martedì 18 settembre 2012

Uranio impoverito, morto il soldato che denunciò: “Non ci pagheranno mai”.


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Salvo Cannizzo, 36 anni, senza speranza per un tumore al cervello al fattoquotidiano.it aveva raccontato la sua battaglia per denunciare “la condizione di duemila militari in Italia, abbandonati dallo Stato, ammalati senza che gli venga riconosciuto lo stato di servizio”. Oggi i funerali a Catania.

Al fattoquotidiano.it, poco meno di due mesi fa, raccontò la sua storia e ribadì la sua certezza: che lui e i suoi compagni in divisa sarebbero morti tutti a causa dell’uranio impoverito presente nelle bombe che gli americani avevano disseminato in Kosovo. E così è stato: il militare catanese Salvo Cannizzo, 36 anni, con una lunga esperienza sul fronte, è stato ucciso da un tumore al al cervello. Il soldato, che per un periodo aveva smesso di curarsi, aveva deciso di dedicare il tempo che gli rimaneva a denunciare “la condizione di duemila militari in Italia, abbandonati dallo Stato, ammalati senza che gli venga riconosciuto lo stato di servizio”. Aveva anche avviato uno sciopero della chemio, per vedere “se il ministero della Difesa ha il coraggio di lasciar morire me e gli altri duemila soldati italiani nelle mie condizioni”. Cure riprese per amore della famiglia. Anche se la rabbia che nutriva non si affievoliva mai al pensiero che “gli americani sapevano dei rischi dell’uranio, lasciando noi italiani nelle zone ad alto rischio: ho visto a Djakovica squadre trattare del semplice munizionamento con tute da “astronauti” e autorespiratori”.
Il sergente padre di tre bimbe, si era ammalato nel 2006, come altri cinque componenti della sua squadra, uno di quali già deceduto, e da tempo era costretto su una sedia a rotelle. Congedato nel 2011, dopo quattro missioni dal 1999 al 2001, percepiva, dopo una carriera di diciassette anni, una pensione di 769 euro al mese. Una miseria per lui che si riteneva vittima dell’uranio impoverito ‘assorbito’  appunto in Kosovo. Quando aveva scelto di interrompere temporaneamente le cure in quell’occasione aveva manifestato incatenandosi: “Non posso scegliere come vivere, però posso scegliere come morire”, spiegò. “A Pavia, dopo l’intervento a Milano, mi hanno dato sei mesi di vita, ma curandomi ho alcune possibilità di arrivare a tre anni. Ma chi ha i soldi per sostenere le chemio in Lombardia?”. 
Delle sue missioni ricordava bene l’ambiguità: “Erano chiamate di peace keeping: un giorno dovevamo mostrarci amici, il giorno dopo magari dovevamo disarmare una squadra dell’Uck” raccontava. Sulla guerra in Kosovo aveva un’opinione netta: “Dovevamo cacciare chi era da sempre in quei territori per far spazio ai nuovi arrivati. Una guerra ingiusta, nata solo perché una guerra gli americani dovevano farla”. Cannizzo non credeva nelle class action di militari reduci dalla guerra per ottenere il risarcimento contro i danni provocati, e mai riconosciuti, dall’uso di uranio impoverito: “So già che non ci pagheranno mai, moriremo tutti”. Oggi pomeriggio i funerali nella chiesa di San Leone a Catania. 
”Quella di Salvo Cannizzo è una storia emblematica che dimostra come lo Stato può essere sordo e insensibile anche di fronte a gesti estremi di protesta, nel tentativo di far sentire la propria voce, come quello dello sciopero della chemioterapia, messo in atto dall’ex militare nei mesi scorsi – dice il legale dell’Associazione Vittime Uranio Bruno Ciarmoli – . Ai suoi familiari vanno le nostre sentite condoglianze. Ci aspettiamo almeno adesso delle risposte concrete da parte degli organi competenti. A tal proposito dallo scorso luglio giace senza risposta alla Camera un’ interrogazione al ministro della Difesa Di Paola. Il minino che lo Stato possa fare è quello di garantire vicinanza e aiuto concreto alla famiglia di Salvo Cannizzo, costretto ad una pensione da fame. Vale la pena ricordare – conclude Ciarmoli – che in Italia sono oltre 200 i morti per possibile contaminazioneda uranio impoverito e almeno 2500 i militari o ex militari gravemente ammalati, ma si tratta di dati parziali. E’ auspicabile che anche sulle dimensioni del fenomeno venga fatta la opportuna chiarezza”.

