Avanzi di Gallera. “Il tempo è galantuomo” (Giulio Gallera, FI, assessore regionale della Lombardia al Welfare e Sanità, il Giornale, 15.7). Almeno lui.
Strategia della pensione. “Tutti in pensione più vecchi per mantenere chi non lavora. È inutile dare la colpa all’Europa. L’Inps è in rosso e per prestarci i soldi la Ue ci chiede di tirare la carretta fino a tarda età. Potremmo evitarcelo se non spendessimo in assistenza cento miliardi l’anno di contributi” (Libero, 17.7). Basta prendere esempio da Vittorio Feltri, che andò in pensione nel 1997 a 53 anni, con un modico vitalizio di 179 mila euro all’anno. Tié.
Dieta ferrea. “Pm e grillini hanno creato un’Italia degna della Ddr” (Carlo Calenda, Il Riformista, 9.6). Mi sa che, oltre a magnare, Carletto ha cominciato pure a bere.
Curriculum/1. “60 anni dopo il luglio di Pertini, la sinistra sparisce dalla Liguria. Il Pd appoggia il candidato di Travaglio, Ferruccio Sansa. Il giornalista, figlio di un magistrato, sfida Toti alle regionali: due destre, l’una contro l’altra” (Piero Sansonetti, Il Riformista, 17.7). Figlio di un magistrato anziché di un delinquente, ma vi rendete conto? Dove andremo a finire, signora mia.
Curriculum/2. “In cella per usura ed estorsione il fratello della senatrice Cirinnà” (Corriere della sera, 8.7). “Roma, sindaco cercasi. Ora nel Pd c’è chi dice: candidiamo Monica Cirinnà” (Il Foglio, 9.7). Che le manca? Adesso è proprio perfetta.
Nostalgia canaglia/1. “Berlusconi, altolà a Conte: ‘Rispetti la Costituzione’” (La Stampa, prima pagina, 12.7). Altrimenti gli manda una tessera onoraria di Forza Italia.
Nostalgia canaglia/2. “Conte governa con i decreti, come nel Ventennio” (Ignazio La Russa, deputato FdI, La Verità, 5.7). Tessera onoraria anche di Fratelli d’Italia.
Pierbobo. “Berlusconi almeno il senso dello Stato ce l’ha, è nel Ppe, ha dei valori. E certamente rispetto ai 5 Stelle è un gigante. E forse tutti abbiamo sbagliato nell’attaccarlo sempre su questioni personali, extrapolitiche, abbiamo lasciato che la magistratura facesse il lavoro sporco per noi… Nel ’92 abbiamo consegnato l’Italia ai magistrati… Abbiamo dato credito a Davigo, uno dei danni peggiori che potevano capitare all’Italia” (Sergio Staino, Libero, 13.7). Uno che non ha mai comprato giudici, sentenze, finanzieri, testimoni, premier, senatori, minorenni, nè frodato il fisco, nè falsato bilanci: il peggio del peggio.
Libero mercato. “Gianni Mion, il manager richiamato l’anno scorso al vertice della holding del gruppo, ha sottolineato come le istituzioni abbiano chiamato i Benetton a entrare in diverse società” (Corriere della sera, 16.7). Le istituzioni che chiamavano i Benetton con una telefonata al posto di una gara. É il libero mercato, bellezza.
Colpa di Virginia/1. “I 150 anni dimenticati di Roma, “Questo è l’anno del 150esimo anniversario della Capitale. Chi se n’è accorto? Il Covid non può giustificare tutto” (Giuseppe Pullara, Corriere della sera-Roma, 13.7). A dire il vero il 3 febbraio la sindaca Raggi ha inaugurato i festeggiamenti della ricorrenza al Teatro dell’Opera con i presidenti della Repubblica, della Camera e del Senato. Chi non se n’è accorto, a parte il Corriere?
Colpa di Virginia/2. “Gli incidenti gravi di monopattini sono avvenuti a Milano, perchè in Italia tutto comincia a Milano… Non sono mezzi di trasporto, ma un gioco pericoloso, anche dove l’asfalto non fosse catastrofico come nella disgraziata Roma della Raggi” (Francesco Merlo, Repubblica, 19.7). Quindi, se gli incidenti gravi sono a Milano, l’asfalto catastrofico non è di Sala: è della Raggi.
Colpa di Lucia. “Azzolina criticata perchè donna? No, è inetta, le sue uscite ci fanno sembrare tutte incapaci come lei” (Daniela Santanché, FdI, Libero, 19.7). Anzichè capaci come la Santanché.
Minacce/1. “Tocca a me parlarvi dei prossimi vent’anni. Libero ci sarà anche nel 2040 perchè continueremo sempre a non aver paura di dire le cose come stanno” (Pietro Senaldi per i 20 anni di Libero, 18.7). Una promessa o una minaccia?
Minacce/2. “Il virologo Clementi: ‘Se il governo proroga lo stato d’emergenza scendo in piazza’” (La Verità, 14.7). Il distanziamento sociale non sarà un problema.
