lunedì 7 giugno 2010

Quei 98 miliardi evasi che eviterebbero i nostri sacrifici - Marco Menduni

Spiega alla Camera il ministro Elio Vito: «Non si tratta propriamente di un caso di evasione fiscale ma piuttosto di inadempienze contrattuali». Sarà, ma il lessico non cambia la sostanza. Ci sono novantotto miliardi (miliardi di euro, non è un errore) che ormai da tre anni la Corte dei conti contesta alle dieci società concessionarie delle slot machine, le macchinette succhiasoldi che hanno invaso ormai ogni bar e ogni locale della Penisola. Metterebbero a posto per anni i conti dello Stato, senza bisogno di sacrifici. Ma anche riuscire a “recuperarne” una parte darebbe sollievo alle casse asfittiche. Invece la vicenda si è avviluppata in un’interminabile disputa giudiziaria. E quel denaro rimane bloccato, immobilizzato.

È la vicenda scoperta dal Secolo XIX e raccontata, per la prima volta, il 31 maggio 2007. Una commissione parlamentare, presieduta dall’ex sottosegretario Alfiero Grandi, denuncia storture e pesantissime anomalie nella gestione del grande business delle macchinette. Nello stesso tempo il Gat, il gruppo antifrodi tecnologiche della Finanza conclude la sua indagine e manda i risultati alla Corte dei conti.

Le dieci società che hanno ricevuto la concessione dallo Stato per le slot machine, tra tasse evase, contratti non rispettati, penali, multe e interesse, devono pagare 98 miliardi di euro. Il sistema di controllo telematico delle giocate (e delle imposte dovute), che doveva essere pronto e funzionante nel 2004, ha fatto cilecca per anni. Un nuovo calcolo, voluto dalle stesse società, rifila di poco la cifra: si arriva a novanta miliardi.

La notizia trova pochissima sponda sui media nazionali (solo “Striscia la notizia” la segue in maniera costante); ma il 4 dicembre 2008, nell’incredulità generale, la maxi-contestazione arriva a processo. I difensori delle concessionarie fanno fuoco di sbarramento, contestano la competenza della Corte dei conti. Si stoppa tutto. La querelle finisce davanti alla Cassazione. Che però, il 7 dicembre dell’anno passato, scioglie i dubbi. Arriva l’ok: i giudici contabili possono continuare il processo. La prossima udienza è stata fissata a ottobre.

Nel frattempo si sono succeduti diversi tentativi di “colpo di spugna”, regolarmente stoppati. Ma la vicenda è riemersa con l’ultima finanziaria e i sacrifici imposti per affrontare la crisi. Imbarazzando anche la compagine di governo. Un esempio? Radio Padania Libera è stata subissata da centinaia di telefonate di ascoltatori infuriati, che alla cornetta hanno rievocato questa vicenda. A quel punto la Lega Nord ha proposto l’interrogazione parlamentare. Il ministro Vito ha risposto. Rievocando ancora una volta la vicenda giudiziaria e la sua complessità. Aggiungendo però una novità mai emersa fino a oggi: «Nel decreto anticrisi, attraverso la collaborazione con la Guardia di Finanza, sono stati attivati controlli e indagini sull’attività delle società stesse a garanzia del loro operato e per verificarne l’affidabilità». Bene verificare. Ma dei quattrini, nel frattempo, non si parla.

Quanto potrebbe essere lenito l’effetto dei “sacrifici” sugli italiani, se la maxi-sanzione venisse incassata? O se una soluzione “politica” riuscisse a farne incamerare almeno una parte? In realtà la vicenda è complessa. Le società concessionarie mirano ad allungare i tempi della disfida nelle aule di giustizia, probabilmente convinte che il tempo le possa avvantaggiare.

Hanno dalla loro una forza di pressione e condizionamento enorme: il giro di denaro raccolto dalle macchinette si è ormai attestato oltre i due miliardi di euro al mese, con relative tasse che continuano comunque ad affluire. E poi c’è la questione politica. Alcune società risultavano essere direttamente collegate ad esponenti dei partiti.

