venerdì 23 aprile 2010

Milano: 'Appalti truccati alle case popolari' - Davide Milosa


23 aprile 2010

Sos racket presenta un esposto contro i vertici dell'Aler: "Tangenti ai dirigenti e gare manipolate per favorire gli amici di un consigliere comunale". L'azienda regionale smentisce e minaccia denuncie. Fibrillazione a palazzo Marino.

Tangenti alle case popolari. Meglio, mazzette del 5% su ogni appalto vinto. Denaro che gli imprenditori avrebbero pagato ad alcuni dirigenti di
Aler, l’azienda regionale che gestisce le case popolari di Milano. E ancora appalti truccati per il verde da distribuire a imprese amiche. Questo è il contenuto di un esposto depositato alla Procura di Milano il 19 marzo scorso e preso in carico dal procuratore aggiuntoAlberto Nobili che lo ha passato, per competenza, ai magistrati che si occupano di reati nella pubblica amministrazione. Il documento è firmato da Frediano Manzi, presidente dell’associazione Sos Racket Usura.

L’annuncio è stato dato dallo stesso Manzi a margine dell’incontro organizzato dalla sua associazione per denunciare l’ennesima amnesia del sindaco
Letizia Moratti. In poche parole, ha sottolineato più volte Manzi “il sindaco si è rifiutato di darci la sede”. Sì, perché tra le altre cose, l’unica associazione che a Milano si occupa di combattere il racket della criminalità organizzata oggi non ha un luogo dove riunirsi.

In realtà, la notizia più importante è quella sull'
Aler ed è deflagrata come una bomba a palazzo Marino, sede del comune. Sì, perché nell’esposto si fanno i nomi del direttore generale dell'azienda delle case popolari, Domenico Ippolito e di quello del direttore gestionale Marco Osnato, consigliere comunale, uomo di punta delPdl milanese e parente del ministro della Difesa Ignazio La Russa.

Nel documento vengono riportate le affermazioni, ancora tutte da verificare, di un ingegnere che ha lavorato per l'
Aler per anni partecipando a bandi e gare d’appalto. “E’ prassi consolidata – sostiene il professionista – sin dal 1991 che le aziende che partecipano a bandi indetti dall’Aler paghino una tangente del valore del 5% dell’importo sull’appalto all’attuale direttore generale di Aler, Domenico Ippolito”. Lo stesso che avrebbe fatto da "collettore delle tangenti che presumibilmente distribuisce ad altri soggetti". Anche per questo, l’ingegnere consiglia di “verificare lo stato patrimoniale del direttore generale dell’Aler”. Dopodiché il documento entra nei particolari, facendo nomi e chiarendo le modalità di un’impresa, ad esempio, specializzata in pulizie "che ha sempre pagato il 5% di tangente a Ippolito". Non sembra finita, perché oltre alle mazzette ci sarebbero anche appalti disegnati ad hoc per favorire certe imprese. Tra queste una specializzata nello sgombero delle case occupate (rimozione di calcinacci e mobili). "Mi viene riferito – scrive Manzi - di un bando ad hoc creato appositamente per l’ unica azienda che da 20 anni si occupa degli sloggi degli occupanti abusivi, che addirittura non avendo concorrenti applica all’Aler il 40% in più del valore di mercato del suo servizio. Servizio che si vede rinnovare puntualmente l’ assegnazione del bando di gara".

Ma, per
Sos Racket, ci sono anche i bandi spezzatino ideati per favorire una stretta cerchia di amici. Sul punto si cita l’esempio di un appalto da 7,8 milioni di euro per la gestione del verde nei palazzi Aler della provincia di Milano. Appalto che sarebbe "stato assegnato ad amministratori evitando di fatto di indire un bando pubblico, commettendo il reato di abuso di ufficio per frazionamento gara di appalto". Documento firmato oltre che da Osnato e Ippolito, anche da un geometra. E questo, si legge nell’esposto, "nonostante ci fosse parere negativo da parte del capo ufficio appalti avv. Irene Comizzoli". In particolare, si tratterebbe di diversi lotti da 240.000 euro l’uno. Tutti finiti “agli amici di Osnato” che si sarebbero aggiudicati i vari lotti mascherandosi dietro a diverse imprese sempre riconducibili a loro. In serata Aler ha diffuso un comunicato per "diffidare il signor Manzi a rilasciare dichiarazioni lesive degli interessi di Aler, riservandosi di denunciare davanti alle autorità competenti questi episodi".