Minacce/3. “Il quadro europeo favorisce l’ingresso di Berlusconi in maggioranza” (Gugliemo Epifani, ex segretario Cgil e Pd, Il Foglio, 10.7). E questa è la sinistra del Pd. Poi c’è la destra.
Il titolo della settimana/2. “Ue, l’Italia all’angolo” (Repubblica, 18.7). Pare di vederlo, Conte, stretto all’angolo con Merkel, Macron, Sanchez e i capi di governo di altri 19 Stati membri dell’Ue dall’olandese Karl Rutte in compagnia di se stesso. Che strilla: “Ehi, sono qui, ho fatto 23 prigionieri!”. E Orbàn: “Bravo, allora portali qui!”. E lui: “Non posso, non mi lasciano venire!”.
L'INTERVISTA - Giovanni Paparcuri, già sopravvissuto all'attentato di Chinnici, ha lavorato a stretto contatto con il magistrato ucciso il 19 luglio del 1992: "Un giorno, una settimana prima di Capaci, mi viene a trovare e mi dice testualmente: Giovanni, hai niente su Berlusconi?". Oggi Paparcuri cura il museo-bunker al Palazzo di giustizia di Palermo: "Ho trovato nella stanza del dottore Falcone una signora mentre piangeva. Mi disse: ero una di quelle che si lamentava del chiasso che faceva la scorta di Falcone". E sulla strage: "Secondo me qualcosa di importante è successo un mese prima di via d'Amelio, tra il 18 e il 19 giugno. Passai a trovarlo, mi guardava e non mi vedeva". Il racconto dello scenario pochi minuti dopo l'esplosione.
Giovanni Paparcuri ha vissuto almeno tre vite. La prima è finita il 29 luglio del 1983 alle 8 del mattino in via Giuseppe Pipitone Federico: era l’autista che aspettava Rocco Chinnici sotto casa per portarlo in ufficio. Fu l’unico sopravvissuto di quella spaventosa esplosione che fece diventare Palermo come Beirut. “Putroppo il consigliere Chinnici viene ricordato solo per questo: perché fu il primo magistrato assassinato con un’autobomba”. La sua seconda vita Paparcuri la deve a Paolo Borsellino: “Fu lui ad avere l’intuizione giusta che mi fece diventare, in pratica, l’esperto informatico del pool Antimafia“, racconta lui, che per Borsellino ha fatto ricerche importanti. Una è stata quasi dimenticata. “Mi ricordo che un giorno, circa una settimana prima della strage di Capaci, mi viene a trovare e mi dice testualmente: Giovanni, hai niente su Berlusconi?“, è la testimonianza consegnata da Paparcuri al fattoquotidiano.it. I documenti trovati dopo una lunga ricerca dall’informatico sono gli stessi che poi Borsellino mostrerà a Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, i due giornalisti francesi che vanno a intervistarlo il 21 maggio del 1992. Quell’intervista, come è noto, sarà resa pubblica in forma integrale soltanto nel 2009, quando Il Fatto Quotidiano la diffonde in Dvd. “Ma io all’epoca non ne sapevo nulla. Col senno di poi credo che Borsellino prima di venire da me avesse parlato di quella vicenda con Falcone. Ma questa è solo una mia riflessione”, dice Paparcuri 28 anni dopo la strage di via d’Amelio.
1986, festeggiamenti per la nomina di Borsellino a procuratore di Marsala. Paparcuri al centro, di spalle a destra Falcone. Risponde al telefono mentre è seduto in quella che un tempo era la stanza del magistrato assassinato il 19 luglio del 1992. Nella sua ultima vita, infatti, Giovanni Paparcuri è il padre di quello che lui chiama il “bunkerino“: sono le stanze blindate al piano ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo. Qui, negli anni ’80, lavoravano Giovanni Falcone, Paolo Borsellinoe il resto del pool creato da Chinnici e poi guidato da Antonino Caponnetto. Dopo le stragi quelle stanze sono state dimenticate: diventate una sorta di ripostiglio, era difficile persino individuarle. Poi nel 2015 sono tornate a vivere grazie a Paparcuri, che negli anni ha conservato tutto quello che c’era nel bunker. E grazie all’aiuto dell’Associazione nazionale magistrati lo ha fatto diventare un museo di storia civile. “Facciamo testimonianza“, dice lui, che si commuove quando spiega di aver ricollocato nella stanza di Borsellino la sua macchina da scrivere. “La usava spesso – racconta – era velocissimo a battere a macchina mentre Falcone scriveva a penna”. Vicino alla macchina, Paparcuri ha rimesso al suo posto il tocco, cioè il cappello dell’abito cerimoniale da magistrato: “Lo ha indossato l’ultima volta al funerale di Falcone”. Sul tavolo il necrologio scritto proprio per l’amico assassinato a Capaci. E poi un encomio ricevuto dal presidente del tribunale nel 1982, dieci anni prima di morire, per “l’alto servizio svolto al palazzo di giustizia di Palermo”. Tra le carte di Borsellino una copia dei “Professionisti dell’antimafia“, il celebre articolo di Leonardo Sciascia, uscito sul Corriere della Sera il 10 gennaio 1987. “Quel pezzo con tutto quello che rappresenta mi fa ancora oggi molto incazzare. Sa che ne ho trovato due copie di quell’articolo? Una era tra le cose di Falcone e una tra quelle di Borsellino?”