È il caso di Atlantis (che, secondo i calcoli della Finanza, è la più penalizzata dalle sanzioni con 30 milioni di euro), il cui legale rappresentante era Amedeo Laboccetta, ex uomo forte di An a Napoli, oggi parlamentare Pdl. Anche se Laboccetta nega, oggi, qualunque interesse e persino qualsiasi conoscenza della questione: «Mi sono dimesso il giorno stesso in cui sono stato eletto. Dimesso da tutto. Da Atlantis, di cui non so più niente, da dipendente Assitalia, da presidente di Poste Assicura. Faccio il deputato a tempo pieno, sono nella commissione antimafia e mi sento il custode di Montecitorio: sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene».

Lo stakanovismo di Laboccetta non sposta i termini della questione. Troppi imbarazzi bloccano la politica alla ricerca di una soluzione. Intanto i 98 miliardi (ma anche fossero il dieci per cento rappresenterebbero un sollievo) rimangono impigliati nella rete di una giustizia che marcia con i tempi della giustizia. Appuntamento a Roma, in un’aula della Corte dei conti, a ottobre.



    domenica 6 giugno 2010

    Le lauree ad Honorem fasulle..........


    Al mattino laurea "honoris causa" a Torino. Nel pomeriggio la revoca del ministro Fabio Mussi - FRANCESCO ALLEGRA



    Dottoressa per sei ore soltanto. Perché la laurea, appena conseguita, le viene subito revocata dal ministro dell’Università, irritato per la facilità con cui spesso in Italia vengono distributi i diplomi «ad honorem». È la disavventura capitata ieri nientemeno che a Jonella Ligresti, 40 anni, figlia primogenita di «don» Salvatore, uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia, capofila di un impero miliardario (in euro) che spazia dalle assicurazioni alle banche, dalle costruzioni a interessi immobiliari diffusi per tutta la Penisola.

    La disavventura, dunque. Jonella Ligresti, presidente di Fondiaria-Sai, il gruppo assicurativo di famiglia, nella tarda mattinata di ieri all’Università di Torino riceve, con il padre Salvatore seduto in prima fila in un’aula magna gremita, la laurea honoris causa in economia aziendale. Motivazione: «La maturità operativa e finanziaria dimostrata ai vertici di uno dei maggiori gruppi assicurativi italiani ed europei», recita la presentazione firmata dal professor Sergio Bortolami, preside della facoltà di economia dell’ateneo torinese. Passano poche ore e nel tardo pomeriggio arriva la sorpresa. Una nota del Ministero dell’Università e della Ricerca, guidato da Fabio Mussi, l’ex-Ds oggi leader di Sinistra Democratica, informa che «il ministro non ha approvato il conferimento di tale laurea quadriennale», in quanto «non ha riscontrato la presenza dei requisiti previsti dalla legge». In sostanza, ci vogliono requisiti «di eccezionalità», dicono da Roma. Non basta, evidentemente, presiedere il terzo gruppo assicurativo italiano o essere l’unica donna nominata consigliere di amministrazione di Mediobanca nella storia di piazzetta Cuccia.