In realtà, l’incontro con il presidente dell’associazione
Sos racket usura doveva rappresentare l’ennesima denuncia alla distrazione della giunta Moratti. E in effetti così è stato. L’appuntamento era in piazzetta Capuana nel cuore di Quarto Oggiaro, quartiere ad alto tasso di criminalità ricavato alla periferia nord della città. Un tavolino, due sedie e un telefono senza fili. Allestimento simbolico, ma fino a un certo punto. Perché, al di là, di tutto e della sede che ancora non c’è, il senso di questa iniziativa era dimostrare la presenza sul territorio. Presenza attiva, tanto che sempre oggi, Manzi ha presentato un questionario di undici domande da far girare nei palazzi popolari di Quarto Oggiaro e di altre tre zone della città, tra cui via Padova.

Al centro la necessità di smascherare il
racket degli alloggi abusivi, quasi sempre gestito da appartamenti alla criminalità organizzata. Tra i sostenitori dell’iniziativa anche l’attore sotto scorta Giulio Cavalli, appena eletto consigliere regionale nelle fila dell'Idv, che dal prossimo giovedì accompagnerà Manzi casa per casa a distribuire il questionario.

Da
il Fatto Quotidiano del 23 aprile

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2477948&yy=2010&mm=04&dd=23&title=milano_appalti_truccati_alle_c



Si sfascia il partito del padrone - Luca Telese

23 aprile 2010
Berlusconi va all'attacco e prova l'affondo, ma la direzione si trasforma in rissa mediatica

"Perché, che cosa fai? Mi cacci? Eh?". E allora
Gianfranco Fini sorride ironico, fa il gesto della mano a pendolo, via-via e di nuovo: "Che fai, mi cacci?". Poi si alza in piedi, avanza versoSilvio Berlusconi, punta il dito e gli ripete la frase a un metro di distanza rovinandogli il finale del discorso. Una delle immagini che resteranno di questa giornata, assieme alle mani impotenti del premier che fanno stringi-stringi per chiedere a Verdini di mettere fine all’intervento del rivale. Insieme a quel moto di rabbia che lo porta sul palco subito dopo. Insieme alle parole a pesce, gridate senza audio dal microfono non collegato, mentre parla il suo grande nemico. Ai materassi. Alla fine del discorso di Fini c’è una stretta di mano algida, tra i due, senza guardarsi in faccia. Poi Berlusconi sale sul palco per replicare. E’ furibondo, nero, gli occhi sono due fessure, sembrano pesti. Ma al contrario di Fini non ha una scaletta pronta. Parla a braccio, e finisce il suo discorso nel battibecco: "Un presidente della Camera – grida – non deve fare dichiarazioni politiche! Se le vuoi fare devi lasciare la carica, ti accoglieremo a braccia aperte, ma ti devi dimettere!".

Leso format. Alla fine, il gesto che Berlusconi non perdona all’ex leader di An è il reato di lesa maestà. Anzi, di più: leso format. Ovvero il peggio che potesse capitare a un cultore del rito catodico come Silvio Berlusconi: allestire una coreografia studiata nei minimi dettagli, una liturgia mediatica, una scaletta precisa, e vedersela stravolta da un imprevisto. Prepararsi la scena come protagonista, sul podio dell’Auditorium di via della Conciliazione, trasformato ancora una volta in settelevisivo dal fido regista Giuseppe Sciacca (un maestro, quello della Corrida e dei congressi di Forza Italia) e ritrovarsi poi, invece, nel ruolo del co-protagonista, relegato nel controcampo delle inquadrature che facevano da contrappunto al discorso di Fini, avendo dietro alle spalle una tenda nera (quella alle spalle della presidenza) invece del fondale azzurrino. Lui seduto e livido; Fini in piedi, ironico. La scaletta predisposta dalpremier era questa: prima il suo saluto, poi l’intervento di tutti i ministri anti-finiani, persino qualche sottosegretario (come Alfredo Mantovano), quindi – come aveva detto lui stesso – "la parola ai co-fondatori del partito, Fini, Rotondi, Giovanardi". Orologio alla mano Fini avrebbe parlato non prima delle 16, unica voce dissonante nel coro. E Berlusconi avrebbe concluso.

