del Monte dei Paschi di Siena nel primo semestre dell’anno, che ha prodotto un rosso da 1,61 miliardi di euro che si confronta con l’utile di 261,4 milioni dell’anno prima. La svalutazione dell’avviamento decisa dal cda della banca è di 1,52 miliardi alla quale si aggiunge la svalutazione integrale del marchio Banca Antonveneta. Il risultato operativo netto del semestre è invece calato a 182,5 milioni (-69,1%), mentre migliora al 10,8% (+50 punti base dall’inizio dell’anno) l’indicatore di solidità patrimoniale della banca, il Core Tier 1. Il dato, però, include 1,9 miliardi di Tremonti Bond.
Ancora guai, quindi, per la banca presieduta da Alessandro Profumo, per la quale è in arrivo un paracadute governativo da 2 miliardi di euro sotto forma di obbligazioni sottoscritte dal Tesoro, versione montiana dei Tremonti-bond di cui Siena aveva già usufruito, che saranno rifinanziati con una nuova emissione fino a 3,4 miliardi. E in base agli accordi, gli interessi della nuova emissione, in mancanza di utili da parte della banca verranno pagati in azioni, con la conseguenza abbastanza prevedibile, visti i risultati, che sul medio termine lo Stato italiano torni a fare il banchiere.  Ma da azionista di minoranza e, quindi, con tutti gli oneri del caso. 
I conti, oltretutto, hanno offerto la sponda ai vertici della banca che da tempo stanno trattando con i sindacati per un corposo piano di tagli. La semestrale di Mps, ha infatti subito commentato il direttore generale della banca, Fabrizio Viola, conferma“l’impossibilità di differire il piano” industriale 2013-2015, “anzi probabilmente anche di accelerare determinate azioni che sono ricomprese nel piano”, che include la chiusura di 400 filiali.
Secondo le ultime dichiarazioni del presidente Alessandro Profumo sul tema,  “i dipendenti delle 400 filiali che saranno chiuse saranno reimpiegati: 1.250 saranno spostati in altri sportelli e 500 in attività di sviluppo”. Per quanto riguarda gli oltre 2.000 dipendenti del Consorzio che gestisce il back office, l’ex amministratore delegato di Unicredit si è detto sicuro “che se nel corso delle discussioni con i sindacati verranno identificate soluzioni alternative che diano risparmi strutturali omogenei a quelli del piano industriale a noi andranno bene. Le attività amministrative assorbono e assorbiranno sempre meno valore”.  