    La laurea appena ricevuta, dunque, finisce nel cestino. Dall’entourage dei Ligresti preferiscono non commentare l’incidente. Dall’Università di Torino si giustificano dicendo che il senato accademico, circa un anno fa, aveva approvato la proposta presentata dal consiglio della facoltà di economia e l’aveva inviata al Ministero dell’Università. I vertici dell’ateneo però ammettono che dal ministero in questi mesi non è arrivata alcuna risposta, nè tantomeno un via libera, alla laurea honoris causa per Jonella Ligresti. Sta di fatto che l’Università ha deciso di procedere anche senza l’ok di Roma. Peccato di leggerezza? Può essere, tanto più che, riportano indiscrezioni attendibili, già a suo tempo il consiglio di facoltà sul “caso Jonella” si sarebbe spaccato: più di un consigliere avrebbe infatti espresso il proprio scetticismo in merito all’opportunità di assegnare il riconoscimento alla manager quarantenne. La quale porta un cognome che in Italia pesa molto e a Torino, dove il gruppo Sai è nato negli anni 20 e rappresenta uno dei maggiori sponsor culturali della città, forse anche di più. L’Università sabauda però stavolta non ha fatto i conti con il ministro Mussi, il quale da tempo va chiedendo agli atenei di adottare più rigore nell’assegnazione delle lauree honoris causa, con l’obiettivo di salvaguardare il prestigio del titolo (che ha valore legale pari a quello dei diplomi ottenuti dopo il normale ciclo di studi). Questo tipo di riconoscimenti in Italia negli ultimi tempi è diventato un po’ inflazionato. Nel 2000 ne sono stati conferiti una cinquantina, l’anno scorso quasi 200. Il caso più clamoroso? Quello di Valentino Rossi (“The Doctor”, appunto), il motociclista pluricampione che nel 2005 si è “laureato” in Comunicazione all’Università di Urbino.


    POLITICI SPENSIERATI IN FESTA AL QUIRINALE MENTRE IL POPOLO SOFFRE - Massimo Fini


    DI MASSIMO FINI
    ilgazzettino.it/

    Nella foto: Il Presidente Giorgio Napolitano nel corso del ricevimento in occasione della Festa Nazionale della Repubblica, 1 giugno 2010


    Durante la seconda guerra mondiale, nei mesi dei più duri bombardamenti tedeschi su Londra, re Giorgio VI rimase ostentatamente nel suo palazzo londinese per mostrare ai suoi sudditi che condivideva con loro gli stessi rischi. In quegli anni Elisabetta, la futura regina, allora poco più che adolescente, serviva come autista nell’esercito di Sua Maestà e non risulta che abbia goduto di particolari protezioni. Alla guerra delle Falkland prese parte anche il principe Andrea, che rischiava più degli altri perché il suo scalpo sarebbe stato un formidabile colpo propagandistico per gli argentini.

    C’era grande spensieratezza martedì al tradizionale ricevimento offerto dal Presidente della Repubblica nei giardini del Quirinale. Il più spensierato di tutti era il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi: una gag con Bersani, due con Rutelli, un siparietto con Mannehimer, uno con Giancarlo Giannini, una battuta con Cesa, un’altra con Barbara Palombelli e un «You are very beautiful» rivolto ad alta voce a una signora di colore, a conferma oltre, che del suo infallibile cattivo gusto, del suo inglese maccheronico.

    Ma anche gli altri ospiti non scherzavano in fatto di spensieratezza. Nemici acerrimi che abitualmente si sbertucciano ogni giorno sugli schermi tv si sorridevano, si vezzeggiavano, si strizzavano l’occhio quasi increduli di aver fatto il colpo alla Ruota della Fortuna. Che del resto è quello che accade ogni sera nelle belle case romane, magari acquistate con i soldi di qualche generoso e disinteressato benefattore. C’era l’intero star system nazionale nei giardini del Quirinale: politici, manager dalla dubbia fama, personaggi della tv, giornalisti di regime, attori, veline mascherate da compagne di qualcuno. Non c’era il popolo nei giardini del Quirinale, nemmeno in forma simbolica, magari rappresentato da un centinaio di ex minatori del Sulcis Inglesiente da anni senza lavoro. Via gli straccioni, avrebbero guastato l’atmosfera festosa e spensierata del ricevimento in onore della Repubblica Democratica. Il popolo deve accontentarsi di guardare queste nuove aristocrazie dal buco della serratura, come accadeva quando Luigi XIV, il Re Sole - che però non pretendeva di essere democratico - dava le sue feste a Versailles.

    Il popolo era altrove. A grattarsi le sue rogne, che sono tante e gravi. Se è vero che il 30% dei giovani (statistiche Istat) è senza lavoro e l’altro 70% rischia ogni giorno di perderlo mentre i disoccupati, nel complesso, sono due milioni e 220 mila, il 9% della popolazione. Se è vero che il nostro spensierato premier, insieme ai suoi supporters, ci informa ogni giorno che l’Italia è in ripresa, ma noi cittadini, a meno che non si appartenga all’allegra cricca degli ospiti dei ricevimenti del Quirinale, sperimentiamo ogni giorno, sulla nostra pelle, il contrario.