Intervento imprevisto. Ma tutto il programma salta. Dalla sera prima il presidente della Camera fa sapere che non accetterà il ruolo di comparsa. La mattina il nodo non è sciolto. Al premier arrivano diversi messaggi: "Gianfranco non ci sta". Alle 11:50 Berlusconi guarda Fini, lo vede alzarsi. Forse pensa che stia per andare via. Allora improvvisa: “Gli chiediamo se vuole prendere la parola, siamo qui ad ascoltarlo...". Fini non se lo fa dire due volte. Sale sul podio: invece di dieci minuti parlerà un’ora. Una vera e propria relazione. La prima bordata arriva subito: "Anche nella regia, oggi sembra che ci sia l’atteggiamento un po’ puerile di chi vuole nascondere la polvere sotto il tappeto!". Poi le mozioni d’orgoglio: "Sono abituato a dire quello che penso...". Quindi la prima stoccata: "Vedi, Bondi! Sono stato oggetto di trattamenti mediatici, da colleghi, mi riferisco ai giornalisti, lautamente pagati da stretti familiari del presidente del Consiglio!".

Sulla sala cala il silenzio, il discorso di Fini si impenna: "Sono stato accusato di alto tradimento, oggetto di bastonate mediatiche, roghi, ipotesi di licenziamento...". Poi il cambio di passo che taglia il fiato ai membri della direzione. Si rivolge direttamente al premier, guardandolo: "Berlusconi te lo dico in faccia: il tradimento che è certamente poco dignitoso, viene da chi alle spalle dice il contrario di ciò che dice pubblicamente, raramente il tradimento è nella coscienza di chi si assume la responsabilità di quel che pensa in privato e in pubblico...". E qui il premier sbotta. La regia lo inquadra. Si agita. Non si sente cosa dice. Quando arriva l’audio la voce è strozzata: "...Non attribuire a me cose che non ho mai dettooo!". Il palco è diventato un ring, un corpo a corpo. Formalmente Fini ribadisce la fiducia al governo, tributa al premier i suoi meriti, ma allo stesso tempo compone il suo j’accuse spietato: "Al nord siamo diventati come la fotocopia della Lega!". Fini cita le mire di Bossi sulle banche, la rinuncia del Pdl ad abolire le province, i decreti sul federalismo, il fatto che "difendere il bambino del padre extracomunitario che perde il lavoro, cacciato dalle scuole è rispetto della dignità dell’uomo". Spara una raffica di domande retoriche: "E’ eretico dire che i medici non devono fare la spia?". Si può accettare che "in Lombardia ci siano solo professori lombardi, e in Veneto veneti?".

Processi cancellati. Il vero show-down è sul conflitto di interessi. Prima Fini attacca sulla proprietà de Il Giornale, poi sulla giustizia: "Difendere la legalità significa andar fieri degli arresti, ma anche non dare l’idea che la riforma della Giustizia non serve a creare sacche di privilegio...". La platea a questo punto fischia. Fini insiste: "Ricordi la nostra litigata sul processo breve? 600 mila processi cancellati dalla sera alla mattina!". Di nuovo Berlusconi grida, dalla presidenza: "Ma dai, Gianfrancoooo!": E lui, passando al chiamarsi per nome: "Silvio, è inutile che mostri insofferenza...". Il premier sale sul palco infuriato, contrattacca: "Il nostro partito è stato esposto al pubblico ludibrio con le presenze in televisione diBocchino, di Urso e Raisi!". E sul Carroccio: "La verità, come mi ha spiegato La Russa, è che la Lega è la fotocopia delle posizioni abbandonate da An!". Allora Fini pizzica il suo ex colonnello, sarcastico: "Bravo, Ignazio, bravo...". La Russa si sbraccia come per dire no-no. Si arriva al cataclisma. Berlusconi: "Sei venuto da me a dire: 'Mi sono pentito di aver fatto il Pdl! A dirmi: ‘Voglio fare un altro gruppo'!!!". E Fini, in piedi: "Ma che stai dicendo!". Il retroscena è morto, meglio: è tutto sulla scena. Il voto finale conta zero. L’uomo che ha vinto grazie alla tv, ha perso un duello tv, sulla sua tv: una vittoria numerica, una sconfitta mediatica. Il partito dell’amore finisce a pesci in faccia.