E’ ufficiale, Mediaset non corre più per La7 e imbarazza Mediobanca.


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Un comunicato di Cologno conferma il ritiro, ma ricorda che a invitarla a partecipare era stata Piazzetta Cuccia, che nell'operazione gioca su tutti i tavoli. Da azionista di Telecom dirà la sua, da consulente della vendita ha stoppato il Biscione, da analista finanziario ha bocciato l'acquisizione del "terzo polo" da parte dei Berlusconi.

E’ ufficiale, Mediaset si è ritirata dalla gara per l’acquisto di La7. Lo ha deciso il comitato esecutivo del Biscione dopo che al gruppo televisivo guidato da Fedele Confalonieri e Pier Silvio Berlusconi era stato negato l’accesso ai dati sensibili dell’emittente in vendita. A stoppare Cologno, era stata la stessa Mediobanca che  in veste di consulente sta gestendo l’operazione per conto di Telecom Italia (società partecipata da Piazzetta Cuccia).  Quello che emerge dalla nota con cui Mediaset, il cui azionista di controllo è anche socio forte di Mediobanca, è però che era stata la stessa banca d’affari guidata da Alberto Nagel a invitare il gruppo della famiglia Berlusconi a partecipare alla gara.
“Al fine di evitare ulteriori strumentalizzazioni e voci interessate prive di qualsiasi fondamento – si legge infatti in una nota del gruppo televisivo – Mediaset si vede costretta a intervenire sul caso Ti Media comunicando di aver ricevuto il 15 giugno 2012 un formale invito da Mediobanca a manifestare eventuale interesse per ottenere l’information memorandum relativo alla cessione, interesse che è stato confermato da Mediaset il 22 giugno”. Tuttavia, continua la nota, “già a luglio l’esame dei dati in nostro possesso ha ribadito l’orientamento che ha sempre sconsigliato alla nostra società qualsiasi impegno relativo agli asset in vendita del gruppo Telecom, orientamento che non si è mai modificato e che confermiamo a tutt’oggi”.
“Chiarita pubblicamente la nostra estraneità all’operazione fin da prima della pausa estiva, auspichiamo che il processo di cessione prosegua con successo – e con nuove brillanti performance borsistiche – senza più utilizzare il nome della nostra società per creare visibilità e interesse intorno alla dismissione di un’attività in cerca di acquirenti che vanta risultati di bilancio da sempre negativi”, conclude la nota di di Cologno monzese.
Proprio in Piazza Affari oggi è proseguita la corsa del titolo Telecom Italia Media  la società di Telecom Italia  cui fa capo La7: verso fine seduta il guadagno è del 17,11%, ancora in calo, invece, Mediaset che cede il 3,13 per cento. Gia ieri le pressioni e le indiscrezioni del finesettimana sul processo di vendita di La7 avevano fatto buon gioco al titolo del gruppo di telecomunicazioni che, tra una sospensione al rialzo e l’altra, aveva registrato un balzo del 13,51% a 0,18 euro.  A stuzzicare il mercato il fatto che dopo anni di abboccamenti all’italiana risolti in un nulla di fatto, la cessione del cosiddetto terzo polo sembra davvero in dirittura d’arrivo. Con tanto di lista di almeno sette potenziali pretendenti che per ogni pezzo che perde (Mediaset) ne guadagna uno (Sky). E a poco erano valse (ieri come oggi) le osservazioni degli operatori più razionali che invitano ad aspettare almeno fino al 24 settembre, quando i candidati che hanno bussato alla porta di Mediobanca per visionare il dossier dovranno dimostrare se fanno sul serio o meno presentando un’offerta.