    Probabilmente il popolo italiano, che tutto subisce, pecora da tosare, asino al basto, avrà guardato con invidiosa ammirazione la «fairy band» che l’altro giorno si è riunita festosa intorno a Napolitano e Berlusconi. Ma io credo che un po’ meno di esibita spensieratezza e un po’ più di austerità anche formale (la forma è spesso sostanza) non avrebbero guastato in un momento di crisi come questo su cui aleggia, oltretutto, un futuro anche più nero.
    Ma noi non siamo inglesi. Loro sono un popolo, noi no. E hanno quindi una classe dirigente che nei momenti critici (Churchill docet) è all’altezza della situazione. Noi abbiamo quella che ci meritiamo, che in fondo, con la sua «spensieratezza» cialtrona, ci rispecchia abbastanza fedelmente.

    Massimo Fini
    Fonte: www.massimofini.it

    Uscito su "Il gazzettino" il 04/06/2010


    Il pompiere incendiario - Marco Travaglio


    6 giugno 2010

    Ieri il Corriere ha improvvisamente abbandonato il suo secolareaplomb pompieresco per inaugurare un genere giornalistico inedito: quello delle domande aggressive ai politici. Anzi, per il momento, a un solo politico: Di Pietro. Il titolo di prima pagina –“Silenzi e ambiguità dell’on. Di Pietro” – parla da sé. E nessuno più di noi può salutare con giubilo la svolta. A patto, si capisce, che non duri un solo giorno e per un solo politico. Abbiamo come l’impressione che altri politici meriterebbero almeno un titolo sui loro “silenzi e ambiguità” e siamo certi che il Corriere non si lascerà sfuggire l’occasione. Per ora ci contentiamo di apprendere che Di Pietro “non risponde, non del tutto almeno, o parla d’altro, o tace” su una serie di “misteri” che il Corriere riassume in una carrellata fotografica: “Laurea a tempo di record”, “L’asse Lucibello-D’Adamo”, “Il dossier su Pazienza”, “La foto con Contrada”, “Il caso Napoli e il figlio”. Domande legittime, se non fosse che Di Pietro ha già risposto (bene o male) a tutte e da anni. Ma il Corriere non se n’è accorto.

    1)
    Laurea. Di Pietro ha prodotto tutti i documenti, comprese le testimonianze dei professori che lo esaminarono, ma B. due anni fa tornò a insinuare che l’avessero laureato i servizi segreti: Di Pietro l’ha querelato, ma la giunta della Camera l’ha dichiarato insindacabile. Perché il Corriere non lancia una campagna contro questo scandaloso abuso dell’immunità volto a impedire che un giudice stabilisca chi mente?

    2)
    D’Adamo e Lucibello. Sul tema si è tenuto per tre anni un processo a Brescia dove Di Pietro ha sostenuto decine di ore di interrogatori e prodotto tonnellate di carte: perché il Corriere non se le va a leggere, prima di dire che non risponde?

    3)
    Il dossier su Pazienza. Secondo il Corriere, i “silenzi” dipietreschi sul dossier che Di Pietro nel 1984 compilò su Pazienza, fan sospettare “legami coi servizi italiani e Usa”. Ma era proprio Pazienza ad avere legami coi servizi italiani e Usa: Di Pietro, in ferie alle Seychelles, apprese che il ricercato Pazienza soggiornava laggiù protetto da autorità italiane, fece qualche accertamento e al ritorno stilò una relazione al suo procuratore, che ne informò i pm competenti. Solo un malato di mente può chiedere a un pm di discolparsi per aver segnalato il rifugio di un ricercato e i nomi dei favoreggiatori: sarebbe stato scandaloso il contrario.