Nel 2015 la “discarica” è tornata a essere un bunker ed è diventata museo. Sì, ma non è il solito museo. Non ci sono solo oggetti, ci sono storie. Io racconto a chi viene il lato umano dei magistrati antimafia. Purtroppo ora a causa del virus siamo chiusi da febbraio. Ma dal 2016 sono passate da qui 30mila persone.
Turisti, appassionati di storia antimafia, curiosi: chi sono i visitatori? Chiunque, pure i palermitani. Una volta trovai nella stanza del dottore Falcone una signora mentre piangeva. Le chiesi: ma perché piange? Mi rispose: perché io ero una di quelle che si lamentava del chiasso che faceva la scorta di Falcone.
Quest’anno il 19 luglio viene di domenica, come nel 1992. Dov’era all’epoca Giovanni Paparcuri, “esperto informatico” del pool Antimafia? A casa, non mi ricordo se ritornavo dal mare. Sentii un boato, un tonfo secco. Il mio primo pensiero fu per il dottore Borsellino. Mi affacciai dal balcone e vidi una nube nera che si vedeva da tutta Palermo. Al contrario di come avevo fatto per la strage di Capaci, non telefonai a nessuno, non chiesi nulla. Scesi subito da casa
Perché no? Perché ero sicuro: segui la nube di fumo e arrivai in via d’Amelio.
Che cosa trovò? Quello che mi ha impressionato era la puzza di carne bruciata. Più mi avvicinavo al portone della madre del dottore Borsellino, più desideravo due cose.
Quali? La prima: speravo che fosse solo ferito. La seconda: se è morto, spero non abbia capito nulla. Poi ho visto un piccolo corpo, mutilato, nero: l’ho riconosciuto dal sorriso. Una smorfia che però sembrava un sorriso. Prima rideva spesso, dal 23 maggio non lo aveva fatto più.
A un’esplosione molto simile lei era sopravvissuto nove anni prima. Che cosa si prova? Io non mi accorsi di nulla. Mi ricordo delle belle sensazioni, un tunnel con una luce bianca in fondo. Mi sentivo leggero. Poi mi svegliai e la realtà era tremenda: ero pieno di sangue, le due dita della mano destra staccate. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti e iniziai a provare paura: capii che se li chiudevo potevo morire. Poi in ambulanza mi ricordai tutto e allora chiesi: ma come sta il consigliere Chinnici? E l’infermiere, candidamente, mi rispose: si ni futtissi, murieru tutti. Più o meno vuol dire: stia tranquillo e pensi alla sua vita, gli altri sono già morti.
Quello è il primo attentato con un’autobomba nel centro di una città. Purtroppo Chinnici è ricordato solo per questo motivo. Ma bisogna ricordare che l’idea del pool antimafia è sua. Le prime indagini da cui nasce il Maxiprocesso sono sue. Ma il merito più grande di Chinnici è un altro: fu il primo magistrato a credere nei ragazzi. Fu il primo in assoluto che andava a parlare coi più giovani. Il mio primo giorno di servizio lo dovetti accompagnare in una scuola. Mi chiesi tra me e me: ma che ci va a fare?
Che ci andava a fare? A raccontare il primo pericolo dell’epoca: la droga. Che poi era ed è un’altra faccia della mafia.
Dopo la morte di Chinnici, come mai Borsellino le propose di diventare “l’informatico” del pool? Mi venne a trovare in ospedale dopo l’attentato. Dovevo essere operato: l’esplosione che mi aveva colpito mi aveva fatto gonfiare i polmoni e quindi sentivo come se mille spilli mi pungessero al petto. Lui non poteva saperlo: per farmi coraggio si appoggiò e mi diede una sorta di pacca. Io gridai di dolore.
E Borsellino? Niente, divenne piccolo piccolo e se ne andò. Sarà per quell’episodio o chissà per cosa altro, fatto sta che un anno dopo, quando tornai a lavoro alla fine della convalescenza, Borsellino mi ha fatto rinascere.
In che senso? Con il consigliere Chinnici stavo per morire, col dottore Borsellino sono rinato. So che sembra assurdo ma mi hanno sempre colpito le analogie tra i due: sono nati entrambi il 19 gennaio, seppur di anni diversi. Sono morti tutti e due nella stessa maniera, con lo stesso metodo: un’autobomba. Lo stesso modello di autobomba: una 126. Il destino è beffardo.
Ma in che modo Borsellino l’ha fatta rinascere? Sapeva che mi piaceva l’informatica. Fu lui a trovare la soluzione dell’informatizzazione del Maxiprocesso, che all’inizio avevano affidato a una ditta esterna. L’idea geniale è stata sua, poi venne appoggiata da Falcone e Caponnetto.