Da
il Fatto Quotidiano del 23 aprile



giovedì 22 aprile 2010

Obiettivo: diffamare - Marcello Santamaria

22 aprile 2010

Il Tribunale di Monza ha condannato per la terza volta "il Giornale" per gli articoli su Di Pietro.

Non è vero che
Antonio Di Pietro abbia fatto pasticci con i rimborsi elettorali dell’Italia dei Valori e con l’acquisto di case. L’ha stabilito il Tribunale civile di Monza, che in tre sentenze ravvicinate spazza via anni e anni di campagne del Giornale, condannando in primo grado il quotidiano della famiglia Berlusconi a risarcire l’ex pm per un totale di 244 mila euro, avendolo più volte diffamato con una serie di articoli. Soccombenti l’ex direttore Mario Giordano, i giornalistiGian Mario Chiocci, Massimo Malpica e Felice Manti, oltre all’ex deputatoElio Veltri. Ma, al di là dei nomi, il punto è un altro. Le denunce penali e civili sono rischi del mestiere di giornalista e può capitare a tutti di incappare in una parola di troppo, un’inesattezza dovuta alla fretta, un eccesso di sintesi o di critica, insomma in un errore in buona fede. Qui invece i giudici hanno accertato un modus operandidi assoluta malafede: quello delle sistematiche campagne diffamatorie di chi sa di avere le spalle coperte da un editore pronto a investire milioni di euro per screditare, sui giornali e le tv che controlla in conflitto d’interessi, i propri avversari politici. Qui non si parla di cronisti che sbagliano, ma di killer che mentono sapendo di mentire.

Nel primo articolo incriminato, pubblicato il 7 gennaio 2009, il Giornalesparava i titoloni cubitali "I trucchi di Di Pietro per sfuggire alle intercettazioni" e "Tonino eludeva le intercettazioni coi cellulari criptati dei suoi indagati. Oggi il leader Idv attacca ogni proposta di riforma del sistema, ma quando era magistrato usò schede protette intestate all’autista di Pacini Battaglia". In pratica, Di Pietro non teme le intercettazioni perché le elude con "trucchi" fin da quando "indossava la toga e indagava su Pacini Battaglia".

Tutto questo, secondo il Tribunale, è "palesemente inveritiero", una "falsa affermazione", e chi l’ha scritta non l’ha fatto involontariamente visto che cita la sentenza del Gip di Brescia che la smentiva per tabulas: "E’ stato accertato che il presunto utilizzo della scheda svizzera (febbraio-giugno 1995)...risale a epoca in cui è pacifico che Di Pietro non esercitava più le funzioni giudiziarie (dal 7 dicembre 1994)" . I giornalisti del Giornale erano a "sicura conoscenza" della falsità di quel che scrivevano, eppure l’hanno scritto lo stesso. Perciò Chiocci, Malpica e Giordano devono risarcire Di Pietro per 240 mila euro, fra danni morali e riparazione pecuniaria.

La seconda sentenza riguarda ancora Giordano e Chiocci per un altro titolone in prima pagina: "L’Italia dei Valori. Immobiliari. Di Pietro ha investito quattro milioni di euro in case. Ecco il suo patrimonio", seguito da due pagine intitolate: "Di Pietro gioca a Monopoli: ha case in tutt’Italia. Ma è giallo sui suoi conti. Montenero, Bergamo, Milano, Roma e Bruxelles: l’ex pm ha speso 4 milioni di euro tra il 2002 e il 2008, ma non è chiaro con quali soldi abbia acquistato ville e appartamenti". Il teorema è noto: Di Pietro compra case con fondi misteriosi, forse quelli del partito. “Il postulato di fondo” – riassume il giudice – è “la presunta commistione tra il patrimonio immobiliare personale di Di Pietro e quello del partito IdV...commistione che – nonostante l’archiviazione del procedimento penale che si è occupato della questione – viene comunque prospettata quale congettura sottesa agli interrogativi del giornalista, all’evidente scopo di screditare la credibilità e l’immagine del leader".