    4)
    Contrada. Basta andare sul blog di Di Pietro per trovareil suo racconto, confermato dai commensali di quella cena organizzata nel ’92 dai Carabinieri di Roma, dove s’imbucò pur Contrada PRIMA che fosse arrestato: con tutti quelli che (anche sul Corriere) han difeso Contrada DOPO l’arresto e la condanna per mafia, si chiede conto a Di Pietro per averlo incrociato PRIMA.

    5)
    Il caso Napoli e il figlio. I rapporti col funzionario inquisito Mautone erano talmente affettuosi che il ministro Di Pietro l’aveva trasferito (come fece conBalducci). Il figlio Cristiano, per aver raccomandato un elettricista, si dimise dall’Idv. Anche su quel caso, come sugli altri, Google contiene vagonate di spiegazioni di Di Pietro. Il quale ha pure risposto sulle presunte case vaticane (mai trattate da lui) citate da Zampolini. E sugli altri immobili di sua proprietà. IlCorriere cita le accuse degli “ex” Veltri e Di Domenico, ma non dice che per quelle accuse Veltri ha perso la causa in tribunale e Di Domenico ne ha perse 19.

    Del resto, l’estate scorsa,
    Pigi Battista montò un tormentone contro De Magistris che, eletto a giugno a Bruxelles, a luglio non s’era ancora dimesso da giudice; lo fece a settembre con una dura lettera a Napolitano, ma il Corriere non ha mai dato la notizia (son trascorsi solo 9 mesi, c’è tempo). Non proseguiamo per non distogliere il Pompiere dalla sua svolta incendiaria. Attendiamo con ansia un dossier dal titolo “Silenzi e ambiguità dell’on. Berlusconi”, per esempio sulle origini dei soldi, sui rapporti con noti mafiosi e così via. Ma siamo certi che il Corriere sta preparando un supplemento a dispense, rilegabile in comodi volumi, tipo Treccani.

    LEGGI:
    La replica di Antonio Di Pietro all'articolo pubblicato ieri dal Corriere della Sera

    L'INTERVISTA:
    "Mai chiesto favori a Balducci" di Marco Lillo

    Da
    il Fatto Quotidiano del 6 giugno

    http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2495893&yy=2010&mm=06&dd=06&title=il_pompiere_incendiario



    Lettera al Corriere della Sera - Antonio Di Pietro


    Con un articolo pubblicato ieri, il Corriere della Sera ha dedicato un'intera pagina al sottoscritto e al come, nonostante io abbia vinto tutte le battaglie legali in merito, alcune vicende risultassero ancora "oscure". Ritengo che non ci siano luoghi e motivazioni più appropriate di quelle fornite in un tribunale per chiarire e ribadire la buona fede di un personaggio pubblico. Non mi sono mai sottratto al confronto e ho sempre argomentato e smentito le diffamazioni a mio carico con prove e documenti inconfutabili. Lo faccio anche stavolta per rispondere al Corriere della Sera, a cui ho scritto la lettera che segue, allegando una corposa documentazione.

    Caro Direttore,
    Il Corriere della Sera di ieri, con un articolo in prima pagina a firma Marco Imarisio, ha adombrato il sospetto di miei “silenzi ed ambiguità” riguardo la mia storia personale.
    Vorrei rispondere ai rilievi mossi,
    documentando punto per punto. Mi scuso, innanzitutto e preliminarmente, per la pignoleria e per la montagna di carte processuali a cui faccio riferimento e che le invio ma - mi creda - ad un persona come me - invisa a molti e con pochi strumenti di informazione a diposizione - non rimaneva e non rimane altra scelta che ricorrere alla Giustizia per vedere riaffermata, nero su bianco, la verità rispetto alle mille menzogne che sono state scritte sul mio conto in tutti questi anni. E veniamo al merito dell’articolo:

    1 - Non sono stato affatto convocato dai magistrati di Firenze con “tanto di apposito decreto di notifica”.