Quanto al titolo Mediaset, ieri aveva perso il 2,2% a 1,82 euro, proprio mentre diventava quasi ufficiale l’esclusione dalla gara da parte di Mediobanca. Piazzetta Cuccia, che tra i suoi azionisti conta anche la Fininvest, aveva infatti deciso di non inviare a Cologno Monzese la documentazione necessaria per valutare La7 escludendo di fatto il gruppo televisivo dalla gara. Le fonti che ne hanno parlato all’Adn Kronos dopo le indiscrezioni di ieri Repubblica, hanno motivato la decisione in primo luogo con l’arrivo fuori tempo massimo della manifestazione di interesse di Mediaset, in secondo luogo con il fatto che si tratta di una gara privata non soggetta agli stessi obblighi di una gara pubblica. Questioni, quindi, di opportunità, dal punto di vista degli affari legate ai potenziali problemi di Antitrust se l’offerta di Cologno si fosse concretizzata. 
Sull’andamento del titolo ieri avevano pesato le ipotesi di chi temeva che il boccone La7 potesse risultare indigesto per le finanze del gruppo televisivo della famiglia Berlusconi. “Non ci sorprenderemmo se la società decidesse di dare il via a un aumento di capitale per finanziarie un’eventuale operazione. In alternativa il gruppo potrebbe decidere di non pagare alcun dividendo per i prossimi tre anni”, recitava per esempio uno studio di analisti che però porta la firma della stessa Mediobanca. “In teoria Mediaset sarebbe in grado di supportare il deal – continuava lo studio citando la valutazione base di La7 di 500 milioni di euro debiti inclusi riportata dalla stampa – Il problema è che in questo modo il debito del gruppo potrebbe superare quest’anno i 2,3 miliardi di euro”. E l’operazione metterebbe troppo sotto pressione il livello di debito del gruppo nel breve periodo. 
Quello che Mediobanca non diceva è che a mettere altrettanto sotto pressione il Biscione era il rischio che La7 finisca nell’orbita di un gruppo in grado di farle raddoppiare se non triplicare lo share dall’attuale  (3,5%) trasformando l’emittente di Telecom in un temibile concorrente, come dimostra l’andamento di Borsa di oggi. Non è un caso, notano gli operatori del settore, che la vendita, per quanto nell’aria da anni, sia passata dallo status di affare mormorato all’orecchio a quello di asta ufficiale proprio in un momento in cui Silvio Berlusconi non è al governo.
Ed è anche per questo che la fila per guardare le carte è lunga. Ieri sera, infatti, è emerso che si è aggiunta anche la News Corporation di  Rupert Murdoch  all’elenco che comprendeva  il gruppo americano Liberty Media, con la sua controllata Discovery Channel fino all’arrivo dello “squalo” ritenuto in pole position, ma anche i tedeschi di Rtl; il concessionario di pubblicità di La7, la Cairo Communications del presidente del Torino, Urbano Cairo;  la 3 Italia controllata dal magnate cinese Li Ka Shing e una serie di fondi d’investimento tra cui Clessidra di Claudio Sposito, ex amministratore delegato di Fininvest. E ancora Abertis ed  Ei Towers (gruppo Mediaset) interessati alle frequenze e alle torri di trasmissione del segnale.
L’operazione di vendita però non appare così semplice. Nonostante il gruppo Telecom Italia Media abbia investito negli ultimi mesi per rafforzare La7, registrando nel 2011 un aumento dello share del 24%, il gruppo ha chiuso il primo semestre con un rosso di 35 milioni di euro. Ma soprattutto, con un indebitamento netto salito da 138,7 a 201 milioni di euro. Numeri che fanno riflettere i potenziali compratori sia sul fronte dei costi che di un eventuale piano industriale per rendere per la prima volta profittevole l’emittente.  La partita, in ogni caso, è ancora lunga e non si concluderà con le offerte non vincolanti della settimana prossima. Che potrebbero arrivare anche da chi non ha fatto richiesta di vedere il dossier. 