In pratica lei faceva le ricerche informatiche negli archivi per i magistrati del pool? Anche, sì. All’inizio dovevamo digitalizzare gli atti. Poi divenni il gestore della banca dati. Quando Borsellino tornò a Palermo da procuratore aggiunto, ricordo che andò a lavorare al secondo piano, mentre io rimasi all’ammezzato. Allora quando aveva bisogno di una ricerca importante, particolare, il dottore scendeva nel mio ufficio e mi parlava a voce. Per tutte le altre ricerche, quelle normali, mi telefonava. Un giorno, circa una settimana prima della strage di Capaci, mi viene a trovare e mi dice testualmente: Giovanni, hai niente su Berlusconi?
Su Berlusconi? Risposi: ma chi è? Mi fece pure il nome di Dell’Utri, ma non mi diceva molto. Però poi quando sentii il nome di Mangano, che io già conoscevo per le indagini su Spatola, dissi: posso cercare. Trovai parecchia roba su Mangano ma lui insisteva su questo Berlusconi. Cerca, cerca, cerca, finalmente – anche grazie a una dritta – trovai un rapporto della Finanza di Milano, se non ricordo male. Era indicizzato in modo errato, cioè era stato inserito male nel computer perché i nomi di Berlusconi, dei fratelli Dell’Utri si trovavano solo all’interno del documento, ma non erano nella lista degli indagati. Quindi erano difficili da trovare.
Cosa fece con quel rapporto? Erano due volumi, li lessi e ne stampai le parti più importanti. Stampai pure il tabulato della ricerca e glielo consegnai.
I risultati di quella ricerca sono i fogli che Borsellino consulta durante l’ormai nota intervista con i due giornalisti francesi? Esattamente, ma io lo avrei saputo molti anni dopo, quando appunto quell’intervista andò in onda per la prima volta. Su quella storia mi è successo un altro fatto strano.
Quale? Dopo anni, quando cominciò il processo a Dell’Utri, uno degli avvocati dell’ex senatore mi fermò davanti al Palazzo di giustizia. Aveva in mano il tabulato della ricerca che io avevo fatto per Borsellino e mi chiese: ma questo Paparcuri qua è lei? Risposi di sì. La cosa finì là, ma mi incuriosì quell’episodio. Col senno di poi, ma è solo un mio pensiero, credo che Borsellino prima di venire da me avesse parlato con Falcone, che all’epoca era a Roma agli Affari penali del ministero della Giustizia.
Dice? E perché? Perché non mi disse di fare una ricerca in modo rituale, ma chiese quasi a botta sicura: tu hai qualcosa su Berlusconi? Dopo anni, nel 2017, sfogliando le carte di Falcone sulle vecchie dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia trovai quel suo appunto inedito proprio su Berlusconi.
In quel foglietto c’era scritto: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni a Grado e anche a Vittorio Mangano”. Esattamente, per questo col senno di poi ho pensato: vuoi vedere che Borsellino aveva parlato con Falcene prima di venirmi a chiedere di fare quella ricerca su Berlusconi? Io quell’appunto l’ho trovato per caso, anche se poi mi hanno accusato di averlo fatto uscire per motivi politici. A me della politica è sempre fregato molto poco.
Perché Borsellino viene ucciso in quel modo? E solo 57 giorni dopo Falcone? Non lo so, credo sia stato un omicidio preventivo. Io mi ricordo, perché c’ero, che in quei 57 giorni era molto preoccupato ma non si fermava mai un momento. Seguiva le indagini sulla strage di Capaci e questo mi consta personalmente perché mi assegnò non ufficialmente a quel magistrato, Pietro Vaccara.
In che senso “assegnò non ufficialmente”? C’era questo magistrato assegnato a Caltanissetta per indagare su Capaci. Borsellino mi chiese di aiutarlo. Spiace doverlo dire, ma Vaccara non era proprio all’altezza. La prima cosa che mi chiese furono le dichiarazioni di Buscetta. Vaccara non sapeva nulla di mafia e a Borsellino questa cosa faceva rabbia. E non lo nascondeva, se ne lamentò anche pubblicamente. Disse più volte che voleva essere sentito dalla procura di Caltanissetta come testimone ma nessuno lo ha mai ascoltato. Comunque secondo me qualcosa di importante per Borsellino è successo un mese prima della strage di via d’Amelio, tra il 18 e il 19 giugno.
Cioé? In quei giorni passai a salutarlo, a scambiare due chiacchiere. Lui mi guardava e non mi vedeva: con lo sguardo mi attraversava. Chissà a cosa pensava. Una situazione surreale. Ancora peggio dieci giorni dopo, il 29 giugno, quando andai a fargli gli auguri per l’onomastico. Lui mi guardava, muto. Boh. Un silenzio di tomba, mi salvò dall’imbarazzo l’arrivo di un suo collega. Poi lo incrociai qualche volta ma non si fermò mai a parlare, si vedeva che voleva stare da solo con i suoi pensieri.
E' "ancora possibile" che non vi sia "nessun accordo" al vertice europeo. Lo ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel arrivando al summit. "C'è molta buona volontà ma anche molte posizioni diverse - ha detto -, farò ogni sforzo ma è ancora possibile che oggi non si possano ottenere risultati".
