martedì 9 aprile 2019

Lobby continua. - Milena Gabanelli e Luigi Offeddu



Bruxelles supera Washington e si consacra capitale mondiale del lobbismo: sono 11.801 i gruppi di pressione elencati nel Registro della Trasparenza istituito dalla Commissione Europea.

A Bruxelles si fanno le leggi che riguardano 508 milioni di cittadini, e le lobby lavorano perché non contrastino gli interessi di imprese e associazioni che rappresentano: industrie, aziende private, grandi studi legali, ma anche sindacati, ong, associazioni di consumatori.

Ai primi posti nella classifica ci sono il Cefic o Consiglio delle industrie chimiche europee (12 milioni di euro di spese minime dichiarate nel 2018), Google (6 milioni nel 2017), Microsoft (5 milioni), BusinessEurope (la Confindustria europea, 4 milioni). C’ è anche Huawei, il colosso cinese della telefonia, 2.190.000 di costi dichiarati nel 2017.

Fra i singoli Paesi, l’ Italia, con 841 lobby, è al quinto posto dopo il Belgio (dove ovviamente si registrano molti gruppi stranieri), la Germania, la Gran Bretagna, la Francia. Fra le principali, per costi minimi dichiarati, troviamo: Altroconsumo (5 milioni di euro), Enel (2 milioni), Eni (1.250.000), Confindustria (900.000). Tutti insieme, i quasi dodicimila gruppi di pressione di Bruxelles spendono circa 1,5 miliardi all’ anno. A che cosa servono? A mantenere uffici e personale, a fare convegni e campagne d’ opinione in diversi Paesi. O a comprare voti, leggi e figure delle istituzioni, questo è il dubbio spesso evocato.

Il lavoro del lobbista è quello di contattare commissari ed eurodeputati trasmettendo loro idee per emendare questa o quella norma. Commissari e deputati, a loro volta, hanno bisogno di confrontarsi per sapere quanto e come incidono le direttive nei vari settori dell’ impresa e della società. Un’ attività legale quindi, purché avvenga alla luce del sole. Infatti ci sono delle transenne: se vuoi incontrare un commissario europeo, per esempio, devi essere iscritto nel Registro della Trasparenza.
Ma il problema dei controlli resta: «Mentre la Commissione obbliga i lobbysti a registrarsi prima che qualsiasi incontro possa aver luogo – spiega Raphael Kergueno, del sito Integrity Watch legato a Transparency International – esercitare il lobbysmo con gli eurodeputati e i delegati nazionali al Consiglio resta invece un’ attività largamente non regolata. Solo quando il registro coprirà tutte e tre le istituzioni potremo verificare i comportamenti di coloro che a Bruxelles prendono le decisioni politiche».
Ci sono tanti modi per fare lobbysmo, e a Bruxelles bisogna esserci, altrimenti ci sono solo gli «altri». L’ Ong Altroconsumo ha scritto nel 2018 agli eurodeputati italiani, chiedendo loro alcuni emendamenti a una proposta di direttiva sulle vendite a distanza.
Si voleva che anche ai beni digitali fossero estese ampie garanzie contro i difetti di funzionamento, e così è stato. Sempre Altroconsumo ha influenzato le direttive Ue contro l’ impiego degli antibiotici negli allevamenti intensivi. Slow Food ha fatto sentire la sua voce nelle direttive sugli Ogm. Altroconsumo dichiara di essere finanziata al 98,08 % da quote e abbonamenti degli associati.
Slow Food, costi minimi di 800.000 euro per il 2017, riceve sovvenzioni Ue per 730.285 euro e un contributo di 816.331 euro degli aderenti.

Il lobbysmo delle imprese è più aggressivo.
Di norma, ogni proposta di legge raccoglie in Parlamento 50-100 emendamenti, ma a volte sono molti di più, e in questi casi possono infilarsi quelli proposti – o scritti direttamente – dai lobbysti, e ricopiati pari pari dai deputati. Quando si discusse l’ ultima riforma della politica agricola, gli emendamenti furono 8.000. Per la direttiva che avrebbe dovuto regolare meglio gli «hedge fund», i fondi di investimento a rischio, ne piovvero 1.600: secondo fonti ufficiose, metà erano stati scritti direttamente dai lobbysti della finanza.
Anno 2013, direttiva sulla protezione dei dati personali firmata dalla commissaria Ue Viviane Reding, che parlerà poi di «lobbying feroce». Un esempio, l’ articolo 35 del testo originale della direttiva dice: «Il controllore e il processore (di certi dati personali, ndr ) devono designare un responsabile della protezione…». La lobby della Camera di Commercio americana chiede che al «devono» si sostituisca un più morbido «possono». Il deputato conservatore inglese Sjjad Karim rilancia: nel suo emendamento, accolto, si legge «dovrebbero». La differenza fra «dovrebbero» e «devono» non è banale: sparisce l’ obbligo tassativo.

