venerdì 14 agosto 2009

Silvio all news - di Denise Pardo

L'occupazione dei Tg e delle reti Rai. La militarizzazione dei giornali di famiglia. Le minacce al Tg3. La lunga marcia del Cavaliere per blindare l'informazione

Roma, giovedì 6 agosto, San Goderanno (e sarà probabile), ristorante del circuito politico e giornalistico a due passi da Montecitorio. Intorno a un tavolo, esponenti del gran mondo, nuovo, del potere tv: Mario Orfeo, fresco direttore del Tg2, carriera inappuntabile, votato all'unanimità dal cda Rai, stimato da Carfagna, Bocchino e da Lui, il Cavaliere in persona. Seduto al suo fianco, Massimo Liofredi, noto fra i buontemponi Rai come 'Phon man' o 'Bellicapelli' e si può immaginare perché. Da anni capo struttura di RaiUno, da poco assurto al vertice di RaiDue, in quota Forza Italia, l'uomo, per intenderci, a cui dovrà rispondere Michele Santoro, ha al suo attivo una comparsata nell'inchiesta della banda della Magliana: colpa dell'acquisto di una macchina, spiegò lui, intercettato mentre Antonio Nicoletti, figlio del cassiere della nota band, gli segnalava, tanto per cambiare, una bella figliola. Insieme tutti e due ad ascoltare attentamente le parole del terzo uomo. E che uomo! Antonio Verro, consigliere Rai, scelto (c'è bisogno di dirlo?) dai notabili azzurroni. Una colazione tra amici? O un vertice a tre? In altri tempi, l'incontro sarebbe stato considerato a dir poco inopportuno. Non ora, che lo spiegamento mediatico berlusconiano non conosce e non vuole conoscere confini. Né soprattutto ragioni.La fase è nuova. Non nella sostanza, che è ben nota. Ma nella potenza. Nella forma. Nella avidità esibita nelle minacce persino al Tg3. Da viale Mazzini a Cologno Monzese, dal laghetto di Segrate (Mondadori) a via Negri (sede del 'Giornale'), a via Asiago (storico indirizzo della radio pubblica) sull'impero dell'informazione nell'orbita berlusconiana non dovrà tramontare mai il sole. Tanto, united colors of Berlusconi, lato media, gran parte del dado è tratto e con le nuove province di tg, gr e delle direzioni della carta stampata, la marcia trionfale del Cavaliere va avanti alla grande. Lui, d'altra parte, non ha tempo da perdere.
L'autunno è alle porte. E il patriarca avrà bisogno di una primavera nei media. Lo aspettano mesi duri. Il lodo Alfano. Le trame degli alleati. Le questione etiche, eretiche, erotiche. Le elezioni amministrative del 2010. E sullo sfondo, la battaglia delle battaglie, il sogno dei sogni, il Colle dei colli. Impossibile affrontare tutto questo senza una gioiosa macchina da guerra mediatica in cui seggiole e poltrone non siano state approvate, se non scelte, da lui in persona. Così ha voluto. Così è stato.Prima, l'addio da Canale 5 dello scomodo grillo parlante Enrico Mentana. Dopo, il contratto per la conduzione di 'Matrix' ad Alessio Vinci che, nuovo dell'ambiente, e non autorevole come il fondatore del Tg5, è sotto continuo tentativo di mediasettizzazione ("Una puntata su Vito Ciancimino? Fantastico: aspettiamo, però, che vada in onda la fiction sulla mafia", gestiscono i capi dei palinsesti e del marketing). Poi Augusto Minzolini, il giornalista del cuore, l'ombra del Cavaliere piazzato alfine a firmare il Tg1, il più importante d'Italia. Circondato anche da un cordoncino sanitario di neo nominati: i vice direttori Susanna Petruni, giornalista assennata che rispose di preferire una serata con il Cavaliere a una con un George Clooney qualunque, e Gennaro Sangiuliano, culo di pietra e cervello fino, lobby Gianfranco Fini. Al Tg2, ecco salire la stella di Mario Orfeo, figura non organica, molto apprezzata nei raid napoletani dal premier, poi scritturata fra i direttori 'Door to door' , quelli delle poltrone bianche di Bruno Vespa, quando l'ospite è Berlusconi. Risultato: vari piccioni con varie fave, visto che al posto di Orfeo alla direzione del 'Mattino' del pluto-editore Franco Caltagirone, è stato nominato il vice, Virman Cusenza, professionista a modo, quasi di casa berlusconiana, cresciuto al 'Giornale' dove ha lavorato più di dieci anni prima di passare al 'Messaggero'.Così Napoli, i suoi guai e le future elezioni: tutto sistemato. Come l'altro obiettivo per la campagna d'autunno. Il fausto ritorno di Vittorio Feltri alla direzione del 'Giornale' (con tanto di entourage ex 'Libero': l'alter ego ed ex direttore responsabile Alessandro Sallusti, l'ex direttore generale Gianni Di Giore, forse Renato Farina e anche la santa firma Antonio Socci) con il compito di farne un quotidiano da bombardamento con licenza per artiglieria pesante e armi nucleari, pronto a piazzare quattro fotografi sotto casa di Antonio Di Pietro e capace di contrastare gli attacchi della stampa nemica. E anche di affiancare la fronda amica ma scapigliata, a volte poco pop del 'Foglio' di Giuliano Ferrara. Dopo aver disdegnato a lungo la carta stampata ("In Italia i giornali vengono letti con attenzione solo da 5 mila persona", era il refrain che faceva uscire pazzo Gianni Letta), ora il premier sembra rendersi improvvisamente conto che, per esempio, le cancellerie internazionali non accendono il Tg5 del caro fedele Clemente J. Mimun o il Tg4 dell'ancor più caro e fedelissimo Emilio Fede per farsi un opinione. Ma traducono, invece, i giornali.


