Il fallimento della Sicilcassa, la seconda banca della Sicilia, apre un preoccupante scenario che in qualche modo si collega con lo storico rapporto che Stato e mafia hanno da sempre coltivato, tornando indietro fino alle stragi del '92 dove morirono Falcone e Borsellino e a quelle del '93 a Roma, Firenze e Milano, alla strage Chinnici, all'attentato al generale Dalla Chiesa e agli altri delitti eccellenti perpetrati da Cosa nostra.
Lo scandalo, scoppiato nel 1997 e quindi qualche anno dopo la trattativa, è un segno chiarissimo che la mafia ha voluto dare alle istituzioni. Il movente che più ha spinto Cosa nostra a scatenare una guerra contro lo Stato è il timore che quest'ultimo arrivi a confiscare i suoi patrimoni, vera linfa vitale del potere mafioso. Per quieto vivere era quindi indispensabile trovare un accordo: “Facciamo la guerra per poi fare la pace” disse Totò Riina nel corso di una riunione della Cupola ad Enna.
Da parte sua, la mafia siciliana dava la sua disponibilità a compiere il “lavoro sporco” per conto dello Stato-mafia si trattasse di far saltare in aria un'autostrada o mettere a tacere chi veniva percepito come una minaccia. Nel momento in cui, nei primi anni '90, questa pacifica convivenza si incrina, attraversa una fase di crisi e di transizione, ecco che si verifica il fallimento di una delle banche più importanti della Sicilia. Una banca fortemente controllata da Cosa nostra, che vede coinvolti nomi come Gaetano Graci, Cavaliere del Lavoro di Catania ritenuto vicino agli ambienti mafiosi (in particolare al boss Nitto Santapaola) e sospettato persino di essere il mandante dell'uccisione del giornalista Giuseppe Fava. È proprio il gruppo Graci ad aver creato il più grave deficit patrimoniale della Sicilcassa. I liquidatori hanno potuto recuperare solo 194 milioni di euro dei 640 persi. Alcuni di questi si trovano ancora oggi all'estero, intestati agli eredi Graci e quindi intoccabili.
Negli ultimi anni la mafia siciliana ha subito confische patrimoniali del valore di centinaia di milioni di euro. Le forze dell'ordine in Sicilia sono riuscite a mettere le mani su imperi economici nel campo del gas (il sequestro di 48 milioni di euro agli eredi di Ezio Brancato, socio di Gianni Lapis) per non parlare del capitale del valore di ottocento milioni a Michele Aiello, prestanome di Provenzano. Anche il patrimonio del boss latitante Matteo Messina Denaro è stato minato dalle recenti operazioni, come nel caso della confisca di beni nel settore dell'eolico (un miliardo e trecento milioni gestiti dal presunto prestanome di Matteo Messina Denaro, Vito Nicastri), o il sequestro, richiesto dalla Dia di Palermo, dell'azienda turistica Valtur che Messina Denaro gestiva attraverso Carmelo Patti, stretto collaboratore del boss, del valore di cinque miliardi di euro. Resta comunque il fatto che i sequestri compiuti hanno solo scalfito il potere economico che i capimafia di Cosa nostra gestiscono, siano in carcere o ancora latitanti come nel caso del boss di Castelvetrano. Possiamo dire che sono loro i veri padroni della Sicilia dato che gestiscono investimenti, società, traffici di denaro contante investiti in banche italiane e straniere per decine di miliardi di euro, ed esercitano un forte controllo sulla politica e sugli investimenti nell'isola grazie alla complicità di colletti bianchi e prestanome. Una ricchezza tale che rende possibile il ricatto di grossi esponenti della classe dirigente finanziaria e politica italiana.
L'immagine che ci viene dipinta di Cosa nostra è quindi quella di una mafia tutt'altro che debole dal punto di vista economico. Nonostante abbia perso il potere militare che aveva un tempo, si sta riorganizzando anche grazie ai proventi derivati dal traffico di stupefacenti, che fruttano alla mafia siciliana centinaia di milioni di euro l'anno, in società con la 'Ndrangheta, la quale è, senza dubbio, padrona del business della droga in tutto il mondo occidentale.