Il figlio della prof fa campagna elettorale alla mamma con la mailing list d’ateneo. - Leandro Perrotta


"Votate alle regionali per la mia professoressa" è il testo di un mail inviata a tutti gli iscritti all'Università di Catania. A scriverla è Daniele Di Maria, figlio di Maria Elena Grassi, docente dello stesso ente etneo nonché candidata per l'Udc alle prossime elezioni. Il padre è Antonino Di Maria, membro dello staff del rettore: se fosse provato il suo coinvolgimento rischierebbe la galera (e il lavoro).


“Votate alle regionali per la mia prof, Maria Elena Grassi“. Un invito che, intorno alle ore 19 di lunedì 17 settembre, è arrivato a migliaia di studenti e docenti dell’università di Catania i cui indirizzi si trovano nella mailing list d’ateneo. Il mittente è Daniele Di Maria, all’apparenza un normale studente etneo – ma con molti contatti – che, insieme ad altri 15 colleghi, sostiene la candidatura con l’Udc della dirigente scolastica dell’istituto catanese Lucia Mangano.
“Apprezzando le sue capacità di donna e di professionista”, spiega lui stesso. Ma qualcuno si accorge che qualcosa non va: la mail infatti è stata spedita dai server dell’università. E sembra proprio essere arrivata a tutti i contatti della mailing list d’ateneo. Come ha fatto lo studente Di Maria ad accedervi, usandola in maniera del tutto impropria resta ancora da chiarire. Quello che è certo è che a quella mailing list può accedervi il padre, Antonino Di Maria, membro dello staff del rettore etneo Antonino Recca, fino a non troppo tempo fa coordinatore locale proprio del partito di Casini. Ma come mai questo attaccamento dei Di Maria alla candidata? Rapporti di sangue. Daniele altri non è che il figlio della Grassi e di Antonino, dipendente Unict.
I primi ad accorgersi che qualcosa non quadrava nell’invito elettorale sono stati gli studenti del Movimento studentesco catanese. Stamattina, con un’incursione al palazzo centrale del Siculorum gymnasium, hanno scoperto che il collegamento tra l’ateneo di Catania e la candidata Maria Elena Grassi doveva essere più che un server. Su una scrivania degli uffici universitari, infatti, campeggiava una mazzetta di santini elettorali della bionda candidata. Che intanto dissimula: “Se qualcuno si è permesso di mandare email a qualcuno che non voleva riceverne, mi dispiace”.
Lei si dice all’oscuro dell’iniziativa, venuta “dai ragazzi come Daniele Di Maria, mio sostenitore come tanti altri”. Ma dimentica di dire che il sostenitore è anche suo figlio. E che il marito è Antonio Di Maria, impiegato proprio presso gli uffici del Rettorato. Qualora fosse provato il suo coinvolgimento, i messaggi potrebbero costare caro alla famiglia Grassi-Di Maria. E non solo in senso elettorale. Potrebbe trattarsi di abuso d’ufficio: punito con sei anni di reclusione e il licenziamento.
“Anche questa volta il movimento studentesco è impegnato nel trasformare in rissa l’attuale democratica competizione elettorale regionale – risponde il giovane Di Maria – L’ultima, assurda pretesa è quella di precludere agli altri l’utilizzo del web, al quale qualunque studente è libero di accedere”. Secondo il figlio della candidata, per non ricevere più email a un indirizzo che non è mai stato fornito per scopi elettorali, basterà richiedere la cancellazione dal loro archivio. “Di quanto successo non sappiamo nulla”, risponde a sua volta l’Ateneo sulla vicenda. Del resto, come da molti mesi ormai, sulle questioni sollevate dal Movimento studentesco catanese “non ci saranno risposte ufficiali”, aveva già affermato il rettore Antonino Recca nei mesi scorsi. “Una risposta ufficiale dell’Università potrebbe arrivare solo dopo un’ipotetica richiesta di intervento della magistratura” concludono dall’ufficio stampa. Intervento che Matteo Iannitti, portavoce del Movimento studentesco, annuncia già di voler richiedere.