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/silvio-all-news/2106854/8

Antimafia omeopatica. - Marco Travaglio

Meno male che c’è Roberto Formigoni, testè nominato «governatore della Lombardia a vita» dall’amico Silvio. Senza di lui, nessuno avrebbe potuto sospettare che le mafie stessero tentando di mettere le mani sui 15 miliardi di euro che stanno per piovere su Milano per la baracconata di Expo 2015. Invece, vigile come una talpa in letargo, il pio governatore ha ricevuto «segnali da più parti di tentativi molto preoccupanti di infiltrazioni mafiose nei cantieri».
Probabilmente, scartando il pesce, dev’essergli capitato un foglio di giornale con uno delle migliaia di articoli usciti negli ultimi due-tre anni sugli allarmi lanciati da magistrati, analisti, forze dell’ordine. Così, vivamente «preoccupato», ha varato in men che non si dica un «Comitato per la legalità» per la «prevenzione al crimine organizzato». Sfumate le candidature dell’eroico Vittorio Mangano, prematuramente mancato all’affetto dei suoi cari, e di Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, molto devoti anche loro, si è optato alla fine per due ex giudici di chiara fama, Giuseppe Grechi e Salvatore Boemi. Per non lasciarli soli, i due saranno affiancati da due carabinieri provenienti dal Ros e dal Sisde: il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno.

In qualità, si presume, di esperti in materia: si tratta infatti degli stessi Mori e De Donno che nel 1992, subito dopo Capaci e poi anche dopo via d’Amelio, avviarono una trattativa con Vito Ciancimino e i capi di Cosa Nostra, Riina e Provenzano, che avevano appena assassinato Falcone, Borsellino e gli uomini delle scorte: la trattativa del «papello», consegnato da Riina a Ciancimino e da questo a Mori, almeno secondo le ultime rivelazioni del figlio del sindaco mafioso di Palermo. Mori, poi, è stato imputato per la mancata perquisizione del covo di Riina nel gennaio ’93 (assoluzione, ma con pesanti addebiti sul piano disciplinare) e lo è tuttora per favoreggiamento aggravato alla mafia con l’accusa di non aver arrestato Provenzano già nel 1995, quando l’ex mafioso Luigi Ilardo ne segnalò la presenza in un casolare di Mezzojuso al colonnello Michele Riccio.
Ora Mori aiuterà Formigoni a «monitorare, vigilare, studiare le procedure di controllo sugli appalti e dare consulenza alle imprese» perché stiano alla larga dalla mafia. Noi ovviamente non crediamo a una sola delle accuse che pendono sul suo capo, certamente frutto di «teoremi giudiziari» e «giustizia spettacolo», come direbbero Berlusconi e Vendola. Ma una domanda a Formigoni vorremmo porla lo stesso: non le pare che l’uomo che dimenticò di perquisire il covo di Riina, che si scordò di denunciare alla magistratura le richieste estorsive della mafia allo Stato nel famigerato papello, che pensò di combattere la mafia delle stragi trattando con chi le aveva appena realizzate e che è accusato di essersi lasciato sfuggire Provenzano, come sentinella antimafia sia un po’ sbadato?


http://www.unita.it/news/ora_d_aria/87241/antimafia_omeopatica

martedì 11 agosto 2009

Le stragi di Cosa nostra.

Da Riina a Capaci: ecco perché si riaprono le indagini sugli attentati.

FRANCESCO LA LICATA

PALERMOCi sono parole della cronaca che entrano nell’immaginario, evocano fatti e situazioni come icone immaginifiche. Eppure non sempre chi osserva o legge dall’esterno riesce a comprenderne il senso esatto. Un piccolo dizionario forse può aiutare.

A Addaura. Luogo di villeggiatura marina dei palermitani. In una delle ville della costa trascorreva l’estate Giovanni Falcone e la moglie, Francesca. Il 21 giugno del 1989 gli agenti della scorta trovarono sugli scogli una borsa da sub con 75 candelotti di dinamite innescati. L’attentato fu sventato, ma Falcone ne denunciò immediatamente l’anomalia parlando di «menti raffinatissime» che stavano dietro quella bomba. Per la prima volta si intuisce, in una grande affaire di mafia, la presenza di soggetti esterni a Cosa nostra che si servono dei boss come di una sorta di «service» adatto ai «lavori sporchi». Il processo sull’attentato fallito si concluderà in un nulla di fatto, tranne una condanna nei confronti di un sottufficiale del Sismi che - sbagliando - aveva fatto brillare il detonatore della bomba distruggendo così un importante reperto per le indagini. Infortunio o premeditazione?