Non più tardi di ieri, durante un dibattito alla festa locale del Pd, Profumo aveva lanciato il suo aut aut al territorio: “Razionalizzare il sistema distributivo e fare delle scelte. O le facciamo e cerchiamo di stare in piedi, o a un certo punto non ci stiamo più. La banca le sue scelte le vuole fare perché ha vissuto 540 anni e vuole viverne altri 540 – aveva detto-. Il fatto di vivere 540 anni, lo dico in modo chiaro, è messo a forte rischio. Perché noi oggi abbiamo una banca che vale 2,8 miliardi e abbiamo soldi dallo Stato per 3,4. Se si pensa che i 3,4 miliardi dello Stato siano una cosa dovuta al Monte dei Paschi dico che purtroppo non è così, sono aiuti di Stato”. 
Quanto ai suoi predecessori e, in particolare, alla gestione di Giuseppe Mussari, attuale presidente della Confindustria delle banche, l’Abi, fresco di riconferma, secondo Profumo “la qualità della gestione precedente non è stata buona perché altrimenti non avremmo dovuto chiedere 3,4 miliardi allo Stato”.  Tuttavia per il banchiere il nodo non sarebbe la carissima acquisizione di Banca Antonveneta, ufficialmente nel mirino della Procura dallo scorso 9 maggio.
“L’errore maggiore non è stato l’acquisto di Antonveneta ma l’acquisto 27 miliardi di titoli di Stato. Abbiamo un portafoglio che nessuno di noi avrebbe comprato con i propri soldi. Questi titoli di Stato oggi ci mangiano 5 miliardi di capitale. Senza di loro non avremmo avuto bisogno del supporto pubblico”,  ha detto Profumo. “Tolti questi problemi, dobbiamo comunque dire che la banca non guadagna un’euro e negli ultimi anni lo ha fatto con operazioni straordinarie”, ha poi ammesso sottolineando che “la senesità di banca Mps di fatto non c’è più, è stata di fatto perduta e deve essere riconquistata”. 
Parole che hanno parzialmente convinto l’associazione senese Confronti che ha invitato Profumo a rendere pubblici tutti gli atti sull’acquisto di Banca Antonveneta “per fare chiarezza e per un dovere di trasparenza che crediamo sia dovuto ai dipendenti, agli azionisti e a tutti i senesi”. Non solo. “Profumo ha detto che Antonveneta non è stato un buon affare e ha criticato pesantemente la gestione precedente di Mussari indicandolo come responsabile della situazione fallimentare che la banca sta vivendo. Viene da chiedersi come mai, allora, lo stesso Profumo lo abbia votato e sostenuto per ben due volte, e quindi anche come presidente della banca Mps, in un ruolo di alta responsabilità qual è quello di presidente dell’Abi”.
“Su Antonveneta, però, Profumo ha alcuni strumenti che gli danno la possibilità di far chiarezza: rendere pubblici tutti gli atti del contratto di acquisto e promuovere un’azione di responsabilità nei confronti dei vertici precedenti, visto che ha criticato aspramente la loro gestione, anche per ciò che riguarda l’acquisto di titoli di stato”, chiosa l’associazione che chiama in causa anche l’ex sindaco di Siena, 