Anche qui non c’è ombra di buona fede: c’è la solita campagna di balle orchestrate ad arte. La sentenza parla di "volute inesattezze e reticenze, così da accreditare la tesi del giornalista che, interrogandosi sulle proprietà immobiliari di Di Pietro e dei suoi familiari (‘Ma quante case ha l’onorevole Di Pietro? E con quali soldi le ha comprate?’) in rapporto ai redditi dallo stesso dichiarati ed al patrimonio della società immobiliare di sua proprietà (l’An.to.cri, ndr)… senza affermarlo espressamente, intende chiaramente alimentare il dubbio che gli acquisti siano frutto di un illecito storno per fini privati dei fondi del partito e, quindi, anche dei finanziamenti pubblici allo stesso destinati in relazione ai rimborsi elettorali". Anche qui il giornalista sa benissimo che quel che scrive è falso, visto che cita la denuncia di un ex dipietrista, tale
Mario Di Domenico, contro Di Pietro. Denuncia archiviata dal gip di Roma perché "anche in punto di fatto, prima ancora che nella loro rilevanza giuridica, i sospetti avanzati in merito alle citate operazioni dell’avv. Di Domenico sono risultati infondati". Ma il Giornale si guarda bene dal riportare quelle parole: "Dall’autore dell’articolo...vengono artatamente sottaciute le motivazioni poste alla base del provvedimento di archiviazione" con uno "scopo evidente": "Ove le ragioni delle concordi determinazioni della Procura e del Gip fossero state riportate (sia pure in sintesi), i dubbi instillati dal giornalista sarebbero risultati non più che mere congetture, prive di concreti riscontri. E invece, espungendo le motivazioni del provvedimento, il lettore (non altrimenti informato) resta confuso, nell’apprendere che, a fronte delle pesanti accuse mosse a Di Pietro dall’avv. Di Domenico circa l’illecito utilizzo di fondi del partito per l’acquisto di appartamenti, ‘la procura capitolina’ avrebbe ‘stigmatizzato’ il comportamento di ‘Tonino’…In realtà la procura non ha affatto ‘stigmatizzato’ il comportamento" di Di Pietro e il gip ha ritenuto "infondati i sospetti avanzati dal querelante, non essendo in alcun modo emerso che Di Pietro ebbe a trarre personale vantaggio dalle operazioni ai danni del partito”. Insomma il Giornale ha ancora una volta, "volutamente" e "capziosamente", "travisato i fatti a discapito del principio di verità della notizia". E lo stesso ha fatto a proposito dell’annosa querelle fra Idv e "Il Cantiere" di Occhetto e Veltri per i rimborsi elettorali delle Europee 2004: "L’autore distorce ancora una volta le informazioni”, evita accuratamente di ricordare che il gip di Roma ha “confermato la sostanziale correttezza delle determinazioni assunte dalla Camera nell’individuazione dell’Idv quale unico soggetto legittimato alla percezione dei rimborsi…Informazioni intenzionalmente tralasciate per poter affermare che la Camera avrebbe erogato i rimborsi all’Idv‘senza operare alcun controllo’, dando così al pubblico un’informazione palesemente falsa".

Anche questi articoli sono "diffamatori e lesivi della reputazione" di Di Pietro, che va risarcito con altri 60 mila euro. La terza sentenza riguarda un’intervista di Felice Manti a Veltri. Il Giornale la titolò così: "Vi racconto i maneggi del mio ex amico Di Pietro. Quando tesserò 241 criminali". Tutto diffamatorio fin dal titolo, per giunta manipolato per forzare ulteriormente il pensiero di Veltri, a cui l’autore attribuisce una frase mai pronunciata ("Di Pietro iscrisse ai Democratici per Prodi l’intera via della malavita di Cosenza"). Ma il giudice ne ha ritenuta diffamatoria anche una effettivamente pronunciata, "laddove Veltri ha dichiarato che i soldi del finanziamento pubblico non vanno al partito, bensì personalmente a Di Pietro, a
Susanna Mazzoleni (la moglie, ndr) e a Silvana Mura (la tesoriera Idv, ndr) e ha dichiarato che un’ordinanza del Tribunale di Roma avrebbe affermato che i finanziamenti non possono andare all’associazione" omonima al partito Idv. Ora, "l’ordinanza del Tribunale di Roma non reca una siffatta affermazione", anzi dice che "il finanziamento pubblico va all’associazione IdV e il Tribunale di Roma non ha ritenuto illegittima tale condotta… circostanza di cui Veltri era a conoscenza": l’ordinanza l’ha prodotta lui al giudice di Monza. Dunque la notizia pubblicata dalGiornale "non è oggettivamente vera" e ha "leso la reputazione e l’immagine dell’on. Di Pietro", che va risarcito con 44 mila euro. Che, aggiunti agli altri risarcimenti, fanno 344 mila euro: quanto basta per comprare un’altra casa a spese della famiglia Berlusconi.