B Boccassini Ilda. Magistrato a Milano, nel ‘92 - davanti allo scempio compiuto su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, suoi grandi amici - chiese e ottenne l’applicazione alla Procura di Caltanissetta, titolare delle indagini su Capaci e via D’Amelio. Dopo due anni di lavoro lasciò l’incarico con qualche frizione originata da divergenza di vedute con alcuni dei colleghi-investigatori. Esistono agli atti due relazioni scritte, nel 1994, da Ilda Boccassini che testimoniano una certa diffidenza del magistrato nei confronti di alcuni pentiti. I dubbi principali riguardavano le rivelazioni dei collaboratori Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. I non idilliaci rapporti della Boccassini coi colleghi sono evidenti nella relazione al procuratore Tinebra e all’aggiunto Giordano del 10 ottobre. Ilda Boccassini dopo avere appreso che sarà «il collega Tescaroli a sostenere l’accusa in dibattimento», dichiara di aver offerto la propria disponibilità a «fornire al più giovane collega ogni assistenza nello studio degli atti». Ma «il collega Tescaroli non ha però ritenuto di dover attingere alla mia conoscenza degli atti». E, quindi, la stoccata sul pentito che non le piace: «...non sono stata interpellata sugli indirizzi investigativi da seguire in conseguenza delle sorprendenti dichiarazioni recentemente rese da Scarantino Vincenzo - ufficialmente assunte a verbale nei primi giorni dello scorso settembre - né sono stata avvisata del compimento di atti istruttori di decisiva importanza». Più avanti, sempre su Scarantino, giudicherà «le suddette dichiarazioni, scarsamente credibili sulla base di argomenti logici». Argomenti, questi, tornati all’attualità con le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, uomo di punta dei fratelli Graviano, capi del mandamento di Brancaccio.

C Ciancimino Massimo. Figlio di don Vito, ex sindaco di Palermo condannato per mafia (morto nel 2002) e in rapporti assidui con Bernardo Provenzano, sembra diventato un teste importate perché detentore del «patrimonio conoscitivo» lasciatogli dal padre. Si trova nella singolare posizione di condannato (riciclaggio in primo grado) e personaggio «socialmente pericoloso», ma contemporaneamente teste protetto per il contributo delle sue rivelazioni sulla «trattativa» fra Stato e mafia condotta dal padre nel ‘92, sulla costante presenza dei servizi segreti nelle vicende stragiste di Cosa nostra.Massimo Ciancimino oggi viene interrogato da quattro Procure. Attualmente, seppure guardato ancora con diffidenza da più di un magistrato, è stato messo sotto protezione e gli è stato «sconsigliato» di soffermarsi a lungo a Palermo. Il «valore aggiunto» del nuovo teste è il famigerato «papello»: la lista di richieste che Totò Riina fece avere allo Stato - attraverso Vito Ciancimino - per offrire, in cambio, la fine delle stragi.

D Dia, Direzione investigativa antimafia. E’ lo strumento investigativo (insieme con la Superprocura) che Falcone e Gianni De Gennaro crearono all’inizio dei Novanta per far fronte all’attacco mafioso. E’ stato l’organismo che si è occupato dell’analisi sui fatti siciliani più cruenti, quelli che hanno caratterizzato il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Quando la spinta stragista mafiosa si spinse, nel ’93, ad attaccare Roma, Milano e Firenze con gli attentati del 14, 27 maggio e 27 luglio, proprio la Dia fornì l’analisi più «politica» di quella scelta di Cosa nostra, rintuzzando i tentativi di altri apparati della sicurezza che collocavano il movente delle stragi nel terrorismo internazionale (allora inesistente). «E’ mafia - scrisse la Dia in una relazione del 10 agosto 1993 - ma anche altro». Quegli investigatori facevano partire la strategia dall’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima. Strategia che proseguiva con l’assassinio di Ignazio Salvo, uno dei cugini esattori (l’altro, Nino, era scomparso per cause naturali), per sfociare a Capaci, via D’Amelio e poi a Roma, Firenze e Milano. Uno scenario, secondo la Dia, tale da far ipotizzare la volontà criminale di conseguire «obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa». E ancora: «..si riconosce una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali». Quindi il commento: «Gli esempi di organismi nati da commistioni tra mafia, eversione di destra, finanzieri d’assalto, funzionari dello Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti non mancano». Una vera predizione, a giudicare da quanto sta emergendo.

E Esplosivi. La materia prima della strategia «corleonese». Una strategia indotta, sembra dai recenti sviluppi investigativi, per trasformare la «normale violenza mafiosa» in una forma di terrorismo politico teso a condizionare le Istituzioni.