martedì 28 agosto 2012

Non c'è bisogno di un commento.



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Vauro....



http://vauro.globalist.it/Detail_News_Display?ID=16116&typeb=0

Prezzi dei carburanti in Brasile.



I prezzi dei carburanti in Brasile da una foto che sta facendo il giro del web. Prezzi carburante in Brasile (1 reale= 0,39353 €)

http://www.salernonotizie.net/brasile-prezzi-carburanti.html

Calabria, arrestato consigliere regionale.


Il consigliere regionale Antonio Rappoccio

Antonio Rappoccio avrebbe promesso un posto di lavoro in cambio del voto.

REGGIO CALABRIA - Un rodato e cinico meccanismo di raccolta del consenso elettorale: è quello messo in atto, secondo quanto riferito dalla guardia di finanza di Reggio Calabria, dal consigliere regionale della Calabria Antonio Rappoccio, del gruppo Insieme per la Calabria-Scopelliti presidente in quota Pri, arrestato stamani per associazione per delinquere, corruzione elettorale aggravata, truffa e peculato perché, tra l'altro, avrebbe costituito società fantasma allo scopo di ottenere voti. Il gruppo di cui fa parte Rappoccio è composto da Pri e Udeur e non è inserito nella lista Scopelliti presidente. Il meccanismo che sarebbe stato ideato da Rappoccio, secondo l'accusa, ha operato attraverso l'attività di società strumentali che con il fine apparente di selezionare aspiranti lavoratori, ne captava e canalizzava il voto speculando sui bisogni e le aspettative di tanti giovani. La Procura generale, accogliendo una serie di richieste avanzate da Aurelio Chizzoniti, primo dei non eletti nella lista insieme per la Calabria e presentatore anche dell'esposto che ha dato il via all'inchiesta della Procura della Repubblica, ha avocato nel giugno scorso l'inchiesta della Procura a carico di altre 17 persone che aveva già portato al rinvio a giudizio, per corruzione elettorale semplice, di Rappoccio. L'avvocato generale dello Stato Francesco Scuderi, che ha avocato le indagini, contestualmente all'emissione dell'avviso di garanzia, aveva disposto una serie di perquisizioni effettuate ai primi di luglio dalla guardia di finanza a carico di Rappoccio e di altre cinque persone, Elisa Campolo, Luigi Mariani, Domenico Lamedica, Maria Antonia Catanzariti e Loredana Tolla.
L'accusa di associazione per delinquere nei confronti di Rappoccio nasce perché, secondo quanto contestato dalla Procura generale, il consigliere avrebbe promosso e ideato un articolato meccanismo fraudolento ponendo in essere una serie di condotte che gli consentissero, in occasione delle elezioni regionali del 2010, di essere eletto e di tentare di fare eleggere al Consiglio comunale di Reggio, nel maggio 2011, Elisa Campolo, che pur non venendo eletta ha ottenuto, secondo l'accusa, un gran numero di voti. Tale sistema, secondo l'accusa, avrebbe consentito a Rappoccio di disporre di un congruo "serbatoio" di voti in vista delle prossime elezioni politiche. Il politico, inoltre, in concorso con altri, e "attraverso la costituzione dell'ennesima società fantasma", la Sud Energia, e l'invio di lettere a firma del presidente del consiglio di amministrazione, ha indotto in errore un gran numero di elettori cui veniva promesso, in occasione delle elezioni comunali del maggio 2011, un posto di lavoro in cambio del voto a Elisa Campolo. Il consigliere regionale è accusato anche di truffa perché, per la Procura generale, insieme agli altri indagati, avrebbe indotto circa 850 persone a iscriversi alla cooperativa Alicante pagando 15 euro ed a partecipare, con il pagamento di altri 20 euro, ad un concorso "superando il quale, a dire del Rappoccio e dei suoi correi, avrebbero avuto concrete possibilità di lavoro". Il peculato, invece, è stato contestato perché, per convocare tutti coloro che lo avrebbero votato, hanno effettuato numerose telefonate dagli apparecchi installati nella sede del gruppo di Pri nel palazzo comunale di Reggio Calabria.

Trattativa Stato-mafia, Ferrara in tv attacca: “Fottuti pm”. - Carlo Tecce



Il direttore de Il Foglio insulta tutti durante il programma di Mentana "Bersaglio Mobile". Di Pietro minaccia di lasciare lo studio: "Diffama". Al centro della polemica Giorgio Napolitano e il conflitto d'attribuzione sollevato contro i pm di Palermo.