Da
il Fatto Quotidiano del 22 aprile

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2477334&yy=2010&mm=04&dd=22&title=obiettivo_diffamare


Il prof. Boldrin: Uno spettacolo che mette tristezza - Ballarò (20-04-2010)


mercoledì 21 aprile 2010

COMUNE INGRATO - Federico D'Orazio



A L’Aquila, in Consiglio Comunale mesi fa, degli scellerati avevano presentato una mozione per conferire la cittadinanza onoraria a Guido Bertolaso.

Proposta fatta da consiglieri del centrodestra. La città, come prevedibile, s’è spaccata in opposte fazioni, ma la proposta era di quelle che non potevano essere lasciate cadere senza dargli importanza.

Sin dall’inizio ho sposato insieme a tanti amici, la causa di chi si opponeva. Nei mesi, ho trovato sempre più ragioni per oppormi a quest’atto, che avrebbe sancito lo spregio istituzionale dei più importanti valori democratici. Chi è sotto inchiesta, specie se si trova sotto inchiestE, non può e non deve ergersi (né essere eretto) a vittima sacrificale. Vale per tutti. Dal Presidente del Consiglio in giù e in su.

Dopo l’emergenza, gli scandali delle intercettazioni, gli sciacalli ridens, le denunce per mancato allarme e conseguente omicidio colposo (tutte ipotesi di reato, al momento), L’Aquila ha detto no.

La mozione è stata votata con 14 no, 1 astenuto, due si. Gli altri sono pure usciti dall’aula.

Per la prima volta da mesi, sono orgoglioso della mia città, del mio Comune.

Per la prima volta ho visto affermare un principio in cui mi riconosco: Bertolaso, non è martire, Bertolaso non è eroe. Bertolaso è fallibile.

A L’Aquila, per più d’uno, ha sbagliato.

Bertolaso non è uno di noi. Bertolaso non è, e non sarà, cittadino onorario Aquilano.

E ora si può andare avanti, a testa alta. Come prima.

Anche il mio Comune, un anno dopo, ha voluto per sé l’etichetta che noi altri ci siamo presi da tempo. INGRATO.


http://stazionemir.wordpress.com/2010/04/21/comune-ingrato/#comment-644

E ora, per favore, chiedete scusa - Marco Travaglio



20 aprile 2010
Due anni fa il Csm puniva Luigi De Magistris, vietandogli di fare mai più il pm, e lo trasferiva da Catanzaro a Napoli, dopo che aveva denunciato un complotto politico-giudiziario per sottrargli e insabbiare le inchieste Poseidone e Why Not. Un anno fa lo stesso Csm destituiva il procuratore di Salerno Luigi Apicella e puniva i suoi sostituti Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, trasferendoli nel Lazio e vietando pure a loro di fare mai più i pm, dopo che avevano accertato il complotto ai danni di De Magistris e dunque indagato e perquisito i vertici della magistratura catanzarese che da mesi rifiutavano di trasmettere copie del fascicolo Why Not. Un ampio e trasversale fronte politico-giudiziario-affaristico-mediatico, con l’avallo del capo dello Stato, spacciò le indagini sulla fogna di Catanzaro per una “guerra fra procure” e i provvedimenti delCsm per una saggia azione pacificatrice. In realtà le indagini di De Magistris erano corrette e doverose, così come quelle dei pm salernitani, e chi ha trasferito gli uni e gli altri non ha fatto altro che coronare la congiura ordita dalla cupola calabrese. L’avevano già stabilito i provvedimenti emessi dal Riesame di Salerno (respingendo i ricorsi dei perquisiti a Catanzaro) e dal Tribunale di Perugia (che aveva archiviato le denunce dei pm catanzaresi contro Nuzzi, Verasani, Apicella e De Magistris).

