lunedì 7 giugno 2010

Quei 98 miliardi evasi che eviterebbero i nostri sacrifici - Marco Menduni

Spiega alla Camera il ministro Elio Vito: «Non si tratta propriamente di un caso di evasione fiscale ma piuttosto di inadempienze contrattuali». Sarà, ma il lessico non cambia la sostanza. Ci sono novantotto miliardi (miliardi di euro, non è un errore) che ormai da tre anni la Corte dei conti contesta alle dieci società concessionarie delle slot machine, le macchinette succhiasoldi che hanno invaso ormai ogni bar e ogni locale della Penisola. Metterebbero a posto per anni i conti dello Stato, senza bisogno di sacrifici. Ma anche riuscire a “recuperarne” una parte darebbe sollievo alle casse asfittiche. Invece la vicenda si è avviluppata in un’interminabile disputa giudiziaria. E quel denaro rimane bloccato, immobilizzato.

È la vicenda scoperta dal Secolo XIX e raccontata, per la prima volta, il 31 maggio 2007. Una commissione parlamentare, presieduta dall’ex sottosegretario Alfiero Grandi, denuncia storture e pesantissime anomalie nella gestione del grande business delle macchinette. Nello stesso tempo il Gat, il gruppo antifrodi tecnologiche della Finanza conclude la sua indagine e manda i risultati alla Corte dei conti.

Le dieci società che hanno ricevuto la concessione dallo Stato per le slot machine, tra tasse evase, contratti non rispettati, penali, multe e interesse, devono pagare 98 miliardi di euro. Il sistema di controllo telematico delle giocate (e delle imposte dovute), che doveva essere pronto e funzionante nel 2004, ha fatto cilecca per anni. Un nuovo calcolo, voluto dalle stesse società, rifila di poco la cifra: si arriva a novanta miliardi.

La notizia trova pochissima sponda sui media nazionali (solo “Striscia la notizia” la segue in maniera costante); ma il 4 dicembre 2008, nell’incredulità generale, la maxi-contestazione arriva a processo. I difensori delle concessionarie fanno fuoco di sbarramento, contestano la competenza della Corte dei conti. Si stoppa tutto. La querelle finisce davanti alla Cassazione. Che però, il 7 dicembre dell’anno passato, scioglie i dubbi. Arriva l’ok: i giudici contabili possono continuare il processo. La prossima udienza è stata fissata a ottobre.

Nel frattempo si sono succeduti diversi tentativi di “colpo di spugna”, regolarmente stoppati. Ma la vicenda è riemersa con l’ultima finanziaria e i sacrifici imposti per affrontare la crisi. Imbarazzando anche la compagine di governo. Un esempio? Radio Padania Libera è stata subissata da centinaia di telefonate di ascoltatori infuriati, che alla cornetta hanno rievocato questa vicenda. A quel punto la Lega Nord ha proposto l’interrogazione parlamentare. Il ministro Vito ha risposto. Rievocando ancora una volta la vicenda giudiziaria e la sua complessità. Aggiungendo però una novità mai emersa fino a oggi: «Nel decreto anticrisi, attraverso la collaborazione con la Guardia di Finanza, sono stati attivati controlli e indagini sull’attività delle società stesse a garanzia del loro operato e per verificarne l’affidabilità». Bene verificare. Ma dei quattrini, nel frattempo, non si parla.

Quanto potrebbe essere lenito l’effetto dei “sacrifici” sugli italiani, se la maxi-sanzione venisse incassata? O se una soluzione “politica” riuscisse a farne incamerare almeno una parte? In realtà la vicenda è complessa. Le società concessionarie mirano ad allungare i tempi della disfida nelle aule di giustizia, probabilmente convinte che il tempo le possa avvantaggiare.

Hanno dalla loro una forza di pressione e condizionamento enorme: il giro di denaro raccolto dalle macchinette si è ormai attestato oltre i due miliardi di euro al mese, con relative tasse che continuano comunque ad affluire. E poi c’è la questione politica. Alcune società risultavano essere direttamente collegate ad esponenti dei partiti.

È il caso di Atlantis (che, secondo i calcoli della Finanza, è la più penalizzata dalle sanzioni con 30 milioni di euro), il cui legale rappresentante era Amedeo Laboccetta, ex uomo forte di An a Napoli, oggi parlamentare Pdl. Anche se Laboccetta nega, oggi, qualunque interesse e persino qualsiasi conoscenza della questione: «Mi sono dimesso il giorno stesso in cui sono stato eletto. Dimesso da tutto. Da Atlantis, di cui non so più niente, da dipendente Assitalia, da presidente di Poste Assicura. Faccio il deputato a tempo pieno, sono nella commissione antimafia e mi sento il custode di Montecitorio: sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene».

Lo stakanovismo di Laboccetta non sposta i termini della questione. Troppi imbarazzi bloccano la politica alla ricerca di una soluzione. Intanto i 98 miliardi (ma anche fossero il dieci per cento rappresenterebbero un sollievo) rimangono impigliati nella rete di una giustizia che marcia con i tempi della giustizia. Appuntamento a Roma, in un’aula della Corte dei conti, a ottobre.



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