Non è semplice tenere fermo il bersaglio, e per l’appunto, ieri sera su La7, il programma di Enrico Mentana s’intitolava “Bersaglio Mobile”. Al centro c’è Giorgio Napolitano, la richiesta del Quirinale di sollevare davanti alla Consulta il conflitto d’attribuzione contro la Procura di Palermo perché conserva le telefonate (intercettazioni indirette) del Capo dello Stato con l’ex presidente del Senato, Nicola Mancino, coinvolto nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia che conducono i magistrati siciliani.
Quello è il centro, poi s’arriva ovunque. Mentana evidenzia il punto finale di un confronto accesso tra giornalisti e giornalisti, politici e politici, osservatori e commentatori: “Le due anime della sinistra, prima sulle stesse posizioni, adesso litigano. E qualcuno eccepisce sulla collocazione degli avversari”, dice citando Ezio Mauro (Repubblica) che colloca Il Fatto a destra.
MENTANA divide la trasmissione in quattro angoli: Marco Travaglio e Antonio Di Pietro da una parte; Giuliano Ferrara ed Emanuele Macaluso (per la sua cinquantennale sintonia con Napolitano) dall’altra. Da Reggio Emilia, c’è Francesco Boccia (Pd) che s’infila nel duello Bersani-Grillo: “È un milionario in pantofole, il comico genovese”.
Per tornare ai toni che ci si aspetta, basta ascoltare Ferrara: “La rissa lascia il tempo che trova. È tutto banale. In estate fa caldo, i magistrati vogliono fare carriera in politica, vogliono fondare i partiti e siamo sottomessi a questa canicola. Questa inchiesta di Palermo non sta in piedi. Non c’è stata una trattativa. In tribunale è finito Mario Mori, un generale dei carabinieri che ha arrestato Totò Riina. A Palermo dicono tante minchiate. Questa è una puttanata inverosimile. Ingroia – spiega il direttore del Foglio – ha insistito per portare avanti questo suo teorema, perché adesso vuole andare in Guatemala? Lui non vuole la verità, pensa a farsi notare sui media. I magistrati sono fottutissimi carrieristi”. A queste parole, Di Pietro minaccia di abbandonare la trasmissione: “Questa è diffamazione, io non partecipo”.
Per non abbassare il livello dello scontro, Mentana dà la linea a Torino, a Travaglio: “Non si fronteggiano garantismo e giustizialismo, in questa vicenda sono in palio le verità sugli anni delle stragi, sulla morte di Borsellino e l’Agenda rossa, un documento importantissimo. In questa vicenda è in gioco il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, un argomento che stava a cuore al centrosinistra quando al potere c’era Berlusconi. È in gioco la convinzione della classe dirigente di avere sempre l’impunità e, infine, è in gioco il bavaglio per impedire di fare le intercettazioni e permettere ai magistrati di indagare.
LA TRATTATIVA c’è stata – aggiunge il vicedirettore del Fatto – perché lo dicono delle sentenze definitive e ci sono dei documenti che lo dimostrano. Ingroia non ha mai detto di voler il segreto di Stato, voleva sapere se la Trattativa è stata fatta per una ragione di Stato, ma va detto chi e come e perché l’ha fatto”. Non aveva ancora parlato, allora chiede di intervenire Macaluso: “Ingroia sul Corriere dice: ‘Non strumentalizzate gli attacchi a Napolitano’. Lui dice che il presidente della Repubblica è stato il perno fondamentale per la garanzie democratiche di questo Paese. Chi è che strumentalizza Napolitano? Ecco, Travaglio. Il presidente non ha fatto nulla di male, si è rivolto alla Consulta per un vuoto costituzionale. Aspettiamo la decisione (Ma Travaglio gli ricorda che il Quirinale aveva accusato la Procura di aver violato l’articolo 90 della Costituzione, ndr). Questa di dire che – aggiunge lo storico esponente del Pci – ci sia qualcuno che ostacola la verità è una campagna di stampa. Tanti giuristi dicono che sia giusto che la Corte debba fare questo. E questi giuristi sul Fatto vengono definiti di corte. Chi non la pensa come Travaglio e il Fatto è di corte. La questione è che bisogna rispettare lo Stato di diritto e le sue regole: i conflitti di attribuzione li risolve la Corte costituzionale. Il problema è politico: nel centrosinistra c’è il conflitto senza strumentalizzare la Procura. Tutto è accaduto con la nascita del governo Monti: ha iniziato proprio Di Pietro! E ancora Grillo, che dà dell’assassino”. Finisce Macaluso, continua Boccia. Insieme, a difendere Napolitano.
da Il Fatto Quotidiano del 28 agosto 2012

I sondaggisti bocciano Bersani: “La risposta a Grillo? Sarà come un boomerang”.

bersani grillo

Spin doctor e sociologi (quasi) tutti d'accordo: il segretario del Pd ha finito per favorire il gioco del leader del Movimento 5 Stelle. Solo Mannheimer vede positivo: "E' per serrare le file". Amadori: "Possibili effetti negativi sugli indecisi". Crespi: "Come un'accelerata contro un muro". Piepoli: "Lo scontro non produce ricchezza".