Ma ora lo conferma anche l’
"avviso di conclusione delle indagini" appena depositato dalla "nuova" Procura di Salerno, che Il Fatto oggi rivela: un atto che prelude alle richieste di rinvio a giudizio per i magistrati catanzaresi che scipparono le indagini a De Magistris e/o presero il suo posto (Lombardi con la convivente e il figliastro, Favi, Murone, Iannelli, Garbati, De Lorenzo, Curcio) e per gli indagati eccellenti che avrebbero corrotto alcuni di loro per farla franca (Saladino, Pittelli e Galati). Le accuse vanno dalla corruzione giudiziaria all’abuso, dal falso al rifiuto di atti d’ufficio al favoreggiamento. La nuova Procura di Salerno che conferma la bontà delle indagini di Nuzzi, Verasani e Apicella è quella guidata da un anno da Franco Roberti, il valoroso pm campano protagonista delle più recenti indagini su Gomorra, che ha il merito di avere decapitato il clan dei Casalesi.

Che sia diventato improvvisamente anche lui un incapace, come i colleghi puniti, esiliati e degradati sul campo? Che meriti pure lui un’intemerata dal Quirinale e un’immediata punizione dal
Csm? Fino a quando le istituzioni fingeranno di non vedere quel che è accaduto e ancora accade nella fogna di Catanzaro, eliminando e imbavagliando chiunque osi metterci il naso (oltre ai pm già citati, quella cloaca ha risucchiato Clementina Forleo, Carlo Vulpio, Gioacchino Genchi e altri galantuomini). Nessuno confonde un avviso di chiusura indagini con una sentenza di condanna. Ma se, sotto la guida di Roberti, la Procura di Salerno giunge alle stesse conclusioni di quella guidata da Apicella, vuol dire che le indagini che costarono la carriera ai quattro pm erano tutt’altro che sballate.

E ora chi li ha linciati dovrebbe cospargersi il capo di cenere, ammettere la clamorosa cantonata e correggere l’errore. In due modi: ripulendo finalmente gli uffici giudiziari di Catanzaro dai magistrati inquisiti (e fra breve imputati) per corruzione giudiziaria e altri gravissimi reati, finora incredibilmente lasciati quasi tutti al loro posto; e annullando le sanzioni contro Nuzzi e Verasani (De Magistris ormai è eurodeputato e Apicella pensionato), restituendo loro l’onore, le funzioni e l’ufficio. Il 1° ottobre 2009 De Magistris si dimise dalla magistratura con una lunga lettera al presidente della Repubblica (e del
Csm) Giorgio Napolitano, pubblicata integralmente dal Fatto. Conteneva una serie di drammatici interrogativi sulle sconcertanti interferenze del capo dello Stato nel caso Catanzaro-Salerno. Nessuna risposta. Alla luce delle ultime notizie in arrivo da Salerno, il capo dello Stato non ha nulla da dichiarare?

Da
il Fatto Quotidiano del 20 aprile


Le bugie di Mondadori e la censura sui 'Padrini' - Peter Gomez



21 aprile 2010
In un saggio sulla mafia del '94, sparito il legame Mangano-Berlusconi. Fini: io sto con Saviano.