L’ ultima guerra fra le lobby è scoppiata intorno alla direttiva sul copyright, appena approvata dall’ Europarlamento. Da una parte Google e gli altri giganti dell’ high tech, dall’ altra musicisti, editori, giornalisti, e le società che raccolgono i loro diritti d’ autore, schierate contro il «no» allo sfruttamento gratuito sul Web di opere che hanno diritto a un copyright.
Dal novembre 2014 agli inizi del 2019 si sono avuti 765 incontri fra lobbysti e Commissione, nei cui verbali compare la parola «copyright». Google ha avuto tre incontri al mese per tutto il 2018 con i vertici della Commissione (e le associazioni per i diritti d’ autore ancora di più). In estate, i deputati Verdi sono stati bombardati da tremila email pro o contro le nuove norme. Virginie Roziere, deputata favorevole, ne ha ricevute 400 mila, tutte contrarie. Alla fine la direttiva ha disposto che i giganti dell’ high-tech (nonostante le pesantissime pressioni) ora debbano chiedere le autorizzazioni, pagare autori ed editori, e intervenire sulle violazioni dei diritti.

Un’ altra guerra è stata quella accesa dalle norme sulla plastica monouso. Il Cefic, l’ ombrello delle industrie chimiche (oggi schierato contro la plastica), nel 2010 dichiara sei milioni di costi di lobbying, che nel 2018 diventano 12. Nel frattempo, dal dicembre 2014 al febbraio 2019, ottiene 80 incontri con la Commissione Europea, più o meno uno ogni 23 giorni. Significa che questa è una lobby influente, ascoltata. Poi c’ è il pianeta di «Big Pharma». Secondo un rapporto del 2015, le lobby dei farmaci spendono tutte insieme 40 milioni di euro. Questi investimenti riguarderebbero anche le decisioni sui diritti di proprietà, o i delicati test sui farmaci.

Altro settore «caldo» è quello dell’ automobile. Le spese delle sue lobby a Bruxelles sono passate dai 7,6 milioni di euro del 2011 ai 20,2 milioni nel 2014. Indizio per azzardare un perché: nel 2013 si discutevano le norme Ue sulle emissioni di Co2 delle auto, nel 2014 quelle sull’ ossido d’ azoto.
L’ attività delle lobby è per sua natura opaca, e il panorama non è sempre tutto bianco o tutto nero. A volte è proprio nero. Novembre 2010-marzo 2011, due giornalisti del Sunday Times con telecamera nascosta si presentano come lobbysti a Ernst Strasser, capogruppo del partito popolare austriaco: «Vorremmo cambiare una direttiva, ci aiuta?». Lui accetta, loro pubblicano tutto. Strasser finirà in carcere per corruzione. 
Come l’ eurodeputato sloveno Zoran Thaler e il romeno Adrian Severin, incastrati dalla stessa telecamera. Stessa disponibilità: 100.000 euro a colpo.
Un anno dopo, ottobre 2012, il commissario Ue alla Salute, il maltese John Dalli, viene cacciato per i suoi legami con un lobbista del tabacco. Per aggiustare una direttiva Ue c’ erano in ballo 60 milioni.

https://infosannio.wordpress.com/2019/04/08/lobby-continua-2/?fbclid=IwAR2zpbq3SkCftGqRE3JIdpUD-s1xIY29G3OqUHotT7pV8sMIZ-52i7DtYKQ

Milano, per Metropolitana autonoleggio d’oro: paga 70 Panda come fossero suv. “Abbiamo già modificato il contratto”. - Thomas Mackinson

Milano, per Metropolitana autonoleggio d’oro: paga 70 Panda come fossero suv. “Abbiamo già modificato il contratto”

La municipalizzata milanese ha noleggiato un centinaio di Fiat 1.200 di cilindrata per 84 mesi, vale a dire sette anni, a 535,68 euro. Al termine del contratto ognuna sarà costata quasi 50mila euro. "Ipotesi di danno erariale da due milioni", denuncia con un'interrogazione il consigliere Fabrizio De Pasquale (FI). La società risponderà entro il 23 aprile, ma fa sapere di aver rivisto le tariffe a gennaio. 