F Falcone Giovanni. Vittima, insieme con la moglie e con la scorta, dell’attentato di Capaci del 23 maggio 1992. Quella strage oggi viene considerata una delle tappe della guerra dichiarata da Cosa nostra: una vendetta della mafia, certo, ma anche una mossa preventiva per sgomberare il campo dall’ostacolo principale in vista di un cambio politico-finanziario alla guida del Paese. Una strage che colpirà duramente l’immaginario collettivo e persino una mente fredda come quella di Vito Ciancimino che allora comincerà la sua collaborazione coi carabinieri del Ros.

G Gaspare Spatuzza. Uomo d’onore del mandamento di Brancaccio. Tentò di collaborare subito dopo il suo arresto ma dovette rinunciare per l’avversione dei familiari. E’ tornato a parlare nel giugno del 2008. In un colloquio col Procuratore nazionale, Piero Grasso, ha fornito una versione della strage di via D’Amelio che stravolge la verità processuale già codificata in sentenze passate in giudicato. In sostanza afferma di essere stato l’organizzatore del furto della Fiat 126 servita come autobomba. Una versione che smentisce la confessione dei pentiti Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura, autoaccusatisi del furto. Gli accertamenti condotti dalla Procura di Caltanissetta hanno dato ragione a Spatuzza, aprendo uno scenario completamente nuovo.Trattato con molto sospetto all’inizio, oggi Spatuzza è nella lista dei pentiti credibili ed è entrato nel programma di protezione dei collaboratori di giustizia. Lo scenario che ha aperto non è di facile gestione. Le indagini hanno appena introdotto il tema delle presunte pressioni della polizia per indurre Scarantino e Candura e dichiarare il falso. I magistrati dovranno stabilire perché tanta menzogna non per discolparsi ma per accollarsi la responsabilità di una strage mai commessa. Misteri.

I Ilardo Gigino. Era un mafioso che il colonnello dei carabinieri Michele Riccio aveva infiltrato dentro la cupola di Cosa nostra. Fu ucciso prima che potesse assumere lo status ufficiale di pentito (e quindi prima che le sue dichiarazioni assumessero altro valore processuale). Raccontò agli investigatori una lunga storia di connivenze tra mafia e politica, anche in direzione della spiegazione delle stragi del ‘92 e del ‘93.

L Lima Salvo. Ex sindaco Dc di Palermo. Poi eurodeputato, fu ucciso nel marzo del 1991. Secondo molti collaboratori Totò Riina decise la sua soppressione perché non aveva saputo mantenere la promessa di «neutralizzare» il maxiprocesso di Giovanni Falcone. Con l’omicidio Lima si è aperta la campagna politica di Cosa nostra e dei suoi amici «esterni».

M Mostro. E’ un agente segreto affetto da una grave malformazione al viso. E’ stato collocato da diverse fonti (anche Massimo Ciancimino e Gigino Ilardo) sulla scena di svariati crimini: all’Addaura durante l’operazione contro Falcone, accanto ad un altro «agente» molto intimo di don Vito Ciancimino e presente durante l’agguato che uccise l’agente Agostino e la giovane moglie incinta. Il mostro, raccontò Ilardo, aveva avuto un ruolo anche in occasione dell’omicidio di Claudio Domino, un bambino ucciso come un boss da un killer. Per smentire il convogliamento della mafia, per la prima volta un boss, per l’occasione Giovanni Bontade, lesse un comunicato dalla gabbia del maxiprocesso.

P Papello. Per i palermitani è la pergamena che viene imposta, dietro pagamento di una «tassa», alle «matricole» universitarie. Da qualche tempo, però, il papello è diventata una sorta di «parola chiave» che introduce ai misteri delle stragi siciliane e non. Il termine è stato inventato dal pentito Giovanni Brusca: «Riina presentò il papello allo Stato». La sua esistenza è stata negata dal prefetto Mario Mori (uno dei protagonisti della cosiddetta «trattativa») e oggi viene confermata da Massimo Ciancimino che sostiene di averne copia ben custodita all’estero. Il pezzo di carta sarebbe stato recapitato a Vito Ciancimino e conteneva le richieste che la mafia inoltrava «per far cessare le bombe». Dice Massimo Ciancimino di aver visto coi propri occhi il papello, «girato» dal padre al «signor Franco», un altro agente segreto molto intimo con la famiglia dell’ex sindaco. Il papello però non è ancora nelle mani dei magistrati perché Massimo Ciancimino non lo ha consegnato. Lo usa sapientemente come «carta vincente» (nella partita che sta giocando coi giudici per trattare qualche beneficio processuale), ma non lo caccia fuori. Sembra sia custodito in una cassaforte del Liechtenstein, da dove è difficile recuperarlo perché la procedura prevede la presenza contemporanea di Massimo e di un altro familiare che non può spostarsi. Il ricorso alla delega non sembra sufficiente, sarebbe necessaria una procura speciale che Ciancimino, a quanto pare, non riesce (o non vuole) chiedere. Insomma il papello è bloccato. Altre carte, invece, il teste protetto Ciancimino le ha consegnate: una intimidazione a Silvio Berlusconi, firmata Bernardo Provenzano, altre due lettere e un assegno, che col premier hanno a che fare. Tra i «reperti» sequestrati a Massimo Ciancimino nel 2005, c’era anche una carta Sim col numero di telefono del «signor Franco» il cui vero nome non è stato rivelato. Ciancimino sostiene di non conoscerlo, ma attraverso la carta Sim si potrebbe identificarlo. Solo che la traccia elettronica sembrava si fosse persa nella confusione dei corpi di reato. Solo qualche giorno fa i carabinieri l’avrebbero ritrovata nei propri archivi. Resta da verificare se è possibile che un agente, segreto per quanto possa essere, abbia avuto contatti per più di vent’anni coi Ciancimino, fornendogli documenti, notizie, passaporti, protezione e persino brillanti da fare avere a Totò Riina, senza rivelare la propria identità.