L’uscita di Pierluigi Bersani è stato un errore. Non avrebbe dovuto rispondere alle critiche di Beppe Grillo, avrebbe dovuto e anzi dovrebbe ancora evitare lo scontro a distanza, che si è rinnovato oggi. Gli esperti di sondaggi, spin doctor e sociologi contattati dal Fattoquotidiano.it bocciano la strategia del segretario del Partito Democratico. Anzi, per alcuni di loro non c’è stata proprio strategia: il leader dei democratici ha risposto perché innervosito dalle critiche di Grillo. Ed è caduto nella sua rete. Resta da interpretare l’effetto che le parole di Bersani avranno sull’elettorato democratico. L’elettorato di centrosinistra è in un momento di smarrimento (con l’avvicinamento all’Udc e la rottura con Di Pietro): questo messaggio forte e chiaro a Grillo servirà a serrare le file? O piuttosto è una “caduta di stile”? E il modo, le forme: perché Bersani non ha contestato nel merito Grillo? Il rischio è che come minimo tutto questo non porterà un solo voto in più. Anzi, il rischio è di un effetto boomerang o di un’emorragia di voti.
Mannheimer: “Bersani vuole rafforzare il senso d’appartenenza”. “Bersani lo ha fatto per rafforzare il senso di appartenenza del suo elettorato contro le ‘sirene’ di Grillo” riflette Renato Mannheimer, guida dell’Ispo (l’Istituto di ricerca sociale, economica e di opinione). “C’è il rischio di sottovalutare il malcontento – spiega – quello che sta sotto Grillo il cui movimento rappresenta e raccoglie una disaffezione forte rispetto alla politica”.  Su possibili ricadute sulla popolarità dei Democratici Mannheimer appare sicuro: “Rispetto alla situazione attuale non è detto che il Pd, da questo scontro, non abbia dei vantaggi. La strategia di Bersani non è quella di ledere Grillo, ma ancorare il senso di appartenenza del suo elettorato. Il segretario del Pd – riflette Mannheimer –  dovrà piuttosto affrontare una serie di questioni per comprendere quello che sottostà a Grillo per poterlo inglobare”.
Sui toni accesi dei due duellanti il sociologo non si mostra sorpreso: “A mio parere la durezza del linguaggio è stata usata apposta appunto per rinsaldare il proprio elettorato in un momento di difficoltà del Pd, un partito che appoggia il governo. Ed è contro questo sbandamento elettorale che viene usato un linguaggio forte”. Ricorrere alle parole incisive non è una strategia nuova: “E’ sempre stato utilizzato anche in passato – aggiunge Mannheimer – Per esempio negli anni Cinquanta si diceva di non votare per i democristiani ‘perché sono tutti ladri’”. Tuttavia, secondo il sondaggista del Corriere della Sera e di Porta a Porta, lo scontro tra Bersani e Grillo non provocherà danni ai consensi del Pd allo stato: “Non ho idee per il futuro, ma allo stato questo scontro non sembra avere prodotto danni per il Pd, almeno a mio parere”.
Amadori: “Sarà effetto boomerang”. Secondo Alessandro Amadori di Coesis Research e autore di “Mi consenta” non c’è invece nessuna strategia dietro le dure repliche di Bersani. Eppure questa scelta “potrebbe avere un effetto boomerang dal punto di vista elettorale”. Specie per gli elettori indecisi, che “sono circa il 50%”. Il segretario del Pd infatti prende di mira i modi e non le accuse lanciate dal leader 5 Stelle che, di fatto, sono “in gran parte condivisibili”. L’assenza di contenuti è quindi il tallone d’Achille della polemica dei democratici. Di fatto “in vent’anni – spiega il sondaggista – centrodestra e centrosinistra si sono spartiti il potere, e non hanno fatto nessuna legge contro la corruzione e il conflitto di interessi“. Proprio come ha scritto Grillo, insomma. La replica di Bersani, in sostanza, “non fa che rafforzare le accuse del comico, visto che non contraddicono i contenuti e si limitano a contestarne i modi”. “Fascisti”, appunto. Il botta e risposta “evidenzia inoltre che il Movimento 5 Stelle, unico elemento di vivacità e perturbazione nello scenario di stallo della politica italiana, è un problema per il Pd, perché è in grado di intercettare diverse correnti di elettori, da destra a sinistra. Ma soprattutto a sinistra”. E alle prossime elezioni “può raccogliere l’8% su base nazionale e pesare così più dell’Udc”.