Milano una controllata municipale riesce nell’impresa di noleggiare 70 Panda al costo di un suv e forse più. Si tratta di Metropolitana Milanese Spa (MM), società di ingegneria che serve il capoluogo nel trasporto, nella gestione del patrimonio immobiliare e nel servizio idrico con un migliaio di dipendenti. A fare le pulci al suo parco auto è il consigliere comunale di Forza Italia, Fabrizio De Pasquale, che ha presentato un’interrogazione agli uffici di Piazza Scala ipotizzando un danno erariale vicino ai due milioni di euro. MMspa, in sostanza, avrebbe noleggiato un centinaio di Fiat Panda 1.200 di cilindrata per 84 mesi, vale a dire sette anni, a 535,68 euro. La Panda, a fine vita, verrebbe così a costare 45mila euro quando sul mercato te la danno a 15mila “chiavi in mano”. Per De Pasquale quella tariffa tutto sarebbe fuorché un “affare”, atteso che Consip – la centrale unica per gli acquisti della Pa – riporta per analoghi modelli condizioni e prezzi decisamente più convenienti, inferiori anche alla metà rispetto al prezzo praticato per le Punto a nolo di MM.
La controllata MM sta lavorando per rispondere agli uffici per le partecipate del Comune e da qui al consigliere, ma a Libero ha già risposto che contratto e tariffe in questione sono stati rivisti a gennaio di quest’anno “allineando la fornitura ai prezzi di mercato”. Dichiarazione che suona come un’implicita ammissione, anche se MM fornirà una più articolata ed esaustiva risposta al suo azionista entro una decina di giorni ancora.
Dal canto suo, Consip – interpellata dal Fattoquotidiano.it – precisa che gli enti locali, diversamente delle amministrazioni statali, non hanno l’obbligo di utilizzare le convenzioni attivate dalla centrale acquisti. Qualora però decidano di rivolgersi al mercato libero (teoricamente) sono tenuti a optare per beni/servizi di costo inferiore al prezzo-parametro individuato da Consip a seguito di una gara. Qualora optino poi per servizi e beni diversi e più cari, devono giustificare questa scelta specificando perché quelli proposti dalla centrale non soddisfano per caratteristiche le esigenze dell’ente. La Corte dei Conti infatti potrebbe decidere di vederci meglio e intervenire contestando la decisione.
Nell’interrogazione il consigliere chiede poi conto delle modalità di esecuzione della gara e dei successivi rinnovi. Spostando le lancette all’inizio della storia si va al 9 gennaio 2015, quando MM indice la gara per il noleggio a lungo termine per 84 mesi con termine per le offerte in data 23 febbraio. L’appalto viene aggiudicato all’unica concorrente, la Arval Service Lease Italia Spa per quasi sei milioni (5.990.796,00). In realtà Arval era già fornitore della controllata dal 2008 grazie a un appalto di 48 mesi poi prorogato di 28 mesi, “nonostante il capitolato prevedesse un massimo di 6 mesi” e sei ulteriori di proroga tecnica. Nel 2015 viene indetta la nuova gara ma si presenta ancora e solo Arval che ottiene di fatto la commessa per oltre 10 anni.
De Pasquale ritiene che possa ave inciso la “breve durata concessa per la presentazione dell’offerta” pari a 45 giorni, tra il 9 gennaio e il 23 febbraio 2015. Nell’appalto sono state noleggiate con ARVAL 45 Fiat Panda 1200 di cilindrata a benzina al canone mensile di 535,58, 38 Opel Combo 1300 diesel con canone mensile a seconda dell’allestimento che varia da 518,50 a  574,62 euro (Panda e Combo hanno una percorrenza annua compresa di 8000 km), mentre per furgoni più grossi i canoni come il Fiat Ducato 595,42 o per gli Opel Movano da 728,35.
Prezzi alti, altissimi, visto che nel 2017 MM – attraverso Consip con fornitore Lease Plan Spa – noleggia una trentina di Fiat Panda 1200 al canone mensile di 223,748 euro (con percorrenza di 15000 chilometri annui) e una Opel Mokka 1600 diesel 4×4 al canone mensile di € 336,964 e una durata contrattuale di 48 mesi. Ragion per cui De Pasquale parla di ipotesi si danno erariale per i canoni sopra riportati. “In sintesi una Panda 1200 benzina costa in 7 anni di noleggio 44.988,72 euro con una percorrenza annua di solo 8000 km, mentre adottando la proposta Consip i canoni sarebbero stati inferiori del 60% circa e avrebbero avuto una percorrenza annua quasi doppia, cioè di 15000 chilometri. Questa abnorme differenza applicata a ben 72 veicoli, avrebbe procurato un danno erariale per i 7 anni di quasi 1.900.000”. Ad MM tocca ora la risposta.

lunedì 8 aprile 2019

Le 4 balle che ci raccontano sulla crisi dell’economia italiana. - Paolo Becchi e Giovanni Zibordi



Ci sono una serie di balle che continuano a circolare su un giornalone di cui non vogliamo fare il nome, perché non è certo nostra intenzione fargli pubblicità. Con tanto di grafici vorremmo smontare tutte queste balle una vota per tutte.