Nuove regole per il bilancio dei gruppi alla Camera: no ai controlli da società esterne.

(Adnkronos)

Roma - (Adnkronos) - E' l'orientamento sul quale Bressa (Pd) e Leone (Pdl), su indicazione di Fini, stanno predisponendo un nuovo testo che sarà presentato mercoledì alla Giunta per il Regolamento. Visto che i gruppi sono associazioni di deputati il controllo sulla contabilità spetterebbe al Collegio dei QuestoriFranceschini: ''Il Pd farà comunque certificare i bilanci da una società di revisione esterna''. Lo stesso annunciano Idv e Udc.

Roma, 18 set. (Adnkronos) - Non saranno società di revisione esterne verificare i bilanci dei gruppi parlamentari di Montecitorio. Ma strutture interne alla Camera. E' questo l'orientamento su cui Gianclaudio Bressa del Pd e Antonio Leone del Pdl, su indicazione di Gianfranco Fini e con l'accordo di tutti i gruppi, stanno predisponendo un nuovo testo che sara' presentato domani alla Giunta per il Regolamento.
Proprio Fini, in Aula, ha detto che domani la giunta per il Regolamento "potrà valutare l'opportunità di ripristinare il testo iniziale". E ''il testo che verrà approvato in giunta sarà votato in aula nelle settimane successive'', ha ricordato.
Nel testo iniziale, pubblicato sul sito della Camera, all'art. 15 ter comma 2, su proposta del presidente Fini, si specificava che "allo scopo di garantire la trasparenza e la correttezza nella gestione contabile e finanziaria, ciascun Gruppo si avvale di una società di revisione legale, che verifica nel corso dell'esercizio la regolare tenuta della contabilità e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili ed esprime un giudizio sul rendiconto".
Nella riunione di mercoledì scorso della Giunta per il Regolamento, però, sono emerse altre indicazioni. Visto che i gruppi sono associazioni di deputati e soggetti necessari al funzionamento della Camera, la funzione di controllo sulla regolare tenuta della contabilità dei Gruppi spetterebbe al Collegio dei Questori.
Per questo si arrivati a una nuova formulazione del testo in cui si specifica che "entro trenta giorni dalla propria costituzione, ciascun Gruppo approva uno statuto, che e' trasmesso al Presidente della Camera entro i successivi cinque giorni". Questo statuto "indica l'organo competente ad approvare il rendiconto di cui all'articolo 15-ter e l'organo responsabile per la gestione delle attivita' economiche del Gruppo".
Il Pd farà comunque certificare i bilanci dei propri gruppi parlamentari da una società di revisione esterna. Lo ha spiegato Dario Franceschini, ricordando come siano stati proprio i democratici a sollevare la questione in una lettera, inviata a Fini il 6 aprile scorso, nella quale il capogruppo del Pd chiedeva "di avviare con la massima sollecitudine un'iniziativa che porti all'introduzione di nuove regole certe riguardanti i bilanci dei gruppi parlamentari".
Come il Pd, anche l'Udc si affiderà a società di revisione esterna per la certificazione di bilanci dei propri gruppi parlamentari. Lo ha chiarito Pier Ferdinando Casini intervenendo in aula alla Camera: "Taglieremo così sul nascere ogni polemica futura, che sarebbe pagata dalla politica e da noi tutti".
"E' grave e negativo l'orientamento assunto dalla Giunta per il Regolamento. Il Paese ha bisogno di segnali di chiarezza e che la politica diventi una casa di cristallo". Lo ha detto Massimo Donadi alla Camera annunciando che l'Idv affiderà a società di revisione esterne, la certificazione dei bilanci dei gruppi. "E' un atto dovuto di trasparenza".

http://www.adnkronos.com/IGN/News/Politica/?id=3.1.3708134247 

Micciché: "Falcone e Borsellino? Sbagliato intitolare a loro l'aeroporto"


Micciché: "Falcone e Borsellino? Sbagliato intitolare a loro l'aeroporto"

Lo Strafatto Gianfranco Miccichè


Il candidato alla presidenza della Regione insiste: "Io l'avrei intestato ad Archimede o qualche figura che non ricorda la mafia".

