venerdì 3 luglio 2009

Micheletti, padrone d'Honduras.



TEGUCIGALPA -

Dottor Micheletti ma chi glielo ha fatto fare di cacciarsi in questo guaio? Non si rende conto di essere perlomeno fuori moda? La stagione dei gorilla in America Latina è passata... Lui sbuffa, sposta nervosamente i fogli che ha appoggiato su una scrivania che gli sta stretta, scalcia mostrando raffinati mocassini che escono, come le sue gambe, da sotto il tavolo, e sbuffa di nuovo. "Qui non c'è stato nessun golpe. È stato il Tribunale ad ordinare all'esercito di prendere quel mascalzone di Zelaya e portarlo fuori dal paese. Volete vedere le accuse? Ci sono diciotto capi d'imputazione contro il vostro eroe democratico. Quali? E io che ne so, chiedetelo ai giudici". Scusi dottore, ma il presidente Zelaya non poteva essere accusato e giudicato qui, in Honduras non c'è neppure l'immunità per il Capo di Stato... "Infatti, gli abbiamo fatto un favore. Invece di metterlo in galera lo abbiamo portato in esilio". Quando il presidente golpista dell'Honduras riceve un gruppo di giornalisti stranieri sulla capitale sta scendendo il tramonto e la luce infiamma le pietre rosa della Casa presidenziale, un edificio neomediovale, dalle linee dolci e ondulate, costruito all'inizio del Novecento dall'architetto italiano Augusto Bressani. Dentro è un turbine di riunioni. Al primo piano ci sono gli uffici che s'affacciano su un grande giardino rettangolare. Porte che sbattono, via vai di commessi, politici e ministri appena nominati. In tutto, all'interno, ci saranno al massimo venti soldati. Entrare non è stato difficile, dopo la mano dura oggi è il giorno della trasparenza nel momento di massimo isolamento del governo golpista. "Insomma aiutatemi", dice Roberto Micheletti, "aiutatemi voi giornalisti a spiegare al mondo che l'abbiamo fatto per il bene del paese", e continua a spostare e martoriare la povera scrivania. È un omone, Micheletti, con una grande pancia che troneggia quando apre la giacca, gli occhi piccoli e un volto rubicondo. Ruvido e instintivo quando risponde, s'infuria facilmente.
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Ha visto dottore, anche il ministro Frattini dall'Italia ha richiamato l'ambasciatore... "Quando? No, io l'ho salutato l'ambasciatore Magno qualche giorno fa perché aveva terminato il suo mandato. Di Frattini non so niente". Ma anche Francia e Spagna hanno ritirato i loro rappresentanti. "Senta, sa cosa le dico? Facciano quello che gli pare. Io ho fede, prima o poi mi riconosceranno". Penultimo di nove fratelli, Micheletti è figlio di Umberto, un immigrato italiano, di Bergamo, arrivato qui per far fortuna tra le due Guerre mondiali. Roberto è nato nel '43, 13 agosto, come Fidel Castro, ma quando s'è buttato in politica ha anche ritoccato la data di nascita per sembrare più giovane, regalandosi cinque anni. Finora era conosciuto per la sua florida azienda di trasporti, ora rischia di passare alla Storia come il presidente fantoccio di un governo improbabile. Mentre parla, prima s'entusiasma perché un collaboratore lo chiama al telefono assicurandogli che Israele e Taiwan l'hanno riconosciuto. "Visto? Non siamo più soli". Ma è sicuro? "No, ma se me l'hanno detto, sarà vero". Poi si perde quando arriva la notizia che il Parlamento ha esteso il coprifuoco trasformandolo in Stato d'assedio. Avete proclamato lo Stato d'assedio? "No". "Ma come no, lo ha appena detto la radio", incalza una collega americana, "dice che l'esercito può perquisire la case senza mandato tra le dieci di sera e le cinque del mattino". "Beh guardi - sbotta Micheletti - se lei ha fatto qualcosa di male deve pure aspettarsi che vengano a prenderla a casa". Il diritto non dev'essere il suo forte, l'oratoria neppure. Nel suo bel vestito scuro di taglio italianissimo, Micheletti sta sempre più scomodo mentre anche nella Casa presidenziale si susseguono i rumors. Qualcuno dice che la Oea, l'Organizzazione degli Stati americani, invierà una delegazione per trattare con i golpisti. "Bene - esulta - li accoglieremo a braccia aperte". Ma scusi dottore, l'hanno avvisata? "No, me lo avete detto voi che viene una delegazione, io non ne sapevo niente". Qualcun altro annota che dirigenti dei partiti maggiori sono chiusi nell'ambasciata americana per trovare un compromesso che salvi tutti. Una amnistia per i golpisti? "Quale amnistia?", sbraita Micheletti, "Io non ho commesso reati, leggetevi la Costituzione, eccola qua". A momenti sorride, anche. Tre ragazze dell'ufficio stampa cercano di mantenere un po' di ordine tra chi entra ed esce dalla stanza. Micheletti non ci fa neppure caso e si mette a parlare di autarchia. "Possiamo farcela anche da soli", dice. Senza i prestiti della Banca Mondiale, il petrolio di Chavez, il commercio con i paesi vicini, i beni di consumo che arrivano dagli Stati Uniti con il trattato di libero scambio? A quale classe del paese pensa dottor Micheletti? Così rischiate di tornare indietro di decenni. "Ecco Chavez, buono quello. Ma non capite che io sono il baluardo contro la penetrazione di Chavez in questo paese, gli americani dovrebbero ringraziarmi, altroché". S'avvicina l'ora del coprifuoco e il centro di Tegucigalpa si svuota molto in fretta. La gente ha paura, ha l'evidente impressione che Micheletti, l'esercito, i deputati abbiano combinato un pasticcio. Che l'abbiano fatta grossa per sbarazzarsi del "traditore", di Zelaya, uno di loro, un membro dell'oligarchia che da sempre domina gli affari dell'Honduras, passato al nemico - dicono - per ambizione di potere. "Voleva farsi rieleggere Zelaya, per questo s'è alleato con Chavez e con Daniel Ortega, ed ha concesso ai sindacati un aumento insostenibile dei salari". Ma si rende conto che lei è diventato presidente grazie all'intervento dei militari e ad una lettera di dimissioni di Zelaya che è evidentemente falsa? "Falsa? Non lo so, non l'ho mica scritta io. Come presidente del Congresso toccava a me entrare in questa Casa presidenziale. L'ho fatto per il paese". La gente non si fida di Micheletti. Le sue ambizioni presidenziali erano note. Ha corso anche per le primarie ma è stato battuto e accusato di corrompere i giudici della Corte suprema per fermare un altro candidato più popolare di lui. "Sono a interim", giura. "Faremo le elezioni e io me ne andrò". Come farà ad andare avanti se nessun paese vuole incontrarlo, né ascoltare le sue ragioni, non lo sa. S'affida alla fede. Non si sente neppure isolato, Micheletti. "Ho il sostegno e l'affetto dell'80 per cento degli honduregni", spara ad un certo punto. Ma non s'è accorto di aver messo il suo paese in un vicolo cieco? "Ma quando mai, qui non c'è stato nessun colpo di Stato". Mentre lasciamo il palazzo si sparge la notizia che è stata tolta l'energia elettrica ad una radio che ha trasmesso una intervista a Zelaya, il presidente estromesso. La censura morde sui mezzi di comunicazione che non s'allineano al nuovo potere. Tutti esagerano, da una parte e dall'altra e verificare le informazioni diventa sempre più difficile. L'ultimatum delle 72 ore dell'Oea scade domani. Ma Micheletti ripete che non c'è nulla da trattare. "Che vengano ad incontrarci - conclude - gli spiegheremo cosa è successo e gli faremo vedere i documenti che accusano Zelaya. Abuso di potere, tradimento delle patria... "Ce n'è, ce n'è. Sono diciotto capi d'imputazione, mi dicono. E smettetela di chiamarmi dottore: io sono il Presidente".