1 balla. Il primo, e forse il più micidiale di questi luoghi comuni riguarda la nostra moneta unica. Il M5Stelle e la Lega hanno vinto le elezioni con una piattaforma “no euro”. La realtà delle cose e il buon senso degli italiani, primo fra tutti il presidente della Repubblica, si sono poi fatti carico di smorzare i loro entusiasmi isolazionisti. Ma questo governo continua a comportarsi come se l’euro fosse una gabbia dalla quale non si può liberare.
Trascuriamo le cosiderazioni politiche. Sono irrilevanti. Ognuno è libero di scrivere le cazzate che vuole. Passiamo però ai fatti. La produzione industriale, che in un paese senza materie prime è quello che da da mangiare, prima dell’euro cresceva in linea con quella degli altri maggiori paesi. Dall’introduzione dell’euro è collassata.
Difficile che sia una mera coincidenza perché la stessa cosa, anche se in misura minore, è accaduta per la produzione industriale della Francia.
Ancora oggi in Italia è del -22% sotto il livello del 2008 e neanche negli anni ‘30 della Grande Depressione è successo, perchè nel giro di tre anni la produzione tornò sopra i livelli del 1930. L’unico crollo di oltre il -20% della produzione mai verificatosi è tra il 1942 e il 1946 causa una guerra persa.
A cosa è dovuto il crollo, avvenuto soprattutto tra il 2008 e il 2013 ?
In Italia, la domanda interna, cioè la spesa dei cittadini è sprofondata del -12% in questi cinque anni e quindi nonostante un ottimo andamento dell’export, dato che la domanda interna è ¾ del totale della domanda, la spesa totale si è ridotta di colpo. In Germania e Francia ad esempio la domanda interna non si è ridotta.
GOVERNO MONTI
Il motivo? L’austerità ovviamente, il blocco della spesa pubblica e l’aumento delle tasse, soprattutto sotto il governo Monti. L’Italia è stato l’unico paese a ridurre i deficit pubblici dopo il 2009, per cui mentre tutti facevano deficit tra il 5 e l’8% del PIL noi siamo stati gli unici a riportarli sotto al 3%. Abbiamo dovuto causa lo “spread” ? Come mai prima dell’Euro non si sentiva mai parlare dello “spread” ? Perchè Bot, CCT e BTP erano in mano a famiglie italiane le quali se il rendimento cresceva non vendevano i titoli solo perchè il prezzo oscillava in basso. Solo le banche e i fondi esteri liquidano di colpo i BTP e però lo facevano per motivi loro, nel 2008 liquidavano titoli di ogni genere perchè stavano fallendo causa derivati su mutui in altre parti del mondo. Le Banche estere con l’euro erano arrivate a detenere 1,300 mld di titoli italiani e li hanno liquidati di colpo.
Con la crisi globale del 2008, dovuta ad una “bolla” dei mutui e dei derivati sul debito immobiliare in USA, Spagna, Irlanda ecc.. le banche in tutto il mondo sono andate in crisi, molte hanno dovuto essere salvate dai loro Stati e di conseguenza si è creato panico sui mercati del debito e le banche maggiori hanno venduto di colpo titoli di ogni genere, tra cui anche i nostri BTP di cui con l’euro si erano riempite arrivano ad averne per 1,300 miliardi.
L’effetto dell’euro è stato di far uscire le famiglie italiane e far entrare al loro posto massicciamente le banche estere come acquirenti di BTP, con i danni che sono ben noti a tutti.
2 balla. Bisognerebbe allora ricordare che solo grazie alla moneta unica l’Italia ha potuto in questi anni sostenere il peso di un debito pubblico che avrebbe schiantato qualsiasi altra valuta. Nel 2001, quando c’era ancora la lira, gli interessi sul debito pubblico ci sono costati l’equivalente di 79 miliardi di euro. Nel 2018, nonostante il debito sia passato da 1.400 a 2.300 miliardi, gli interessi sono scesi a 65 miliardi.
L’Italia come Stato ha pagato dal 1980 quasi 4 mila miliardi di interessi sui titoli di stato (in euro di oggi), cioè due volte e mezzo il PIL attuale che è di 1,700 miliardi e quasi il doppio del debito pubblico che 2,340 miliardi. Il debito pubblico è dovuto all’accumulo degli interessi che si sono cumulati su debiti contratti in molti anni.
Nessuno ha pagato quanto lo stato e quindi i contribuenti italiani di interessi, più di qualunque altra nazione al mondo dopo gli Stati Uniti. E in percentuale del reddito nazionale più di chiunque. Abbiamo arricchito le banche e i fondi esteri che si sono riempiti di BTP quando grazie all’euro sono stati garantiti che il tasso di cambio non sarebbe sceso. Per un cittadino italiano con in tasca le lire se il tasso di cambio della lira scendeva non importava, comprava lo stesso BTP o CCT se rendevano più dell’inflazione. Ma per gli stranieri era importante non perdere sul cambio e con l’euro hanno potuto garantirsi da quel rischio. Il risultato è stato che gli interessi che prima rimanevano in Italia sono finiti all’estero. Non importa pagare 65 miliardi invece di 79 se questi soldi poi vanno a banche francesi, fondi del Qatar o fondi pensione giapponesi! Sono soldi delle tasse degli italiani che con l’euro sono andati ad arricchire i ricchi di tutto il mondo (azionisti e proprietari di banche e fondi).
L’EXPORT
3 balla. Lo stesso discorso vale per le esportazioni: nonostante l’impossibilità di ricorrere a svalutazioni competitive, l’Italia registra da anni un forte attivo della bilancia commerciale.
Il saldo delle bilancia commerciale è fatto di esportazioni meno importazioni. Con l’euro il cambio era forte, le importazioni erano meno care e il risultato è che l’Italia è andata in deficit con l’estero fino al 2011, grazie al boom delle importazioni.
Come di vede dal grafico però l’austerità imposta dall’euro ha fermato le importazioni per cui il saldo con l’estero è migliorato, ma grazie alla perdita di reddito e quindi di spesa e poi anche di importazioni. Se deprimi l’economia, spendi meno e importi di meno certamente migliora il saldo della bilancia commerciale. Ma hai mandato in rovina il paese.
4 balla. Se tutto questo non si è tradotto in crescita economica, come è avvenuto in tutti gli altri Paesi della Ue, la colpa non è dell’euro, ma dei governi che hanno lasciato declinare la produttività e la competitività del Paese. Fino ad arrivare all’attuale governo anti-europeo: il primo che sia riuscito ad imporre all’Italia, unica in Europa, una recessione le cui cause sono essenzialmente politiche e non economiche.
La produttività in Giappone e Corea è più bassa che in Italia (se si cercano le statistiche del PIL diviso ore lavorate, si scopre che siamo meglio noi). Nel Regno Unito la produttività negli ultimi dieci anni è piatta, non cresce, come in Italia. Ma in Giappone, Corea e nel Regno Unito il reddito ha continuato a crescere e la disoccupazione è tra il 3 e il 4% mentre in italia è l’11%. Quello che invece differenzia l’Italia da tutti gli altri è il crollo della domanda interna, della spesa, dovuto al taglio indiscriminato del credito da parte delle banche italiane nei confronti delle imprese e all’austerità con l’aumento continuo delle tasse.
Come si vede dal grafico la forza della Germania è che ha continuato a spendere, la “domanda aggregata” tedesca (il termine che si usa per indicare la spesa totale all’interno di un economia di beni e servizi) ha continuato a salire. La differenza l’ha fatta la spesa, che in Italia è collassata. Noi abbiamo avuto meno soldi da spendere, perchè sono state aumentate le tasse di circa 40 miliardi e perchè le banche hanno tagliato il credito alle imprese di oltre 200 miliardi. Se avessimo avuto la nostra Banca Centrale al posto della BCE questa avrebbe garantito le banche per non spingerle a tagliare il credito e avrebbe finanziato i deficit pubblici per non far aumentare le tasse.