Lo aveva già detto in occasione dell'intitolazione, adesso Gianfranco Micciché ribadisce il concetto che il nome dei due eroi palermitani per eccellenza, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non doveva essere legato all'aeroporto di Palermo per il retaggio sulle stragi di mafia.  

"Continuo ad essere convinto che intitolare l'aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino, significa che ci si ricorda della mafia"- ha detto il candidato alla presidenza della Regione in un'intervista televisiva a Sky Tg 24 - L'aeroporto di Palermo lo intitolerei ad Archimede o ad altre figure della scienza, figure positive".

FOGGIA: ARRESTATI 4 CARABINIERI PER OMICIDIO ED ESTORSIONE.


carabinieri

Oggi sono state arrestate sedici persone tra cui spiccano i nomi di quattro carabinieri in servizio a Lucera (FG).
I membri dell'arma svolgevano “funzioni di appoggio” per un gruppo criminale che si occupava di estorsioni ai negozianti. Questo avrebbe anche compiuto un omicidio del componente di una banda rivale.
Le ordinanze sono state emesse dagli agenti del Commissariato di Lucera della Polizia di Stato con l'aiuto dei carabinieri del Comando provinciale di Foggia e quindici persone sono finite in carcere, mentre una soltanto è ai domiciliari.
Gli uomini in manette sono stati accusati di reati vari, tra cui: associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati di concorso in omicidio premeditatoestorsione mediante intimidazioni con colpi d'arma da fuoco, incendio, minacce e favoreggiamento.
Tra gli arrestati si notano esponenti della criminalità locale pugliese già noti come Antonio Cenicola, di 39 anni, Antonio Cenicola di 66, detto “Maurill” e Antonio Ricci, chiamato “il nanetto”, di 35 anni.
Le indagini scattarono dopo l'uccisione di Fabrizio Pignatelli, morto a causa di numerosi colpi di arma da fuoco il 30 agosto 2011 a Lucera, nei pressi del suo circolo privato “Atlantic City”.
Nei giorni scorsi gli investigatori avevano ricondotto questo episodio al gruppo Cenicola-Ricci, il quale, agiva imponendo l'acquisto dei propri prodotti ai commercianti locali, minacciandoli e poi mettendo in atto estorsioni ed incendiando i rispettivi locali commerciali dei “dissidenti”. Le minacce e richieste del gruppo criminale, tendevano anche ad impoverire i titolari dei locali per assumerne poi la gestione o il controllo degli stessi.
Gli inquirenti hanno accertato che, comunque, era in corso anche una scissione in due tronchi del gruppo criminale facente capo alla famiglia Ricci. Nell'ambito di tale scissione si sarebbero contrapposti Antonio Ricci e suo cognato Vincenzo Ricci, il quale si era alleato a Fabrizio Pignatelli e voleva riappropriarsi, dopo venti anni trascorsi in carcere, del mercato lucerino della droga e delle estorsioni.
Investigando sul gruppo, inoltre, è emerso il coinvolgimento di soggetti appartenenti alle forze dell'ordine, i quali sono risultati componenti effettivi dell'associazione criminale di Antonio Ricci. Sono finiti in carcere con l'accusa di estorsione il carabiniere Luigi Glori di 52 anni di Foggia, mentre, con le accuse di associazione per delinquere ed estorsione i carabinieri Michele Falco di 49 anni di Napoli, Giuseppe Sillitti di 46 anni di Caltanissetta e Giovanni Aidone di 48 anni di Vizzini (CT).

TelecomMedia (Marco Travaglio).



Toh, Mediaset vuole comprarsi La7 da Telecom Italia Media. 
Direttamente o tramite una testa di legno. 
Chi l’avrebbe mai detto. 
Alla vigilia della campagna elettorale in cui si gioca tutto come nel ’94, B. vorrebbe neutralizzare la riserva indiana in cui si sono rifugiati gli artisti e i giornalisti cacciati da Mediaset e Rai. 
Ma sarebbe una notizia se no
n volesse farlo: vorrebbe dire che non è più lui. Invece è sempre lui, dunque non c’è notizia. Infatti gli unici a stupirsene sono quelli che lo davano per morto, anzi trovavano comodo darlo per morto. 