Trovate minacce a Berlusconi in carte sequestrate a Ciancimino, indaga la Dda

La procura distrettuale antimafia di Palermo ha trasmesso ai giudici della Corte d'appello, davanti ai quali si svolge il processo a Massimo Ciancimino, accusato di riciclaggio, una lettera da cui emergono richieste estorsive e minacce a Silvio Berlusconi. La missiva, scritta a mano, risalirebbe ai primi anni Novanta, ed è stata sequestrata nel 2005 fra le carte personali di Vito Ciancimino, l'ex sindaco mafioso di Palermo. L'autore non è indicato. Nel verbale di sequestro redatto dai carabinieri, si legge: "Parte di foglio A4 manoscritto contenente richieste all'on. Berlusconi di mettere a disposizione una delle sue reti televisive". Nel testo della missiva, che è incompleto perché la prima parte è stracciata, emerge, però, l'intimidazione legata al fatto che se non si fosse dato corso alla richiesta avanzata ci sarebbe stato "il luttuoso evento". Il documento fa parte dei reperti acquisiti nel processo a Massimo Ciancimino, ed è stato trovato durante la prima perquisizione che gli è stata fatta nel febbraio 2005, e per questo adesso è stato trasmesso ai giudici della Corte d'appello. Sul contenuto della lettera, è stata avviata un'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal pm della Dda, Nino Di Matteo. A scrivere il messaggio possa essere stato un uomo di fiducia di Totò Riina che lo avrebbe girato a Bernardo Provenzano, e a sua volta lo avrebbe fatto arrivare al suo amico fidato, Vito Ciancimino. Quest'ultimo potrebbe avere avuto il compito di far giungere l'ambasciata a persone che sarebbero state vicine a Berlusconi. La lettera, da accertamenti tecnici, potrebbe essere stata scritta nel 1991.
http://www.siciliainformazioni.com/giornale/cronacaregionale/56737/trovate-minacce-berlusconi-carte-sequestrate-ciacimino-indaga.htm