R Riina. Don Totò il padrino stragista. E’ diventato improvvisamente loquace, anche coi giornali. Le notizie sulle «presenze esterne» a Capaci e in via D’Amelio sono manna dal cielo per lui, che, sorretto da una buona strategia difensiva del suo legale, tenta di scaricare tutto sullo Stato. «Borsellino l’hanno ucciso loro», dice il boss attraverso l’avv. Luca Cianferoni. Nega, poi, ogni trattativa con lo Stato per affermare di essere stato lui oggetto di un accordo che ha portato alla sua cattura. Perché parla? Parla senza rispondere a nessuna domanda, tanto che si dice disponibile addirittura a firmare un memoriale. Tutto pur di non sedersi davanti a un giudice che possa cominciare: «A domanda risponde...».S Scarantino Vincenzo. Si è accusato della strage di via D’Amelio ed ha fornito una sua verità confermata dalla Cassazione. Verità che oggi sembra andare in frantumi. Non è mai stato un gran collaboratore, Scarantino. Durante il dibattimento ha ritrattato una prima volta, poi è tornato in aula a ritrattare la ritrattazione. Insomma, anche se ha retto per anni, non sembra un buon teste d’accusa.

T Trattoria. «La Carbonara» a Campo de’ fiori. Lì Falcone cenava spesso e lì i killer venuti da Palermo nel febbraio ‘92 avrebbero dovuto ucciderlo. Ma la squadra sbagliò «ricetta» ed andò a cercarlo al «Matriciano», in Prati. Ovviamente non lo trovarono, poi Riina li richiamò perché aveva deciso per la strage.

U Utveggio. Il castello in cima al Monte Pellegrino di Palermo. Lì è possibile sia stata pianificata la strage di via D’Amelio. Accertata la presenza di un ufficio di copertura del Sisde, dentro la sede del Cerisdi. «Guardate all’Utveggio», dice ora Riina.

V Via D’amelio. Strage Borsellino: quelle indagini rappresentano la crepa, uno squarcio al velo sulla commistione tra potere mafioso e politico-finanziario che ha prodotto lo stragismo degli anni novanta. La scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino, la presenza dei servizi segreti sulla scena degli attentati, le rivelazioni di Ciancimino, la trattativa e il coinvolgimento di uomini delle istituzioni (Mori, l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino, l’allora presidente dell’Antimafia Luciano Violante che oggi ammette di essere stato contattato da Mori per conto di Ciancimino): forse non tutta la verità verrà fuori, ma che qualcosa di strano sia avvenuto sembra certo.

Z Zio. E’ uno dei nomignoli riservati a Bernardo Provenzano. Un altro è «signor Lo Verde», il nome con cui, da latitante, andava a trovare a casa l’ex sindaco, in via Sciuti a Palermo. Provenzano è un perno della trattativa del ‘93 che, tuttavia, non è la sola intrattenuta con lo Stato. Più interessante del papello, infatti, ci sarebbe il «contatto originario» che in qualche modo indusse Riina ad imbarcarsi nella strategia stragista. Racconta Spatuzza che Falcone doveva essere ucciso a revolverate in un ristorante di Roma e che, improvvisamente, arrivò il contrordine: si fa a Palermo e si fa con le bombe. Perché? Forse per trasformare l’omicidio di un giudice nell’inizio di una campagna di intimidazione nazionale e politica?

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200908articoli/46255girata.asp

Un politico Strano (Nino) - di Alessio Gervasi.

10 agosto 2009
"Sei un cesso corroso! Sei un frocio mafioso! Sei una merda! Sei una checca squallida!”