    2 - Non è affatto vero che io mi sia laureato in modo anomalo. Mi sono iscritto all’Università di Milano nell’anno 1974 e mi sono laureato nel 1978, rispettando appieno il piano di studio all’epoca previsto da quell’Università per la laurea in legge. Sono certo che anche Lei e il dottor Imarisio avete rispettato il piano di studio e vi siete laureati senza andare fuori corso. E’ semmai anomalo il comportamento di quegli studenti che sforano il piano di studio e vanno “fuori corso”, non di chi lo rispetta e si laurea nei tempi previsti. Lo stesso giornalista, peraltro, riferisce che “l’istituto di presidenza della facoltà confermò a suo tempo che tutto era in regola”. Il mio certificato di laurea e il mio libretto degli esami sono già stati pubblicati una miriade di volte e, comunque, invio anche a lei un’ulteriore copia. Le invio anche copia della causa per danni (scarica il pdf 895kb) da me notificata al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per aver sostenuto nella trasmissione “Porta a Porta” del 10 aprile 2008 che la mia laurea fosse falsa. Causa, ad oggi, ferma alla Camera dei Deputati, a seguito della sua richiesta di insindacabilità ex art. 68 Cost.

    3 - Le accuse del Gico di Firenze circa miei presunti favori ricevuti da Pacini Battaglia, da Antonio D’Adamo e da Giancarlo Gorrini sono state tutte smontate dai giudici di Brescia che, dopo due accurate e meticolose inchieste, hanno sentenziato che “i fatti non sussistono”. Al riguardo, Le invio copia della sentenza numero 3940/96 del 18 febbraio 1999 (riguardante la vicenda D’Adamo-Pacini)(scarica il pdf della sentenza 16mb) e della sentenza n.ro 189/96 del 29 marzo 1996 (riguardante la vicenda Gorrini) (scarica il pdf della sentenza: pag. 1-20 (441kb) 21-41 (501kb) 42-62 (475kb) 63-83 (496kb) 84-104 (505kb) 105-134 (696kb);

    4 - Non è vero che io abbia mai avuto a che fare con i Servizi segreti, né italiani, né stranieri. Sul punto si sono espressi, già diverse volte, i magistrati (ai quali mi sono rivolto per tutelare la mia onorabilità) che hanno riconosciuto che io non ho mai avuto alcun rapporto con strutture di tal tipo. Allego al riguardo, e in via esemplificativa, la sentenza del 17 marzo 1997 del Tribunale di Milano con cui è statocondannato in primo grado l’allora senatore Erminio Boso (scarica la sentenza 1mb) per aver sostenuto una panzana del genere. Allego anche la richiesta di rinvio a giudizio della Procura della Repubblica di Torino n.ro 5981/98 del 26 ottobre 1999 che ha rinviato a giudizio Bettino Craxi (scarica il pdf 112kb) sempre per aver falsamente sostenuto che io fossi un agente dei Servizi segreti (il processo poi non si è svolto perché Craxi nel frattempo è deceduto). Se si ha l’onestà intellettuale di valutare le cose in buona fede, (come sono certo farà Il Corriere della Sera) tali sospetti non possono essere alimentati strumentalizzando la mia relazione all’Autorità giudiziaria circa la presenza del latitante Francesco Pazienza alle Seychelles, né la mia partecipazione alla cena natalizia del 1992, svoltasi presso il Reparto dei Carabinieri di Roma, su invito del Comandante col. Vitaliano, cena a cui partecipò anche il questore Bruno Contrada, allora dirigente del Sisde. Comunque, e proprio al fine di non essere accusato di reticenza, le allego l’atto di citazione (scarica l'atto in pdf 3,8mb) con annessi 18 documenti allegati (pag. 1-9 (1,7mb) 10-18 (2,9mb)) che ho proposto nei confronti di Mario Di Domenico per le false dichiarazioni dallo stesso rilasciate circa l’asserito mio coinvolgimento nella vicenda Contrada e di cui proprio Il Corriere della Sera, tempo addietro, ha dato notizia con grande risalto (atto di citazione che, come potrà constatare, non ha riguardato né Il Corriere della Sera, né il giornalista Cavallaro, proprio perché ho ritenuto e ritengo legittimo e doveroso il vostro mestiere). Allego anche l’atto di citazione che ho proposto nei confronti di Francesco Pazienza ed altri, in relazione alle elucubrazioni montate in ordine alla mia segnalazione all’Autorità giudiziaria sulla sua permanenza da latitante nello stesso posto in cui io e la mia futura moglie ci trovavamo in vacanza. Anche in questo caso, sarebbe stato anomalo il mio silenzio su quanto avevo visto e sentito circa il rifugio di Pazienza e non la pronta relazione al mio Capo Ufficio, una volta rientrato in Italia. Peraltro faccio presente che la legge impone a tutti i pubblici ufficiali di segnalare all’Autorità giudiziaria fatti e circostanze penalmente rilevanti ed io ero all’epoca magistrato!