Per rimuovere il problema, evitare esami di coscienza e nascondere un fatto imbarazzante: cioè che da nove mesi governano con lui. 


Stiamo parlando del Pd, dell’Udc, dei fan acritici del governo Monti e dei loro house organ. Avete mai sentito le parole “antitrust” e “conflitto d’interessi” nelle bocche capienti di Bersani, Renzi (il suo spin doctor è Giorgio Gori e ci siamo capiti), Casini, ma pure Vendola? Le avete più lette su Corriere, Stampa, Repubblica, Unità? Nominarle significa infrangere un tabù, agitare il drappo rosso dinanzi al Caimano, rinfocolare l’antiberlusconismo (non sia mai), turbare la quiete dei tecnici. E resuscitare vecchi interrogativi che è meglio lasciar sepolti: perché il centrosinistra nel biennio 2006-2008 e il governo tecnico da novembre a oggi non han neppure tentato di riformare la legge Gasparri? Troppo pericoloso, meglio lasciar perdere. 


L’ultimo a parlarne, a parte noi del Fatto e il solito Di Pietro, fu Beppe Grillo nel V-Day del 2008, quando lanciò un referendum (poi bocciato dalla Cassazione) contro la Gasparri: il solito populista antipolitico che fa il gioco della destra. 


Mica come il compagno Violante, che nel 1995 confessò alla Camera di aver “garantito a Berlusconi e Letta che non gli sarebbero state toccate le tv”. 


Ora la questione non è se B. riuscirà a papparsi La7 (ovviamente per spegnere un piccolo ma pericoloso concorrente delle sue reti e soprattutto un focolaio d’infezione, cioè di informazione più libera o meno asservita del lazzaretto Raiset): se non lo farà, sarà solo perché il suo gruppo è alla canna del gas. La questione è che, a norma di legge Gasparri, potrebbe farlo. Lo spiega, sul sito del Fatto , Nicola D’Angelo, già membro Agcom: “In base all’art. 43 della Gasparri, Mediaset può acquistare La7 in quanto il limite antitrust è che nessun soggetto può avere ricavi superiori al 20% del sistema integrato delle comunicazioni (Sic). Nel calderone infinito del Sic, Mediaset detiene circa il 13%” e anche con La7 resterebbe sotto il tetto. Anche perché la pubblicità non è computabile nel Sic. 


Del resto, nel 2007, quando Tronchetti-Provera annunciò di voler vendere Telecom (con La7 in pancia) a una cordata messican-americana, il centrosinistra riattaccò la litania dell’“italianità” da difendere, anche a costo di darla a Mediaset, magari in tandem con l’amico Colaninno. Disse Fassino: “Mediaset è un operatore del settore, quindi può fare un’offerta”. Il Foglio svelò “incoraggiamenti dalemiani” a B. tramite il solito Latorre. Entusiasta, ma che sorpresa, anche Violante: “C’è un Berlusconi imprenditore e un Berlusconi politico: se, come imprenditore, investe le sue risorse in un settore di importanza strategica per il nostro Paese, non ci trovo niente di male”. Il 19 aprile B. accolse l’invito all’ultimo congresso Ds di Firenze e naturalmente parlò d’affari, i suoi: “Mediaset è pronta a entrare in Telecom per difenderne l’italianità… Siamo stati richiesti: il mio è un atto di generosità patriottica”. Poi, siccome era all’opposizione, propose un bel governo di larghe intese. E nessuno osò contestarlo. Poi Telecom finì alla cordata italo-spagnola Intesa- Mediobanca- Telefònica. Ora che Mediaset ci riprova, stupisce soltanto lo stupore dell’Unità, che titola sdegnata “Amici di Berlusconi su La7” e lancia l’allarme per “il pluralismo informativo”. Ma mi faccia il piacere.

Da Il Fatto Quotidiano del 16/09/2012.



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