Queste gentili parole sono state pronunciate il 24 gennaio 2008 a Palazzo Madama dall’allora senatore della Repubblica Nino Strano, che ce l’aveva col suo (si fa per dire) collega, il senatore dell’Udeur Stefano Cusumano, reo di aver votato la fiducia al Governo Prodi. Governo Prodi che non ce la fece comunque e, quello stesso giorno, cadde. Allora il nostro Strano festeggiò a spumante e mortadella (una “sottile” allusione a Romano Prodi) che trangugiava avidamente spingendola colle mani fin dentro la bocca spalancata per la diretta televisiva. Dopo queste eroiche gesta però si spensero i riflettori sul catanese Nino Strano, ormai orfano di An e triplicemente trombato, a cominciare proprio dalla caduta di Prodi, poi alle politiche del 2008 e infine alle europee dello scorso giugno, in entrambi i casi candidato del cosiddetto Popolo delle Libertà. Si ricordò di lui, invece, la Giustizia. E nel maggio dello scorso anno l’ex senatore Strano fu condannato in primo grado a due anni e due mesi di reclusione insieme all’allora sindaco di Catania Scapagnini (il medico–guru amico del premier) e altri 5 assessori della giunta: abuso d’ufficio e violazione della legge elettorale per i contributi previdenziali concessi – guarda caso tre giorni prima delle elezioni comunali del 2005 – dal Comune di Catania ai dipendenti per i danni causati dalla cenere dell’eruzione dell’Etna nel 2002. Insomma Strano ha un curriculum che non lascia indifferenti. Se n’è subito ricordato il Presidente della Regione Siciliana Raffaele Lombardo – nelle scorse settimane alle prese con pasti e rimpasti della sua Giunta ballerina e perciò alla ricerca di tipi tosti – che si dev’esser rivisto su You Tube il filmato che mostra Strano in tutta la sua natura (e che il Nostro non è riuscito, finora, a far rimuovere minacciando You Tube e scrivendo una lettera di fuoco ma dall’italiano un po’ incerto all’autrice del Post) prima di chiamarlo nella sua nuova compagine di governo e dandogli naturalmente la delega al Turismo: chissà, almeno saprà come promuovere i prodotti tipici dell’Isola, il salame di Sant’Angelo di Brolo, il cacio ragusano e via – avrà pensato Lombardo. Ma Strano però, forse per il colesterolo alto, ha abbandonato i salumi per una nuova e più conveniente passione: le coste siciliane. Ché ce n’è ancora qualche tratto sperduto scampato alla solita colata di cemento dell’invincibile lobby dei palazzinari sempre pronti a elargir danari. Così Strano ma vero ecco la sua crociata già divampata: “Voglio incontrare i sindacalisti e le associazioni ambientaliste per ridiscutere l’attuale divieto a costruire entro i 150 metri dalla costa(…) Bisogna capire quali siano le ragioni del vincolo, senza escludere la possibilità di variare questo parametro.” – ha dichiarato qualche giorno fa. Ché dà fastidio il divieto (anche se abbondantemente ignorato) di costruire entro i 150 metri (prima erano 300) dalla costa e bisogna arrivare a una modifica della norma grazie alla quale “sarà possibile ridurre ulteriormente la distanza dal mare, se sarà ritenuto opportuno o, al contrario, a seconda dei casi, aumentarla – chiosa Strano – ma costruire non è sempre negativo, pensiamo al Colosseo” (…).

Strano. Ma vero

http://antefatto.ilcannocchiale.it/

venerdì 7 agosto 2009

l'8 per mille alla chiesa.

Conosciamo tutti l’otto per mille, è il meccanismo con cui lo Stato italiano ripartisce in base alle scelte dei contribuenti l’8‰ dell’intero gettito fiscale IRPEF fra lo Stato e diverse confessioni religiose, per scopi definiti dalla legge.

Come viene assegnato il denaro alle organizzazioni religiose?

Il meccanismo appare trasparente (almeno nella pubblicità alla tv): ogni italiano sceglie se destinare l’8‰ delle sue tasse a sette beneficiari: lo Stato, la Chiesa Cattolica, gli Avventisti, le Assemblee di Dio, i Valdesi, i Luterani, gli Ebrei.
Il problema arriva quando si sceglie di non devolvere questo denaro alle organizzazioni religiose.

Utilizzando i dati relativi ai redditi dell’anno 2000, dichiarati nel 2001.

Importo complessivo dell’8 per mille: € 897.077.477
Contribuenti che hanno espresso la scelta: 39,62%
Contribuenti che non hanno espresso la scelta: 60,38%
Gettito IRPEF corrispondente alle scelte espresse: € 355.422.084
Gettito IRPEF corrispondente alle scelte non espresse: € 541.655.363

L’importo che non dovrebbe beneficiare nessuno, quindi nel 2000 l’importo di 541 milioni di € circa, è stato ridistribuito tra i sette beneficiari in base al calcolo illustrato qui:

Beneficiario % relativa al 39,62% % sul totale
Chiesa Cattolica 87,25% 34,57%
Stato 10,28% 4,08%
Valdesi 1,27% 0,51%
Comunità Ebraiche 0,42% 0,16%
Luterani 0,31% 0,12%
Avventisti 0,27% 0,10%
Assemblee di Dio 0,20% 0,08%
TOTALE 100,00% 39,62%

Quindi si calcola una ulteriore “percentuale sulla percentuale” (democraticamente sbagliata) e si ripartisce la quota dell’8 per mille non optato (541 milioni €) tra i sette beneficiari: alla Chiesa Cattolica, quindi, andrà l’87,25% di quell’importo, allo Stato il 10,28%, e così via.

Dal 17 Giugno anche i Valdesi e metodisti accederanno (fra tre anni) alla ripartizione dei fondi otto per mille non destinati espressamente, in proporzione alle firme espresse.