La cena a casa Mazzella..........

A casa Mazzella, la sera della famosa cena, c'erano anche Gianni Letta, recentemente indagato a Potenza per una sfliza di reati che vanno dalla turbativa d'asta alla corruzione (articoli 416, 110, 353, 354 e 640 bis del codice di procedura penale), anche Carlo Vizzini, indagato anch'egli per corruzione con l'aggravante dell'art. 7 in relazione alle vicende del cosiddetto Gruppo Gas (Ciancimino-Lapis).

In base a queste considerazioni, viene spontaneo chiedersi: ma chi sono questi giudici che hanno la responsabilità di decidere se una legge promulgata dal Parlamento è costituzionalmente corretta?

Tenuto conto delle loro frequentazioni, ci si può fidare del loro giudizio?


http://ilquotidianodellabasilicata.ilsole24ore.com/it/basilicata/potenza_letta_woodcock_basilicata_procura_roma_8441.html

http://www.corriere.it/politica/09_giugno_11/vizzini_dimissioni_commissione_antimafia_avviso_garanzia_ab58439a-5660-11de-82c8-00144f02aabc.shtml

giovedì 2 luglio 2009

la notte tra il 4 ed il 5 novembre 2008.

La notte tra il 4 ed 5 novembre 2008, la notte in cui si sarebbe deciso chi avrebbe rivestito la carica di presidente degli Stati Uniti d'America, il nostro premier, mr. Berlusconi, affitta tre entreneuses e chiede ad una delle tre di fermarsi con lui per la notte.
Un normale e sano individuo, angosciato dall'evento non gradito - già si paventava la nomina di Barak Obama, personaggio non disponibile ad accordi sottobanco molto graditi, invece, all'amico Bush - avrebbe preferito trascorrere la serata e la nottata in famiglia, dedicandosi alla moglie, ai figli ed ai nipoti.
Ma per mr. Ber., la famiglia è un solo una copertura di facciata, un tramite da mostrare al marketing mediatico.
A lui, della famiglia, sia la sua che quella degli altri, non gliene può fregar di meno, lui usa chi gli sta intorno, non ama legami di nessun tipo, lui è un uomo di mondo.
Lui ama frequentare solo alcune categorie di persone: quelle che appartengono al mondo degli affari e che hanno sete di potere come lui.

Omaggio ad un'amica.

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni
od usignoli dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.

Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

(Alda Merini)

Lo stupore di casa Mazzella. “Caro Silvio ti scrivo…”