    5 - Non è vero che io abbia fatto un uso privato dei soldi del partito. Su questa questione, sono già intervenuti ben tre provvedimenti del giudice penale che ha archiviato tutte e tre le volte altrettanti esposti del denunciante Di Domenico per assoluta infondatezza dell’accusa. Allego al riguardo il decreto di archiviazione n.ro 4620/07 - GIP Imperiali di Roma del 14 marzo 2008 (scarica il pdf 1,8mb), il decreto di archiviazione n.ro 15233/09 – GIP Silvestri di Roma del 26 maggio 2009 (scarica il pdf 199kb) ed il decreto di archiviazione n.ro 860/09 – GIP Marzagalli di Busto Arsizio del 12 ottobre 2009 (scarica il pdf 220kb).

    6 - Non è vero che io abbia mai fatto – con riferimento alle proprietà immobiliari di mia proprietà - una commistione tra patrimonio mio personale e patrimonio del partito Italia dei Valori. Allego, al riguardo, la sentenza del Tribunale di Monza n.ro 760/10 del 2 marzo 2010 (scarica la sentenza 1,3mb) che condanna il quotidiano Il Giornale, il direttore dell’epoca Mario Giordano e il giornalista Chiocci a risarcirmi, con 60.000 euro, il danno per le falsità e le diffamazioni pubblicate il giorno 4 agosto 2008 con un dossier intitolato: “Di Pietro ha investito 4 milioni di euro in case, ecco il suo patrimonio”.

    7 - Non è vero che io abbia fatto un “uso non associativo” dei soldi del partito, come pure da taluni sostenuto. Allego, al riguardo, la memoria esplicativa - (scarica il pdf 1mb) - (con annessi 65 documenti allegati) che ho consegnato alla Procura della Repubblica di Milano (PM dottor Fusco) (scarica i documenti in pdf: 1-7 (2,9mb) 8-9 (3,6mb) 10-12 (3,6mb) 13-24 (4,1mb) 25-39 (4,3 mb) 40-50 (3mb) 51-54 (1,8mb) 55-56 (2,6mb) 57-59 (2,9mb) 60-65 (2,9 mb)). Dalla disamina dei documenti in questione si evince in modo evidente – sempre se si ragiona in buona fede – che i soldi del partito sono sempre finiti nelle casse del partito.

    8 - Non è vero che io abbia acquistato case tramite “prestanome”, nel senso dispregiativo del termine, o che abbia acquistato “immobili proibiti per legge ai parlamentari in carica”, come pure si afferma nell’articolo (credo in buona fede a seguito di una martellante campagna denigratoria, svolta da altre testate giornalistiche). Allego, al riguardo, l’atto di citazione (scarica il pdf 1,2 mb) promosso nei confronti del quotidiano Il Giornale che, per primo, ha sostenuto tale falsità, con annessi 18 documenti allegati (scarica i pdf pag. 1-6 (2,9mb) 7-12 (2,9mb) 13-18 (2,1mb)), dai quali si evince in maniera incontrovertibile che non è affatto vero che io abbia acquistato un immobile “proibito per legge”, né che io abbia intestato ad altri l’immobile acquistato.

    Spero, caro Direttore, che la documentazione inviata e le spiegazioni fornite possano essere sufficienti per rivedere “i dubbi e le ambiguità” che Il Corriere della Sera ha nei miei confronti. Nel caso dovessero permanere ulteriori perplessità, non si faccia scrupolo, me li chieda o me li faccia chiedere.