La bugia più grossa,
Marina Berlusconi l’ha messa nero su bianco a metà della sua lettera di risposta a Roberto Saviano, pubblicata da La Repubblica domenica scorsa. Dopo aver difeso il padre che aveva tra l’altro accusato lo scrittore e chi racconta la mafia di fare “cattiva pubblicità all’Italia”, la figlia del premier assicura che quella era solo un critica - peraltro da lei condivisa - e considera: “La Mondadori fa capo alla mia famiglia da vent’anni. In questi venti anni abbiamo sempre assicurato, come è giusto e doveroso, secondo il nostro modo d’intendere l’editore, il più assoluto rispetto delle opinioni di tutti gli autori e della loro libertà di espressione”. Un’impegnativa affermazione di principio che si scontra con la realtà dei fatti. Perché i libri in Mondadori - come insegnano i casi di Belpoliti e Saramagorifiutati da Einaudi - a volte vengono censurati. E la pratica va avanti da anni. Non per niente risale proprio al 1994, periodo della discesa in campo di papà Silvio, uno dei più sconcertanti episodi di tagli redazionali operati proprio su un saggio riguardante Cosa Nostra. La Mondadori traduce il libro L’Europe del parrains(L’Europa dei padrini), in cui il giornalista francese Fabrizio Calvi parla anche delle vecchie inchieste della Criminalpol (1984) sui “legami dell’entourage di Berlusconi con il boss Vittorio Mangano”. Dall’edizione italiana però i riferimenti al Cavaliere e al capo del clan mafioso di Porta Nuova, per due anni fattore di villa San Martino ad Arcore, scompaiono.

Semplice prudenza per non andare a urtare la sensibilità dell’editore e di un uomo d’onore amico della sua famiglia? Può darsi. Certo è, però, che la cronologia dei fatti (di mafia) lascia spazio pure ad altre interpretazioni. A spunti forse utili per rispondere alla polemica domanda lanciata ieri dal presidente della Camera,
Gianfranco Fini, durante una riunione con i parlamentari Pdl a lui fedeli: "Come è possibile dire che Saviano con il suo libro ha incrementato la Camorra? Come si fa a essere d'accordo?”. Infatti, proprio nei mesi della pubblicazione de L’Europa dei padrini, Mangano era tornato a frequentare Milano 2. Da alcune agende, sequestrate a Marcello Dell’Utri, risulta che il capo-mafia si vede a fine ‘93 con l’allora numero uno di Publitalia (lo ammette anche Dell’Utri). Mentre nella sentenza di primo grado che ha condannato il senatore azzurro a 9 anni per cose di Cosa Nostra, si parla d’incontri in provincia di Como che proseguono fino al ‘95. Oggetto dei colloqui, per i giudici, sono delle norme pro-cosche che Dell’Utri tenta di far approvare, in cambio di appoggi elettorali e la richiesta della fine della stagione delle stragi. È la presunta “seconda trattativa” nella quale andrebbe pure inquadrato, secondo le ipotesi investigative, pure il famoso decreto Biondidell’estate ‘94, (salva ladri) nel quale, come dice all’epoca il leghista Bobo Maroni, ci sono anche passaggi che favoriscono la mafia . Subito dopo il decreto (non convertito in legge) Berlusconi tuonerà per la prima volta contro i film e i libri che denunciano Cosa Nostra. Per la gioia di Michele Greco, il papa della mafia che in carcere aveva detto “è tutta colpa de Il Padrino” se in Sicilia vengono istruiti i nostri processi”, il premier dichiara il 14 ottobre del ‘94: “Speriamo di non fare più queste cose sulla mafia come La Piovra, perché questo è stato un disastro che abbiamo combinato insieme in giro per il mondo. Da La Piovra in giù. Non ce ne siamo resi conto, ma tutto questo ha dato del nostro paese un’immagine veramente negativa. Si pensa all’Italia e sapete cosa viene in mente... C’è chi dice che c’è anche la mafia, nella realtà italiana”. Immediato il plauso di Totò Riina, in manette dal ‘93, che durante un processo dice: “È vero, ha ragione il presidente Berlusconi, tutte queste cose sono invenzioni, tutte cose da tragediatori che discreditano l’Italia e la nostra bella Sicilia. Si dicono tante cose cattive con questa storia di Cosa Nostra, della mafia, che fanno scappare la gente. Ma quale mafia, quale piovra, sono romanzi”. La figlia del premier questa storia sembra però non conoscerla. Eppure di motivi per ricordare ne ha parecchi. Anche perchè Mangano, tra il ‘74 e il 76, era la persona che l’accompagnava ogni mattina a scuola. E l’affetto che il boss provava nei suoi confronti è pure dimostrato dal nome con cui Vittorio e la moglie decisero di battezzare la loro terzogenita: Marina, Marina Mangano.

da Il Fatto Quotidiano del 21 aprile 2009