Crespi: “Un’accelerata contro un muro”. Per Luigi Crespi, storico sondaggista e spin-doctor di Silvio Berlusconi prima di una valanga di guai giudiziari, per i Democratici il confronto con il Movimento 5 Stelle potrebbe essere un bagno di sangue: “Più che uno scontro è una accelerata contro il muro – spiega – Quella di Bersani è una posizione totalmente sbagliata. Non è uno scontro volgare, non sono solo battute: è ancora peggio, è un conflitto necessario. Bersani dice quello che dice, come Ezio Mauro dice scrive quello che scrive perché uno deve fermare l’emorragia di voti dal Pd al movimento di Grillo e l’altro da Repubblica al Fatto. Entrambi temono l’alternativa alla loro posizione. Mauro dice occhio che quelli – per colpa di Berlusconi – sono di destra, l’altro (Bersani,ndr) dice dei militanti del 5 Stelle che sono fascisti”.
Secondo Crespi il motivo è semplice: “Il nemico non è più Berlusconi che è stato sconfitto, ma è Grillo. Ma è evidente che con questa operazione Bersani perde la credibilità. Berlusconi, per esempio, ha sempre espresso con coerenza la sua posizione contro i giudici e la giustizia, chi lo ha votato sapeva benissimo come la pensava. Chi ha votato il Pd sapeva che per quel partito la magistratura era uno strumento per cambiare la società. Ora lo schema è cambiato perché i magistrati toccano uno di loro, toccano Napolitano. Stessa riflessione sul caso Ilva di Taranto per cui i magistrati diventano i nemici. In questa situazione – secondo il sondaggista – vince chi rimane coerente, chi non cambia posizione e per questo il Pd subirà un danno gravissimo”. Un errore politico, ma anche di comunicazione quello del possibile capo di un governo di centrosinistra: “Bersani usando l’espressione ‘fascisti del web‘ ha ha girato la testa verso il Novecento con un linguaggio vecchio e arcaico. Il Pd ha usato lo stesso linguaggio che usava Berlusconi con i comunisti. Quelli del Pd si sono berlusconizzati, di fatto legittimando Berlusconi. Con la sua affermazione, separando la rete dalla realtà Bersani ha sbagliato. Non ha capito che la realtà è nella rete. Non è solo una battuta infelice la sua, è un errore culturale che rischia di emarginalizzare il Pd. Temo che se continueranno così si renderanno non competitivi”. 
Piepoli: “Lo scontro non produce ricchezza”. Anche Nicola Piepoli considera quello di Bersani un errore. Frutto, sostiene, di un “cattivo vizio”, cioè quello di “intendere il dialogo sottoforma di scontro e lo scontro non produce ricchezza. E la ricchezza in politica è il consenso”. Piepoli, insomma, spiega che così il segretario del Pd è stato al gioco di Grillo che definisce “malato: non so come si possa chiamare, se paranoia o schizofrenia”. Quindi altro che strategia: Bersani c’è caduto con entrambe le gambe. E l’errore è stato doppio: non solo perché è stato al gioco di Grillo. Ma anche perché il Pd non è in difficoltà, secondo i sondaggi. “Secondo Alessandra Ghisleri (sondaggista di fiducia di Berlusconi, ndr) il Pd ha il 24% dei consensi. Secondo noi ha il 26. E dall’altra parte il Pdl secondo la Ghisleri ha il 20 per cento e secondo noi il 18. Ma non cambiano molto le cose. Bersani doveva tacere. Il tacere è bello. Del resto lo diceva anche Dante, no?”.