"Oggi proseguiremo perché dobbiamo fare di tutto per chiudere. Rimandare questa partita non giova a nessuno" in Ue. Lo dice il premier Giuseppe Conte al termine della seconda giornata di lavori del Consiglio europeo sul Recovery fund. Nulla di fatto? "Assolutamente sì: la partita è ancora aperta. Ci sono punti specifici su cui stiamo discutendo anche animatamente". Lo dice il premier Giuseppe Conte al termine della seconda giornata di lavori del Consiglio europeo sul Recovery fund. Il confronto a tratti è "anche duro"."Siamo tutti vincitori o siamo tutti sconfitti.Siamo tutti sulla stessa barca, non stiamo aiutando l'Italia ma consentendo a tutti di riparare i danni della pandemia: le economie sono integrate". I leader si riuniranno di nuovo domenica a mezzogiorno. Lo scrive il portavoce di Charles Michel su Twitter.
Non è bastata una conversazione notturna, al bar dell'albergo, con Angela Merkel ed Emmanuel Macron. E neanche il vertice mattutino a cinque, presenti Pedro Sanchez e soprattutto Mark Rutte. Giuseppe Conte non riesce ad abbattere, nel negoziato europeo, il muro alzato dal primo ministro olandese, spalleggiato dal manipolo di Paesi frugali (Austria, Danimarca, Svezia, più la Finlandia). Non può accettare che, come Rutte pretende, un singolo Stato abbia il potere di bloccare l'erogazione dei fondi a un Paese che non attui le riforme. Perciò, per evitare che si acceleri verso un'intesa penalizzante l'Italia, decide di mettere sul tavolo tutte le sue armi. Dichiara di non essere disposto a rinunciare neanche a un euro, perché il negoziato è "molto importante per l'interesse degli italiani, ma anche degli europei". E mette in discussione, nel bilancio pluriennale, l'aumento dei rebates, sconti cui L'Aja tiene molto e che nelle ultime proposte di mediazione sono addirittura aumentati. Oltre a lanciare un avvertimento, con un intervento che fonti italiane definiscono "molto duro", davanti ai 26 colleghi europei: da lunedì bisognerà occuparsi di chi fa "dumping fiscale", come l'Olanda, o "surplus commerciali", come anche la Germania. Rutte chiede a Roma la riforma delle pensioni, a partire da quota 100, e del mercato del lavoro. "Noi - ribatte Conte - abbiamo deciso di affrontare, di nostra iniziativa, un percorso di riforme che ci consentano di correre ma pretenderemo una seria politica fiscale comune, per competere ad armi pari".
Il Governo italiano ha avanzato una proposta per modificare il meccanismo che può bloccare l'erogazione in fase di attuazione dei fondi del Recovery fund. La proposta, spiegano fonti italiane, prevede che le decisioni vengano prese "a maggioranza qualificata e non all'unanimità". Dall'inizio il premier Giuseppe Conte si è opposto alla richiesta di Mark Rutte di prendere le decisioni sui piani di riforma nazionali, in Consiglio europeo, all'unanimità.
Che il confronto con i paesi frugali sia duro l'ammette lo stesso premier Conte con un aggiornamento video in diretta da Facebook.
Conte: "È stallo, più complicato del previsto" - "Siamo in una fase di stallo: si sta rivelando molto complicato, più complicato del previsto. Sono tante questioni su cui stiamo ancora discutendo che non riusciamo a sciogliere" afferma Conte. "Stiamo cercando e dobbiamo trovare una sintesi perché è nell'interesse di tutti - aggiunge - ma certo anche mantenendo bene le coordinate più importanti, a partire dal fatto che gli strumenti devono essere proporzionati alla crisi ed effettivi, cioè efficaci. La nostra risposta deve essere pronta, collettiva, solida, robusta".
Fonti italiane, Rutte vuole l'unanimità, inaccettabile - Il primo ministro olandese Mark Rutte insiste con la richiesta che il via libera all'erogazione dei fondi del Recovery ai singoli Stati sia condizionata all'unanimità del Consiglio Ue: per l'Italia è una richiesta "inaccettabile", che non permette di sbloccare un'intesa. Lo spiegano fonti italiane mentre è in corso la seconda giornata di lavori del Consiglio europeo.
L'AGGIORNAMENTO DI CONTE DA BRUXELLES
Kurz, nessuna svolta ma direzione giusta - "Non vi è stata alcuna svolta" ma "siamo avviati nella giusta direzione e questa è la cosa più importante". Così il cancelliere austriaco Sebastian Kurz a margine del vertice Ue sul Recovery Fund e il bilancio. "Come ci aspettavamo, è una battaglia dura", ha detto Kurz, sottolineando che ci sono ancora "molte cose" da discutere, tra cui "il volume totale" del Recovery Fund, "in particolare per le sovvenzioni, come garantire che i soldi siano usati bene" per "le riforme" e il rispetto dello "stato di diritto" per l'allocazione degli aiuti.