Un giro d'affari che declassa l'estorsione o la richiesta del pizzo a semplici attività “di contorno”, volte soprattutto a mantenere il controllo del territorio e del tessuto sociale, oltre che per provvedere al mantenimento delle famiglie i cui affiliati si trovano in carcere. Una sorta di “copertura” grazie alla quale diventa più difficile quantificare il reale ammontare dei patrimoni mafiosi, sia per lo Stato che per gli stessi picciotti di Cosa nostra, che dei miliardi accumulati dai boss vedranno solo pochi spiccioli.
La mafia siciliana, così come 'Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita, possiede quindi una enorme disponibilità di denaro che muove nelle borse di tutto il mondo, grazie alla quale sarebbe capace, se volesse, di mettere ancora una volta un paese come l'Italia sotto scacco. Può essere questa la ragione del perchè lo Stato voglia convivere con la mafia piuttosto che annientarla? Può essere questa la ragione per la quale tutti i governi italiani del centro destra e sinistra, dal '92 ad oggi, non hanno potuto (per non dire voluto) annientare le organizzazioni criminali mafiose? Ed infine, la trattativa mafia-Stato, condotta in due tempi per conto di uomini di potere tramite Nicola Mancino prima e Marcello Dell'Utri poi, forse nascondeva un movente tanto spaventoso quanto cruciale per parti dello Stato italiano e centri occulti di potere?
Dopo le stragi di Capaci, via D'Amelio e quelle del '93 a Roma, Firenze e Milano che provocarono morte e distruzione, i giudici e le forze dell'ordine ottennero dei risultati mai raggiunti. La mafia militare, con gli arresti e le condanne di quasi tutti i boss, era in ginocchio, e la Nazione avrebbe dovuto dare il colpo di grazia alla mafia siciliana, ma non lo diede. Lo Stato si ritirò, e il Governo di centro sinistra abbandonò a loro stessi i giudici in trincea, iniziando seriamente a pagare così il prezzo della trattativa. Era pronto un attentato con missili terra aria per il procuratore Caselli, che fortunatamente non venne mai messo in atto. Intanto, il lavoro dei pm antimafia come Scarpinato, Ingroia, Tescaroli, Di Matteo, Gozzo, Teresi ed altri, fu ostacolato da leggi e cavilli burocratici. L'Italia doveva essere salvata dalla bancarotta. Forse la mafia, grazie alla sua immensa liquidità di denaro, ne garantì la permanenza in Europa?
Non sono pensieri partoriti dalle nostre menti deliranti, ma ipotesi logiche e plausibili. Se il patrimonio nazionale delle mafie ammonta ad oltre mille miliardi di euro, se il suo fatturato in nero in Italia è di oltre 150 miliardi di euro l'anno, è logico pensare che la mafia ricatti lo Stato, e che il movente che sta dietro le nostre terribili stragi riguardi la stabilità economica e politica della nazione. Le parole pronunciate da Riina “Facciamo la guerra per poi fare la pace” forse possono tradursi in “Ricattiamo lo Stato e ricordiamogli che lui (lo Stato) sopravvive soprattutto grazie alla Sicilia e ai nostri soldi”. E, se non cede al ricatto, allora scoppieranno bombe. Lo Stato, che oggi è governato da Berlusconi e dalla sinistra, ha ceduto. Ne è una dimostrazione l'intenzione di ammorbidire le pene relative al concorso esterno in associazione mafiosa. Matteo Messina Denaro risulta ancora imprendibile, e la mafia continua ad arricchirsi.
Nell'agenda rossa di Paolo Borsellino è molto probabile che il giudice abbia scritto i nomi dei padroni dell'Italia di oggi, degli assassini del suo amico fraterno Giovanni Falcone, della vera ricchezza della mafia. Borsellino aveva capito che c'era un “gioco grande”, nel quale lui e Falcone erano entrati, dove mafia e Stato-mafia erano diventati una cosa sola, con un potere tale, grazie al denaro investito nelle nuove forze politiche, nelle tv e nelle banche, da superare quello dello Stato-Stato e metterlo così sotto scacco. Potrebbe essere per questo che l'agenda rossa era così pericolosa per lo Stato-mafia, tanto da farla sparire subito dopo la morte di Borsellino?