Ecco che si arriva ad ottenere i dati dei ricavi totali:

Beneficiario ------- Fondi da scelte espresse ---- Fondi da scelte non espresse
Chiesa Cattolica ----------- 310.105.768 ------------ 472.594.304
Stato ------------- 36.537.390 --------------- 63.644.505
Valdesi ----------- 4.513.860 ----------------------- 0
Comunità Ebraiche ----------- 1.492.773 -------------------- 2.274.953
Luterani ---------------- 1.101.808 ----------------- 1.679.132
Avventisti ------------------ 959.640 ------------------ 1.462.469
Assemblee di Dio ----------------- 710.844 ------------------- 0
TOTALE --------------------- 355.422.084 ----------------- 541.655.363

Quindi circa l’85% della quota di otto per mille sarà comunque destinata alla Chiesa Cattolica.

Funziona così anche all’estero?

In Spagna per esempio le quote non espresse nel «cinque per mille» restano allo Stato.

In Germania lo Stato si limita a organizzare la raccolta dei cittadini che possono scegliere di versare l’ 8 o 9 per cento del reddito alla Chiesa cattolica o luterana o ad altri culti.

Il principio dell’ assoluta volontarietà è la regola nel resto d’ Europa.

Come viene usato il denaro dalla Chiesa Cattolica?

Che la Chiesa cattolica usi i fondi dell’otto per mille soprattutto per la carità in Italia e nel terzo mondo, è una cosa certa e meritevole.

Quanto però l’informazione fa trasparenza sui dati reali? E’ esatto che uno spot in TV sull’otto per mille alla Chiesta Cattolica faccia intendere che questa quota servirà soprattutto per carità e terzo mondo?

Spot - 8 x 1000 alla Chiesa Cattolica

Il giornale Avvenire ha pubblicato un resoconto che spiega come i fondi per la carità costituiscono nella realtà il 20% della spesa reale, mentre l’80% rimane alla Chiesa cattolica.

All’indirizzo internet della CEI, infatti, è possibile consultare il rendiconto di spesa dei fondi assegnati alla Chiesa con l’otto per mille:

Nell’anno 2005, ad esempio, abbiamo i seguenti dati:

Sacerdoti € 315.000.000
Culto e pastorale € 271.000.000
Edilizia di culto € 130.000.000
Carità € 115.000.000
Terzo mondo € 80.000.000
Beni culturali € 70.000.000
Fondo di riserva € 3.000.000
Totale dei fondi assegnati € 984.000.000

Quanto è la proporzione finale fra stato e chiesa?

Attualmente è molto difficile trovare un rapporto esatto per capire i legami finanziari fra stato e chiesa. Però dai dati scritti prima possiamo arrivare a calcolare che il 33% circa dei fondi è stato speso per attività che corrispondono agli appelli mediatici sui quali la Chiesa Cattolica ha investito.

Video - Otto per mille, una scelta informata

Quindi per ogni dieci euro di IRPEF che si decide di “donare” alla Chiesa Cattolica, solo tre vengono destinati alle finalità che hanno spinto un “donatore” a fare questa scelta. Ma per far tornare i conti bisogna aggiungere che il 60% di quei soldi, vengono da gente che non sembra affatto essere al corrente del quadro completo. Arrivato fin qui, l’ultimo calcolo matematico, cioè togliere il 60% da 3€, lo lascio fare a voi.

Fonti: Wikipedia, CEI, Curzio Maltese, UAAR, Metilparaben, ottopermillevaldese

Il re e' nudo. - di Luigi De Magistris.



Quello che sembra emergere dal blog di Paolo Guzzanti è ‘patrimonio’ conosciuto nel mondo politico e dell’informazione, pur essendo stato archiviato in modo frettoloso nelle sedi istituzionali competenti. C’è da sperare che la magistratura, la quale si riconosce nella Costituzione, in particolare nell’articolo 3 (uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge) e 112 (obbligatorietà dell'azione penale), accerti gli aspetti penali della vicenda. Ci troviamo infatti di fronte a nuove tecniche di corruzione e mercimonio delle pubbliche funzioni che avrebbero come protagonista il presidente del Consiglio e alcuni membri del suo Governo. Comportamenti sanzionati dal codice penale: si veda l’articolo 319 che riguarda incarichi politici ed istituzionali in cambio di utilità varie.Una vicenda che potrebbe dunque avere un profilo giudiziario oltre che politico-morale. Se il primo lo lasciamo alla magistratura, il secondo invece ci riguarda tutti come cittadini di questo Paese. Oggi leggendo i giornali esteri c’è infatti da rabbrividire per l’italica immagine che si va diffondendo oltr’Alpe. Se i media inglesi, in pieno stile british, attaccano l’Italia con un misto di repulsione e sarcasmo, quelli francesi mettono da parte ogni tono ironico per lasciare spazio solo alla condanna. Una delegittimazione che ovviamente non riguarda esclusivamente il presidente del Consiglio e la sua corte, ma l’intera nazione.Perché gli italiani accettano di essere governati da un potere molto più simile all’impero romano in decadenza che ad una moderna democrazia?Questa è la domanda che circola oltre confine e che dovrebbe trovare risposta qui da noi. Il punto doloroso è che se il re è nudo, anche il suo popolo non è vestito troppo. La (in)cultura berlusconiana, con il potente mezzo della televisione commerciale, ha creato una rivoluzione antropologica nella società italiana, alterandone i geni. Il sovrano in fondo rispecchia la sua base. E la rispecchia perché ha contribuito a plasmarla: come nei regimi totalitari, con il sogno dell’homo novus, anche Berlusconi in questi anni ha imposto un modello antropologico. E lo ha imposto a tutti. Le ragazze e le donne possono guardare alla bellezza del corpo come apripista di ogni strada (governo e politica compresi), mentre agli uomini il modello offerto è lui stesso: l’imprenditore di successo senza scrupoli che conquista la guida del Paese e che è al di sopra della legge e dell’etica pubblica.Eppure in questa triste decadenza di un’intera nazione, continua ad esistere un anticorpo capace di neutralizzare la ‘malattia’ berlusconiana. E’ rappresentato dalla parte sana del Paese, quella società civile che affolla blog e social network per parlarsi, che fa resistenza pacifica leggendo e informandosi, che punta l’indice contro le mafie perché fedele ad un’idea di legalità e di giustizia, che sa provare il senso della solidarietà verso i migranti, che vede il potere come strumento e non come fine della politica , che crede nei partiti e nei movimenti come spazi di partecipazione. A questa società civile, che non esaurisce se stessa dentro la cabina elettorale, è affidato il sogno di una ricostruzione, prima ancora che politica sicuramente etica.Il re è nudo, ma il popolo no.