Frugali puntano i piedi sui sussidi - La Svezia, a nome di tutti e quattro i Paesi frugali (Olanda, Austria e Danimarca), al vertice Ue, ha presentato una posizione in cui chiede di non andare oltre i 150 miliardi di sussidi come dotazione massima per il Recovery Fund. Si apprende da fonti diplomatiche europee.
Prima della sospensione dei lavori il premier Giuseppe Conte ha svolto "un intervento molto duro". Conte ha attaccato "l'approccio ben poco costruttivo con cui alcuni Paesi stanno affrontando la discussione, dimostrando scarsa consapevolezza sulla crisi epocale che l'Europa sta vivendo e sulla necessità di una pronta ed efficace reazione".Quella del Consiglio europeo "è una discussione spartiacque perché da domani dovrà essere affrontata in tutte le sedi europee una riforma organica della politica fiscale europea". Lo ha detto, secondo quanto si apprende, il premier Giuseppe Conte in Consiglio, nel dibattito sulla nuova proposta di Recovery fund. Conte è stato molto duro in particolare con i Paesi che vogliono riservarsi un veto sull'attuazione del budget che è inaccettabile giuridicamente e politicamente perché altera l'assetto istituzionale europeo". "L'Italia ha deciso di affrontare, di sua iniziativa, un percorso di riforme che le consentano di correre ma pretenderà una seria politica fiscale comune, in modo da affrontare una volta per tutte surplus commerciali e dumping fiscali, per competere ad armi pari". Lo ha detto il premier Giuseppe Conte, a quanto riferiscono fonti italiane, nel suo intervento in Consiglio europeo. A chi chiede se Conte abbia voluto bocciare la nuova proposta di Michel, le stesse fonti rispondono che ha fatto un "discorso ampio"
IL PIANO DI MICHEL Oltre alle riduzioni delle svvenzioni a fondo perduto, la proposta propone di dare 'rebates' (rimborsi) più alti, di approvare una chiave di distribuzione modificata dei finanziamenti europei (60% dei fondi distribuiti in base a Pil e disoccupazione degli ultimi 5 anni, e il 40% in base al calo della crescita solo dell'ultimo anno) e l'introduzione di un 'freno di emergenza' sulla governance, con la possibilità per i Paesi di bloccare l'esborso dei fondi e chiedere l'intervento del Consiglio. Nella nuova proposta del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel vengono aumentati i 'rebate', cioè i rimborsi (meccanismo correttivo della contribuzione al Bilancio) per Svezia, Danimarca e Austria. Si apprende a Bruxelles. Svezia e Danimarca ottengono 25 milioni in più rispetto alla precedente proposta, passando rispettivamente da 798 a 823 milioni, e da 197 a 222 milioni. All'Austria vanno 50 milioni in più, passando da 237 a 287 milioni. Risultano invariati invece i rebate per Germania e Olanda, rispetto alla proposta precedente di Michel. L'Italia però continua a difendere la centralità del ruolo della Commissione europea. "La proposta sulla governance presentata da Michel è un passo nella giusta direzione": così fonti diplomatiche olandesi commentano il nuovo pacchetto sul tavolo del vertice Ue. Ma sottolineano come si tratti di un pacchetto, "e ci sono molte cose ancora da risolvere. Se ci riusciamo dipenderà dalle prossime 24 ore".
E se il comportamento di Rutte fosse il risultato dei ricatti dei paperoni italiani che reggono egregiamente l'economia olandese? Il ricatto potrebbe essere anche una logica spiegazione che va a tutto vantaggio dell'Olanda, che funge da paradiso fiscale, e di chi la usa, per eludere il fisco nazionale.c.
A Bruxelles non Giuseppe Conte, ma l’Italia intera combatte una guerra per la vita o la morte sul Recovery Fund. Al suo fianco c’è la gran parte dei paesi Ue, con tutti gli altri più grandi e influenti: Germania, Francia e Spagna. E questo sia per i rapporti diplomatici intessuti da Conte, forte degli alti consensi in patria, sia perché Berlino e il fronte mediterraneo condividono un disperato bisogno di sussidi per far ripartire le rispettive economie e quella europea nel suo complesso e rispondere alle cascate di miliardi investiti (e stampati) dalle superpotenze concorrenti (Usa, Cina e Giappone). In caso di guerra, e questo lo è, non c’è più maggioranza né opposizione: tutti si stringono attorno al capo del governo e lo sostengono “a prescindere”, in attesa di tornare a dividersi sulle questioni interne. Infatti persino quello sfasciacarrozze di Salvini, oltre a Meloni e a FI, hanno indetto una breve tregua dalle polemiche, ben consci di alcuni fatti incontestabili: Conte pesca il suo 60% e più di credibilità nei sondaggi anche fra i loro elettori; tra i più acerrimi nemici dell’Italia ci sono molti loro amici e alleati in Europa; e polemizzare anche ora col premier significherebbe indebolirlo nella partita mortale con l’Olanda e gli altri paesi “frugali” (cioè egoisti, miopi e un po’ criminali). Cioè pugnalare alla schiena non lui, ma l’Italia. Che già sconta diffidenze per il suo debito pubblico e le altre tare ataviche. Dunque corre in salita, anche a causa delle demenziali regole europee che consentono a un paesucolo di 17 milioni di abitanti come l’Olanda, per giunta paradiso fiscale, di ricattare e paralizzare col veto e i rutti di Rutte tutta l’Unione europea che ne ingloba 446 milioni.