Una lettera del giudice costituzionale che parla della famosa cena con Silvio Berlusconi e la sua task force, secondo cui saremmo di nuovo sotto un regime totalitario. L’impervia ricostruzione di un evidente conflitto di interessi.
ROMA – Un’amicizia di vecchia data, un affetto amicale quello che traspare da una lettera scritta dal giudice costituzionale Luigi Mazzella al premier Silvio Berlusconi, con riferimenti, poi, del tutto impervi al totalitarismo fascista dentro il quale le reazioni e le proteste delle opposizioni alla vicenda ricadrebbero.
“Caro presidente, caro Silvio” scrive Mazzella, “ti scrivo una lettera aperta perchè cominciando seriamente a dubitare del fatto che le pratiche dell'Ovra (la polizia segreta fascista, ndr) siano definitivamente cessate con la caduta del fascismo, non voglio cadere nel tranello di essere accusato, da parte di chi necessariamente ne ignorerà il contenuto, di averti inviato una missiva 'carbonara e piduista, secondo il colorito linguaggio di un parlamentare. Ritenevo in buona fede di essere un uomo libero in un Paese ancora libero e di avere il diritto 'umanò di invitare a casa mia un amico di vecchia data quale tu sei”.
Un vecchio amico, dunque, e vecchi amici sono anche gli altri commensali, cioè il ministro della giustizia Alfano, il Presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato Vizzini (inquisito a Palermo nell’ambito dell’inchiesta scaturita dalle dichiarazioni del figlio di Vito Ciancimino, legato a filo doppio alla mafia corleonese) e della Camera Donato Bruno, il sottosegretario Gianni Letta. Insomma, una vera e propria task force in materia di costituzionalità delle leggi. Mancava soltanto il Presidente della Corte, Francesco Amirante.
Mazzella protesta affermando che le ricostruzioni “fantasiose” fatte dai giornali ipotizzerebbero una “cena di lavoro”, con al centro la prossima decisione della Corte sul lodo Alfano, il cui artefice degustava appunto la cena preparata dalla “domestica fidata” (così scrive l’estensore della missiva) di casa Mazzella”. Poi si lancia in alti guaiti sull’”amore per la libertà” degli italiani, sull’esistenza di un “nuovo totalitarismo” che potrebbe privare lor signori “delle nostre libertà personali”, infine, sulla “barbarie di cui siamo fatti oggetto”.
Una missiva che spiega meglio di ogni altra cosa la concezione della giustizia delle milizie berlusconiane. Mentre a Milano ritengono congruo chiedere la ricusazione del giudice del caso Mills, Nicoletta Gandus, perché, in anni precedenti, si era limitata a firmare un appello contro l’approvazione di talune leggi in materia di giustizia, a Roma mostrano tutto il loro stupore per le accuse nate dal fatto che un giudice costituzionale – che, a partire da ottobre, dovrà esaminare la richiesta di illegittimità costituzionale del lodo Alfano, dall’esistenza del quale dipende la processabilità del commensale di casa Mazzella, premier Silvio Berlusconi – invita a cena il suo vecchio amico, la cui stessa esistenza politica dipende dal suo futuro giudizio.
Possiamo figurarci cosa sarebbe successo se la povera Nicoletta Gandus fosse stata scoperta a cena con Antonio Di Pietro, Dario Franceschini e Marco Travaglio.
Ma i berluscones sono così, confermano comportamenti del tutto fuori da qualsiasi decenza istituzionale e mostrano tutto il loro stupore quando la società civile glielo fa notare, come nel caso delle escort invitate a passare la notte a Palazzo Grazioli con il vecchio amico di casa Mazzella.
“Anche uno studente di giurisprudenza capirebbe l'abnormità di questo caso” ha dichiarato Antonio Di Pietro. Forse, chissà, sarebbe meglio per Mazzella e i suoi commensali rifare gli esami universitari; qualcosa gli deve essere sfuggito.


http://www.dazebao.org/news/index.php?option=com_content&view=article&id=5383:lo-stupore-di-casa-mazzella-caro-silvio-ti-scrivo&catid=37:politica-interna&Itemid=154

mercoledì 1 luglio 2009

Il segreto salva Pollari.

Il processo per il sequestro di Abu Omar, il predicatore egiziano rapito a Milano nel 2003 da un commando di 007, si avvia verso un'assoluzione tecnica dei principali imputati, a cominciare dal generale Nicolò Pollari

Pollari impunibile. Di regola le sentenze future sono imprevedibili, ma in casi straordinari i giudici si trovano la strada segnata. Il processo per il sequestro di Abu Omar, il predicatore egiziano rapito a Milano nel 2003 da un commando di 007, si avvia verso un inglorioso finale da porto delle nebbie: un'assoluzione tecnica dei principali imputati, a cominciare dal generale Nicolò Pollari, l'ex capo del servizio segreto militare (Sismi, ora Aise), motivata però non da un riconoscimento d'innocenza, ma dall'impossibilità di utilizzare le prove più schiaccianti raccolte dall'accusa. A disarmare i magistrati è il verdetto della Corte Costituzionale che, coprendo con lo scudo del segreto di Stato tutti i rapporti tra servizi italiani e stranieri, ha imposto di azzerare perfino le confessioni degli accusati che, durante le indagini, avevano ottenuto scarcerazioni o patteggiamenti proprio ammettendo che quel sequestro fu "un'operazione congiunta tra Cia e Sismi". Un colpo di spugna che promette di favorire soprattutto i vertici: insieme a Pollari potrebbe cavarsela anche l'ex capo della Cia in Italia, Jeff Castelli, mentre a rischio di condanna restano gli agenti Usa che fecero da esecutori materiali. La requisitoria dei pm milanesi è fissata per il 2 luglio. Ma il processo potrebbe davvero riaprirsi solo con un nuovo ricorso alla Corte costituzionale: ora che Obama ha dichiarato chiusa l'epoca dei prigionieri senza diritti, perché ostinarsi a legalizzare un così disastroso remake di Guantanamo all'italiana?


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-segreto-salva-pollari/2102729&ref=hpsp