Brexit, perché Macron è così intransigente con Londra. - Riccardo Sorrentino



Su Brexit è il più rigido, insieme agli spagnoli e ai belgi. Il presidente francese Emmanuel Macron si è contraddistinto, in questa fase, per la severità con cui risponde alle continue, e spesso confuse, richieste di rinvio da parte britannica. Al punto da mostrare di non temere una Brexit dura. I media d’oltremanica – il Financial Time in testa – lo hanno addirittura paragonato a Charles De Gaulle, che nel 1963 pose il veto all'ingresso del Regno Unito nella Cee, rievocando la storica – ma in realtà relativa, soprattutto nell'ultimo secolo – rivalità tra Parigi e Londra. Perché tutta questa intransigenza?
Calais collo di bottiglia.La risposta non è semplice. La Francia, insieme all’Irlanda, rischia di essere una delle economie più colpite dall'uscita del Regno Unito dall’Unione europea. I rapporti sono molto stretti, Parigi gode con il partner di un surplus commerciale che non può vantare con molti altri paesi (l’economia è cronicamente in deficit). La transizione da un regime di libera circolazione a uno ‘doganale’ rischia inoltre – soprattutto in caso di Brexit senza accordo – di bloccare temporaneamente l’intero nord del Paese: Calais, e pochi altri porti sulla Manica, potrebbero diventare uno strettissimo collo di bottiglia. Malgrado tutti i preparativi e tutte le precauzioni che il governo ha preso da tempo alla luce di simulazioni catastrofiche.
Brexit «troppo» a ridosso del voto europeo.Un primo motivo dell’intransigenza è proprio qui, nel caos, probabilmente inevitabile in ogni caso, della transizione. Macron ha tutto l’interesse di evitare che accada a ridosso delle elezioni europee, previste il 26 maggio. Non è nei suoi interessi – e forse non lo è nell’interesse di una sana formazione del consenso popolare, libera da elementi emotivi transitori – far votare i francesi mentre la situazione del traffico diventa temporaneamente insostenibile in una regione meno fortunata di altre e molto vicina alla destra del Rassemblement (ex Front) national. Come dimenticare che la protesta dei Gilets gialli è scoppiata attorno al tema dell’auto: caro benzina, costi delle revisioni, nuovi limiti di velocità?...
Il consenso di Macron.Ecco perché Macron ha insistito molto, il 22 marzo, sulla data del 7 maggio per l'uscita con accordo, mentre il Consiglio Ue ha optato per quella del 22 maggio, molto vicina al giorno delle elezioni (previste in Francia per il 26). Se il parlamento di Londra avesse approvato l’intesa firmata con Michel Barnier, Macron avrebbe sicuramente avuto problemi di consenso, di fronte agli inevitabili intoppi doganali dei primi giorni. Al momento, il suo partito gode nei sondaggi del 23% – piuttosto stabile – delle intenzioni di voto (in forte calo dal 32% delle politiche), contro il 21-22% – più volatile – della destra di Fn (in flessione dal 24,9% delle ultime europee ma in rialzo dal 13,2% delle politiche).
Un no anche al rinvio lungo.La questione elettorale, però, è anche più complessa. Macron ha anche respinto l’ipotesi del presidente del consiglio Ue, Donal Tusk, di un’estensione flessibile di Brexit di un anno. Eppure questa soluzione avrebbe consentito al presidente francese di affrontare le ricadute del nuovo regime dopo il voto europeo. Non si può però pensare che il presidente voglia usare le difficoltà della Gran Bretagna – che emergeranno in realtà nel medio periodo – per la sua campagna elettorale, tutta europeista. Qualcos’altro è in gioco.
La redistribuzione dei seggi.Un’estensione lunga imporrebbe alla Gran Bretagna di partecipare alle elezioni. I 73 seggi destinati a Londra non verrebbero redistribuiti. In caso di Brexit, invece, la Francia otterrebbe cinque seggi in più (79 in totale) come la Spagna contro i tre in più di Italia e Olanda, i due dell’Irlanda e l’uno in più di Polonia, Romania, Svezia, Austria, Danimarca, Finlandia, Slovacchia, Croazia ed Estonia (gli altri, Germania compresa, resterebbero al livello del 2014). La redistribuzione è una ’leva’ importante per i voti francesi (e spagnoli)
Macron come ago della bilancia.Anche se il sistema elettorale è proporzionale – per le legislative in Francia è invece previsto l’uninominale a doppio turno – il partito di Macron, La République en Marche (Lrem) punta ad avere una presenza importante nel parlamento europeo: forse più dei 24 deputati ottenuti da Fn nel 2014 con il 24% dei voti. In un momento in cui le forze tradizionali, socialisti e popolari, sono previsti in flessione – anche se probabilmente non ci sarà la valanga populista che gli euroscettici si aspettano – il ruolo di Lrem come "ago della bilancia" potrebbe diventare decisivo, sia pure nel limitato ambito delle competenze del Parlamento europeo.
Le ambizioni europee dei francesi.La Francia, nel mosaico delle istituzioni e degli incarichi europei, è molto ambiziosa. Da attribuire c’è la presidenza della Commissione e quella della Bce e non è un mistero che Parigi punti soprattutto alla prima (col candidato ‘naturale' Michel Barnier, il negoziatore di Brexit).
La Francia e l’export energetico.È dunque una strategia di breve periodo, quella di Macron. Parigi, in un orizzonte temporale più lungo, ha poco da temere da Brexit. I rapporti con Londra sono solidi e, nei limiti (ristrettissimi) in cui è possibile adottare una logica mercantilista, la Gran Bretagna ha più bisogno della Francia di quanto la Francia abbia bisogno della Gran Bretagna. Il Regno Unito – per fare un solo esempio – ha bisogno delle importazioni di energia della Francia, soprattutto d’inverno. Al punto che i ritardi nella transizione energetica dal nucleare e dai combustibili fossili – che pure hanno pesato sul consenso di Macron – sono legati anche alla necessità di mantenere stabile l’offerta di elettricità da esportare oltre Manica.
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MA MI FACCIA IL PIACERE - Marco Travaglio