    Cordialità,
    ANTONIO DI PIETRO

    http://www.antoniodipietro.com/2010/06/lettera_al_corriere_della_sera.html?notifica



    sabato 5 giugno 2010

    CROZZA E KARIMA - WE HAVE NO YACHT



    Lo dicevano già i nostri vecchi: "Chi più spende, meno spende!". E allora cosa aspettate a comprare anche voi uno yacht da 60 metri con bandiera delle isole Cayman? Detassato alla fonte!
    "
    Caro Beppe, l’Italia è un paese ingiusto. Il Governo chiede sacrifici a milioni di dipendenti pubblici, la Lega propone di tassare i venditori ambulanti. E sotto i nostri occhi, viene consumata un’evasione fiscale da oltre mezzo miliardo di euro. Basta andare al mare per vederla, basta camminare nei porticcioli turistici: oltre la metà degli yacht oltre i 24 metri batte bandiera dei paradisi fiscali. Sono i furbetti dello yacht, che spesso intestano le loro barche a società con sede alle Cayman e alle isole Vergini. E’ tutto permesso dalla legge, almeno sulla carta. Basta creare una società di noleggio, va bene anche in Italia, ma è molto meglio nei paradisi fiscali così la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate impazziscono. Ma se vai a vedere, pochi, pochissimi noleggiano le barche. Gli altri fanno contratti fittizi con fratelli e cugini. Risultato: così non si paga l’Iva sull’acquisto, sul combustibile, sulle riparazioni, sul posto barca. C’è chi riesce a scaricare lo champagne e il caviale facendoli risultare spese legate all’attività di noleggio. I conti sono presto fatti: i Paperoni italiani risparmiano quasi il venti per cento della spesa d’acquisto. Per uno yacht di 60 metri vuol dire sottrarre al fisco anche dieci, quindici milioni di euro. E’ soltanto l’inizio: ogni pieno di gasolio sono 120mila litri. I comuni mortali lo pagano più di un euro, gli evasori nemmeno la metà: senza Iva e accise vuol dire 60.000 euro risparmiati a botta. Il prezzo di una barca per una persona normale. Che dire poi dei contratti dell’equipaggio? Anche questi sono regolati dalle leggi delle Cayman. Un bel vantaggio per gli armatori, un pessimo affare per i marinai che restano senza tutele. Ogni anno, per la Finanza e l’Agenzia delle Entrate, i furbetti dello yacht risparmiano da 150mila a 500mila euro ciascuno. C’è perfino chi, registrando contratti di noleggio gonfiati, costituisce fondi neri alle Cayman, magari per pagare le mazzette ai politici. Ne abbiamo scritto sui nostri giornali, ma da chi governa non è arrivata una riga di risposta. Forse, però, Berlusconi era troppo occupato a godersi il sole su uno degli yacht della sua flotta. Del resto sono loro che hanno votato una direttiva paradossale: lo sconto sull’Iva per chi ha fatto un contratto di leasing è direttamente proporzionale alle dimensioni della barca. Insomma, più è grande la barca, meno si paga. Questa non è un’assurda battaglia contro gli yacht e chi se li può permettere. Fatti loro. No, è in gioco una questione elementare: la legge – anche quella fiscale – deve essere uguale per tutti. Allora oggi tutti al mare, a mostrar le chiappe chiare, come diceva Giorgio Gaber. A guardare centinaia di Paperoni italiani che schiaffano in faccia a noi e alla crisi le bandierine colorate dell’evasione. Ma… perché tutti insieme, quando incontriamo uno yacht con la bandiera delle Cayman, delle Virgin Islands o di Guernesey, non chiediamo a chi sorseggia un calice di champagne sul ponte di mostrarci l’atto di proprietà della sua nave? Vediamo se almeno, sotto l’abbronzatura, diventa un poco rosso." Ferruccio Sansa, Marco Preve.

    http://www.beppegrillo.it/2010/06/yacht_ed_evasio.html