Si dirà: ciascuno fa i propri interessi. Ma, a parte il fatto che è anche interesse dei “frugali” non far sprofondare l’economia di tutta l’Europa (altrimenti – come ha detto Prodi – “a chi li vendono gli olandesi i loro tulipani?”), gli interessi in Europa, così come gli effetti del Covid, sono tutt’altro che simmetrici. L’altro giorno il manifesto notava che sono proprio i “frugali” a prendere dal mercato comune europeo molto più di quanto danno alla Ue. L’Olanda, per ogni euro versato, ne guadagna 11; Austria e Svezia 9; Danimarca 7. E questo perché i loro mercati interni sono ristrettissimi e dipendono in gran parte dall’export. Nella Ue e nei paesi associati, il mercato unico di quasi 500 milioni di persone e le 4 libertà (di circolazione di merci, capitali, servizi e persone) fa guadagnare ogni anno 427 miliardi, cioè 840 euro per ogni cittadino. Ma solo in media: una tabella compilata dalla Commissione europea in base a ricerche recentissime dimostra sperequazioni spaventose.
I cittadini dell’Europa centrale (specie negli Stati più piccoli) guadagnano 3.600 euro pro capite e quelli delle regioni più periferiche appena 150 a testa. Eppure basta il veto di un nano per legare le mani al gigante e trascinarlo in fondo al mare. Quindi la leggenda delle formichine del Nord stufe di svenarsi per le cicale del Sud non sta in piedi. Serve ad alimentare la propaganda dell’Olanda e dei suoi pochi alleati. Infatti persino in quei paesi la stampa e l’intellighenzia più illuminate contestano la testardaggine, miope e alla fin fine suicida, dei rispettivi governi. E si sa quanto contano intellettuali, economisti e giornalisti per smuovere anche le opinioni pubbliche più egoiste. In Italia, tanto per cambiare, accade l’esatto opposto. Se ieri, a Bruxelles, i colleghi di Conte avessero dato un’occhiata ai giornali italiani avrebbero scoperto che li ha quasi tutti contro. E non per le sacrosante critiche dovute ai politici che le meritano. Ma per il pregiudizio universale che accompagna Conte da quando osa fare il premier, a costo di contare balle e danneggiare l’Italia pur di buttarlo giù e metterci al posto l’ammucchiata di larghe imprese. Basta leggere la stampa umoristica, quella di destra che qualche frescone si ostina a definire “sovranista”. Il Giornale di B. quello moderato e responsabile, titola a caratteri di scatola: “CONTE DRACULA”. La Verità racconta che, siccome non ha ancora abolito le tasse, “Conte si riprende gli aiuti alle imprese”. Libero, noto alfiere del sovranismo e del patriottismo, riesce a sostenere che “L’Ue non dà i soldi perché non si fida di Conte” (se al suo posto ci fosse Salvini, o B. che ci faceva fare dei figuroni in tutto il mondo, allora sì). E sapete perché? Per “le politiche dei grillini: nazionalizzazioni e assistenzialismo a pioggia” (cioè perché ridiamo le autostrade allo Stato, come in Germania, e diamo il reddito di cittadinanza a chi non ha un euro, come tutto il resto della Ue). Dunque Feltri&Senaldi scavalcano Salvini&Meloni e schierano financo con Olanda&C.: “Voi al suo posto cosa fareste?”.
Ma il record di patriottismo lo stabilisce l’ultimo nato fra i giornali di destra: Repubblica. Che così descrive, con la consueta obiettività, la guerra solitaria dell’Olanda contro il resto d’Europa: “Ue, l’Italia all’angolo”. Poi fa la gara di patriottismo con Feltri e Senaldi e titola, e la vince: “Processo all’Italia. L’Olanda guida l’accusa: ‘Non ci fidiamo più’”. Non male, per il giornale del gruppo Fca che ha sede, indovinate un po’, in Olanda. I Frugali sono in buone mani: se l’amico Rutte dovesse stancarsi e mollare un po’, ci pensa Sambuca Molinari a rimettere in riga quelle merde di italiani.
Farsi pagare per ricevere una consulenza anziché fornirla è una magia da fuoriclasse del ramo, peraltro in linea con il prestigio di Sandro Gozi. Il paradosso è contenuto nel decreto di archiviazione del caso San Marino, vicenda giudiziaria legata a presunte prestazioni fantasma e finita su un binario morto perché la magistratura della piccola repubblica non è riuscita a dimostrare condotte penalmente rilevanti da parte del poliedrico politico prodiano, veltroniano, Ignazio mariniano, renziano, macroniano, muscatiano (nel senso del premier di Malta), da sempre impegnato in un interminabile Erasmus all’estero.