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I Serenissimi. “Tria deve stare sereno” (Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, 5.4). E chiedere a Enrico Letta come si fa.
Nuovi martiri. “Caro Mattarella, liberi Formigoni. Ponga fine a questo strazio” (Vittorio Feltri, Libero, 6.4). “Assurdo tenere in cella Formigoni. Dovrebbe essere senatore a vita” (Luigi Amicone, Libero, 7.4). E solo perchè ha rubato appena 6 milioni di euro. Se arrivava a 10, presidente della Repubblica.
Giornalismo investigativo. “Roma, la sindaca Raggi parcheggia l’auto di servizio in divieto di sosta. L’auto elettrica del Campidoglio lasciata davanti al segnale per due ore. Niente multa. L’ironia sui social: ‘Ma non criticava pesantemente Marino per lo stesso motivo?’” (Corriere.it, seconda notizia del giorno in homepage, 7.4). A parte il fatto che la Raggi non parcheggia perché non può guidare, avendo la tutela obbligatoria della Polizia municipale per ordine del Viminale dal 2016, il cartello indica la fine del divieto di sosta: dunque l’auto del Comune che trasporta la sindaca poteva parcheggiare. Però, dài, sui giornaloni conta il pensiero.
Levategli il vino. “Invito Di Maio a non venire a Verona nemmeno tra pochi giorni, quando ha in programma la visita a Vinitaly. Può andare da un’altra parte a fare passerella elettorale, visto che è la stessa città che ha insultato. Se esistesse il Daspo urbano per le offese, Di Maio lo rischierebbe” (Federico Sboarina, sindaco di centrodestra di Verona, 2.4 mattina). “Invito tutti, compreso Di Maio, per scoprire che Verona è la città più bella del mondo” (Sboarina, 2.4 pomeriggio). Ha già iniziato a bere.
Colpa di Virginia/1. “Lo Stato tappa il miliardario buco della Raggi” (Libero, 5.4). “Il governo si accolla i maxi-debiti di Roma e salva la Raggi” (La Stampa, 5.4). “Debito, arriva il ‘soccorso amico’. Esulta Raggi” (Repubblica, 5.4). Trattasi dei 12,8 miliardi di debiti accumulati dalle giunte di sinistra e destra fino al 2008, quando furono commissariati da B. e Alemanno 8 anni prima che la Raggi diventasse sindaca. Ma, anche qui, conta il pensiero.
Colpa di Virginia/2. “Roma, nel disastro grillino, nuove manette per le coop. Il business dell’accoglienza non è finito. Arresti per la onlus che intascava soldi e faceva fuggire i minori” (il Giornale, 4.4). Siccome la onlus ruba, è colpa della Raggi.
Carfagna in castagna. “Marco Travaglio ha indicato in un editoriale Silvio Berlusconi come colpevole dell’omicidio della signora Fadil” (Mara Carfagna, deputata FI, Otto e mezzo, La7, 4.4). “Il cui prodest, una volta tanto, allontana i sospetti da B., che tutto poteva augurarsi fuorché il ritorno dei bungabunga sui giornaloni, che li avevano rimossi per riabilitarlo come leader moderato e argine al populismo. Non solo: da viva Imane poteva essere contestata al processo Ruby-ter da Ghedini&C.; da morta, i suoi verbali dinanzi ai pm valgono come prova inconfutabile” “Sicuramente Silvio Berlusconi non ha ordinato il probabile avvelenamento di Imane Fadil… I testimoni B. di solito li compra, non li ammazza” (Marco Travaglio, Il Fatto quotidiano, 17 e 19.3). Secondo voi, così, a naso, chi è il bugiardo?
In fondo a sinistra. “La sinistra si divide sulla patrimoniale. Il no di Zingaretti alla proposta lanciata da Landini: ‘Non è una mia proposta’” (Repubblica, 4.4). Sennò poi scambiano il Pd per un partito di sinistra.
Amorosi Sensi. “Basterebbe il voluminoso apparato bibliografico, le note e le fonti dell’Esecuzione per ringraziare @jacopo_iacoboni del suo cuore di tenebra” (Filippo Sensi, deputato Pd, Twitter, 3.4). C’è chi legge i libri e chi guarda le figure. Sensi lecca le note.
Best killer. “Stop all’ultimo libro noir di Battisti: l’editor francese congela l’uscita” (Repubblica, 1.4). Teme che sia un libro d’evasione.
Il titolo della settimana/1. “Stefano Boeri: ‘Pure i poveri avranno il Bosco Verticale. Il grattacielo ecologico da ricchi può essere replicato per le case popolari in tutte le città’” (Libero, 4.4). È la risposta del Pd al reddito di cittadinanza: il bosco di cittadinanza.
Il titolo della settimana/2. “Il livello record del debito, come ai tempi di guerra” (Federico Fubini, Corriere della sera, 6.4). L’Apocalisse, ormai, è questione di ore. Penitenziagite!
Il titolo della settimana/3. “L’appello al governo per Radio Radicale: ‘Non tolga i fondi, è una voce da salvare’” (Corriere della sera, 5.4). Per sapere: ma questa voce non potrebbe parlare gratis, o almeno non a nostre spese?