mercoledì 5 agosto 2009

L'agenda rossa e la sentenza di Pilato - di Anna Petrozzi.



di Anna Petrozzi - 4 agosto 2009Quattro paginette a conferma di un copione che appariva già scritto. Con poche spiegazioni, di carattere strettamente tecnico, lo scorso 17 febbraio, la Corte di Cassazione presieduta dal dottor Giovanni de Roberto ha respinto il ricorso presentato dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta contro la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Giovanni Arcangioli. L’ufficiale dei carabinieri era stato accusato di furto pluriaggravato nell’ambito delle indagini sull’agenda rossa di Paolo Borsellino, sparita misteriosamente appena pochi istanti dopo la deflagrazione di Via D’Amelio.Per anni, nonostante la denuncia dei familiari, non si era riusciti ad individuare come e dove potesse essere stata sottratta quella preziosa agenda nella quale il giudice Borsellino annotava in gran riservatezza le sue intuizioni investigative, i suoi pensieri e forse anche quanto avrebbe voluto riferire all’autorità giudiziaria che investigava sulla morte di Falcone come lui stesso ebbe modo di rivelare pubblicamente durante il suo ultimo discorso pubblico alla biblioteca comunale di Palermo. Ma non fece in tempo. Il magistrato era a conoscenza di delicati segreti, forse aveva capito chi e perché avrebbe ricavato vantaggio dalla morte del suo fraterno amico e dalla sua che sapeva imminente. Forse perché aveva parlato con la persona sbagliata che l’aveva tradito, forse perché i suoi nemici erano troppi e dappertutto. Sta di fatto che qualcuno sapeva dell’agenda, sapeva quale rischio potesse comportarne il ritrovamento e si premurò di prevenire il danno.Per questo era fondamentale aprire un dibattimento che accertasse con precisione cosa accadde esattamente in quel maledetto pomeriggio del 19 luglio 1992. Occorreva che Arcangioli, ripreso con molta chiarezza dalle telecamere mentre si allontana con in mano la valigetta del giudice, chiarisse dove stava andando, dicesse quando aveva preso la borsa e venisse messo a confronto pubblico con gli altri testimoni che hanno invece smentito le sue dichiarazioni.La Suprema Corte ha voluto accogliere con pienezza le già sufficientemente assurde ricostruzioni avanzate del Gip che si spingono a mettere in dubbio l’esistenza dell’agenda rossa perché nessuno dei testimoni, arrivati dopo che Arcangioli era entrato in possesso della borsa del giudice, dice di averla vista. Così facendo ha ignorato ancora una volta le testimonianze dirette dei familiari del giudice, la moglie e due dei tre figli, che si sono dichiarati certi che il congiunto l’avesse portata con se.Insomma piuttosto che muoversi per cercare di scoprire la verità su un documento fondamentale per comprendere almeno una parte dei moventi che possono aver condotto all’omicidio brutale di cinque fedeli e coraggiosi servitori dello Stato e dell’uomo simbolo di integrità e credibilità delle Istituzioni si ha la netta sensazione che si vogliano confondere le carte in tavola. Di recente il pentito Angelo Fontana, visionando alcune immagini filmate, ha dichiarato di aver riconosciuto tra le lamiere accartocciate uomini dei servizi che erano abitualmente in contatto con Cosa Nostra. La sue parole così come quelle di Spatuzza hanno aperto nuovi scenari sulla strage di via D’Amelio. Forse ce lo dirà lui cosa ci faceva Arcangioli con la borsa del giudice, magari sa anche chi da quella valigetta ha sottratto l’agenda rossa.


4 agosto 2009