Nel fascicolo archiviato, come messaggi in bottiglia lanciati da un’isola deserta, galleggiano però considerazioni curiose degli inquirenti. Per esempio che «la pretesa consulenza ad ampio spettro non ebbe alcuna estrinsecazione concreta. Il consulente ricevette (e non fornì) indicazioni, valutazioni strategiche, relazioni e documenti». Bello sapere che esiste un mondo al contrario, dove Gozi incassava una parcella di 10.000 euro al mese per avere supporto dal cliente invece che offrirlo.
La storia è semplice e ruota attorno all’inchiesta della magistratura sammarinese partita da un esposto che denunciava una consulenza fantasma di 220.000 euro a beneficio di Gozi da parte della Bcsm (la banca centrale di San Marino); il motivo doveva essere «l’adeguamento normativo per armonizzare i rapporti con Unione europea e istituzioni estere». Sotto inchiesta era finita (poi archiviata) anche la presidente dell’istituto Catia Tomasetti, 56 anni, di Rimini.
Famiglia storicamente di sinistra (il padre è stato il tesoriere del Pci della città), ha costruito la sua carriera nelle aziende e nella finanza. Avvocato del ramo finanziario nello studio Bonelli Erede, prima di guidare la banca centrale di San Marino è stata presidente di Acea e consulente di Terna. Dopo due anni di indagini, il Commissario della legge ha ritenuto che non emergesse alcuna condotta rilevante a loro carico, ma in tempi di reputation anche i comportamenti hanno il loro peso, soprattutto politico.
Così il sito d’informazione di San Marino, Libertas, è andato a spulciare il decreto di archiviazione e ha scoperto dettagli interessanti. Emerge dalle carte che il gran visir di Matteo Renzi si era proposto tempo addietro all’allora segretario di Stato alle Finanze, Simone Celli, come consulente strategico del governo per il negoziato sull’Accordo di associazione con la Ue.
La proposta fu bocciata da segretario agli Esteri Nicola Renzi che «non ritenne opportuna una consulenza di un ex esponente del governo italiano», quindi da tutto l’esecutivo del principato. Gozi ha ottenuto comunque una consulenza definita ad ampio spettro, di sicuro impressionista nella concretizzazione. Come scrive Libertas – L’informazione di San Marino dopo aver letto il decreto d’archiviazione, «fu anzi la struttura di Bcsm ad elaborare gli interventi e a predisporre i documenti che Gozi riceveva nell’imminenza di un appuntamento e che poi esponeva come se fossero stati da lui elaborati».
E ancora: «Gozi telefonava alla struttura di Banca Centrale con una certa frequenza per chiedere aggiornamenti sullo stadio della trattativa e, in generale, per informarsi su tutto ciò che Banca Centrale stesse facendo. Chiedeva di avere aggiornamenti e che gli fossero inoltrati i documenti che Banca Centrale aveva ricevuto dalla segreteria Affari Esteri». Insomma, secondo gli investigatori le dritte a pagamento se le faceva dare lui. Sapendo che l’interessato poliglotta coglie al volo: toujours perdrix.Sandro Gozi è un politico eclettico, romagnolo doc, 52 anni passati dentro i palazzi dell’amministrazione, soprattutto europea.
Bruxelles non ha segreti per lui, uomo d’apparato della casta globalista dai tempi di Romano Prodi presidente della Commissione, poi discepolo di ogni leader della sinistra riformista, sottosegretario agli Affari europei con Renzi e Gentiloni. Tutto questo prima dello sbarco in Francia, folgorato sulla via di Emmanuel Macron. Egualmente affezionato della Leopolda, quando il senatore di Scandicci ha fondato Italia viva, si è tuffato e adesso nuota senza far rumore.
Le consulenze sono il suo forte, non solo a San Marino. L’anno scorso ha suscitato polemiche un incarico ottenuto dall’ex premier maltese Joseph Muscat sulla gestione dei flussi migratori, al centro di un’inchiesta di Le Monde e di The Times of Malta. Non è passata sotto silenzio neppure la scelta di proporsi come consulente per gli Affari europei all’ex premier francese Eduard Philippe, con automatica accusa di tradimento dell’Italia. Cosa incomprensibile per lui, grand commis di Bruxelles per il quale gli Stati nazionali sono un cascame del ‘900.
Ora sul monte Titano la partita giudiziaria è chiusa, ma il passaggio di Gozi a livello politico-diplomatico non deve aver lasciato ricordi indelebili. «Non dava la sensazione di conoscere la situazione sammarinese in relazione ai rapporti tra San Marino e l’Unione europea. Non aveva contezza del problema relativo, ad esempio, al recepimento delle direttive e dei regolamenti comunitari. Sicuramente era più propenso alle pubbliche relazioni».
Alcune frasi del provvedimento di archiviazione riportate dal sito Libertas – L’informazione di San Marino, mostrano una leggiadra ferocia. Il giudice sottolinea come fosse la Banca Centrale a fornire indicazioni, ragguagli, relazioni e documenti sui quali Gozi «esprimeva sintetiche valutazioni». E conclude con un giudizio negativo dell’apporto dell’abbronzato consulente planetario: «Appare indubitabile che l’incarico di consulenza sia rimasto inattuato». Ma la bocciatura professionale non è reato.