domenica 7 aprile 2019

Borse, trimestre da leoni. Guadagnati 8mila mld. Piazza Affari (+16%) mai così bene dal 1998. - Vito Lops



Si è chiuso un trimestre brillante per le Borse globali, come non se ne vedevano dal 2012. La capitalizzazione mondiale è passata da 70mila a 78mila miliardi di dollari. L’indice Msci all country world index è salito dell’11%, massimo da 7 anni. Per l’indice S&P 500 di Wall Street, in progresso di oltre 12 punti percentuali, si è trattata della migliore partenza dal 1998 e del miglior trimestre dal 2009. In Europa la maglia rosa va a Piazza Affari che in tre mesi (+15,95%) ha praticamente recuperato il ribasso accumulato nel 2018 (-16,5%) e ha superato il calo dell’ultimo quarto (-11,5%). Per trovare un inizio migliore bisogna tornare al 1998 quando in tre mesi la Borsa milanese guadagnò il 41%. Non ci sono però rossi nei monitor azionari su scala globali. Francoforte è salita del 9%, Parigi del 13% e Londra - ancora in pieno caos Brexit dopo che ieri il Parlamento ha bocciato l’accordo con l’Ue raggiunto dal premier May - è salita del 12,7%. Per le Borse cinesi - che avevano chiuso il 2018 con la peggior performance dal 2009 - il recupero è straripante: l’indice Csi si è apprezzato in valuta locale del +28%. Anche la vicina Tokyo è salita, ma meno(+6%) complice la robustezza dello yen.
Il rialzo corale dei listini azionari contrasta con la macroeconomia: le previsioni concordano infatti su un rallentamento della crescita mondiale dal 3,7% al 3,5% con alcune aree, come l’Eurozona, dove il rallentamento dovrebbe essere più marcato, dall’1,7% all’1,1%. Eppure gli investitori hanno acquistato azioni. Come mai? Gli stessi fattori che hanno messo in ginocchio i listini nell’ultima parte del 2018 - un atteggiamento meno morbido delle banche centrali e l’escalation della guerra commerciali tra Usa e Cina - sono quelli che hanno dato il là a questo mini rally azionario. Le banche centrali sono state “costrette” a fare dietrofront. La Bce (7 marzo) ha spostato i tempi del prossimo rialzo dei tassi annunciando che discorsi di questo tipo sono rimandati al 2020. La Fed (20 marzo) ha ribaltato la politica monetaria: non solo non alzerà i tassi di 50 punti base come previsto ma interromperà dal prossimo autunno la riduzione del bilancio. Quest’ultimo punto (il drenaggio della liquidità attraverso il mancato reinvestimento di una parte dei titoli in scadenza nel portafoglio Fed) è divenuto negli ultimi mesi ben più importante dei tassi. Tanto che proprio l’avvio della riduzione del bilancio (ottobre) innescò la forte correzione di Wall Street di fine 2018. Quanto al secondo potente market mover, la guerra commerciale, è vero che non è stato ancora raggiunto un accordo. Ma il clima si fa via via più disteso: proprio ieri il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin ha definito «molto produttivo» il lavoro svolto nelle ultime ore con il vicepremier cinese Liu He. La notizia positiva per le Borse è che, al netto della partenza sprint del primo trimestre, i multipli non sono esageratamente cari. In questo momento a livello globale (indice Msci all country world index) il rapporto tra prezzo e utili stimati per il 2019 è 16,7 volte e il dividend yield intorno al 2,5%.
È stato un trimestre straordinario anche per il petrolio che archivia la miglior performance dal 2009. Il Brent si è apprezzato del 32% e il Wti del 28%. E questo nonostante gli ultimi tweet del presidente degli Usa Donald Trump con cui accusa i Paesi produttori di mettere a rischio la crescita economica globale tenendo alti i prezzi. Ha quasi azzerato invece i guadagni da inizio anno (+1%) l’oro. Il clima di appetito al rischio ha favorito le azioni che hanno recuperato capitali dai beni rifugio. Ma non va dimenticato che lo scenario che si va profilando per via delle nuove politiche espansive delle banche centrali - tassi bassi a lungo, come conferma il calo mensile dei rendimenti del Bund più ampio dal 2016 - tecnicamente sarebbe favorevole al metallo giallo. Lo stesso scenario ha fatto sì che anche per le obbligazioni (lato prezzi e non rendimenti che si muovono in direzione opposta) quello appena messo alle spalle sia stato un trimestra straordinario: la capitalizzazione globale delle obbligazioni è salita a 52mila e 500 miliardi, in rialzo di 2.500 miliardi rispetto alla notte di San Silvestro.





Questo significa che, mentre i politici da strapazzo sia italiani che europei, gridano al massacro, chi capisce qualcosa di economia e specula in borsa nutre grande fiducia nelle manovre del governo giallo verde. Cetta.

Uomo di Altamura.

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L’Uomo di Altamura è una delle più straordinarie scoperte paleontologiche effettuate in Italia, i cui resti furono rinvenuti nel 1993, incastonati nelle formazioni carsiche della grotta di Lamalunga, nel territorio di Altamura, in Puglia. 


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Si tratta degli unici resti di scheletro umano intero del Paleolitico, appartenuti a un Homo neanderthalensis vissuto tra i 180.000 ed i 130.000 anni fa, un caso eccezionale sia dal punto di vista geologico sia da quello archeologico, integro nella struttura scheletrica e in ottimo stato di conservazione. 
L’Uomo di Altamura era probabilmente un maschio adulto di 160-165 centimetri di altezza che, durante una battuta di caccia, cadde in uno dei tanti pozzi carsici presenti nella zona. Le fratture e le ferite riportate gli impedirono di uscire dalla grotta, che da quel momento divenne la sua tomba per sempre, a 8 metri di profondità. Con il passare dei millenni, le sue ossa vennero letteralmente inglobate nelle concrezioni calcaree fino alla scoperta, avvenuta nel 1993 da parte di un gruppo di speleologi.
 Lo straordinario reperto archeologico fu individuato dal CARS - Centro altamurano ricerche speleologiche all’interno della Grotta di Lamalunga, a circa 3 Km da Altamura,  caratterizzata da un sistema di cavità carsiche e stretti cunicoli. Vi si accede attraverso un inghiottitoio profondo circa dieci metri superato il quale, dopo un percorso di circa sessanta metri, ci si imbatte nello splendido scheletro fossile.  

Il primato dell’Uomo di Altamura è il suo essere stato il più antico Neanderthal su cui sia stato possibile eseguire analisi paleogenetiche, la lettura del DNA racchiuso nelle nostre cellule. Le informazioni genetiche ottenute hanno permesso di comprendere aspetti della comparsa e diffusione dei Neanderthal e i rapporti con diverse specie e popolazioni. Sono state acquisite indicazioni legate a malattie, elementi di nutrizione e, grazie alla combinazione tra gli studi molecolari e quelli morfologici, si è venuti a conoscenza dell’aspetto, delle proporzioni e dei “colori” di questo altamurano giunto a noi da un passato tanto remoto.
Nel 2017 è stata presentata al pubblico ed esposta nel Museo Nazionale di Altamura, una perfetta ricostruzione dell’uomo di Altamura, cominciata eseguendo una riproduzione digitale del cranio con dati morfologici raccolti mediante l’utilizzo dello scanner laser e della fotogrammetria, per poi arrivare a un modello in scala di impressionante impatto, opera dei fratelli Kennis, già noti per aver ridato vita a Öetzi, l’uomo del Similaun, conservato nel Museo Archeologico di Bolzano.

Uomo di Altamura - ricostruzione 3D
ricostruzione dell'Uomo di Altamura presente nel Museo Nazionale Archeologico della città.     
Oggi l’eccezionale storia dell’Uomo di Altamura, della sua epoca e del suo territorio, è raccontata nei quattro siti che compongono la “Rete museale Uomo di Altamura”, nei quali esposizioni, reperti, apparati didattici e attività laboratoriali consentono di vivere un’esperienza indimenticabile, riportati indietro di millenni nel cuore della murgia pugliese.